L’interregno e la possibilità di una strada europea verso l’unificazione fiscale

Gustavo Piga riflette sulle possibilità di individuare una strada europea verso l’unificazione fiscale, prendendo come riferimento storico l’esperienza degli Stati Uniti. La conclusione a cui giunge è che solo l’abolizione delle regole fiscali europee, calate dall’alto, unita ad un forte richiamo alla responsabilità dei singoli stati di fonte ai propri cittadini e ai mercati può favorire la ripresa del cammino verso la realizzazione degli Stati Uniti d’Europa. Si tratta di una ‘terza via’ tra l’uscita dall’euro e l’unione fiscale subito.

Che tempi, quelli del quasi 50% a Trump e dei sovranismi europei quasi maggioritari! Tempi che a guardarli bene solo vent’anni anni fa, saremmo stati incapaci di prevederne l’avvento, ammettiamolo, ma anche tempi altamente incerti e imprevedibili per dove ci condurranno. Tempi per i quali esiste già una parola: “interregno”.

È un periodo di tempo, l’interregno, caratterizzato – si legge sulla Treccani – da un vuoto di potere o meglio da un conflitto per il potere: intervallo di tempo fra la morte, l’abdicazione, la deposizione di un re, o altro sovrano, e l’elezione o la proclamazione del successore. Periodo spesso di passaggio, di transizione, di crisi. Di solito è un lasso temporale che non gode di ottima stampa: tempi orribili li chiamava Schiller, mentre Gramsci affermava nelle sue Lettere dal carcere: “se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più «dirigente», ma unicamente «dominante», detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.

E cosa sono i nostri tempi – se non … un interregno – con questa guerra tra (in Europa) euro o no-euro, tra (nel mondo) unionisti o nazionalisti o meglio tra cosmopoliti o sovranisti?

Il Grande Interregno europeo del ‘200 all’interno del Sacro Romano Impero, per trent’anni rimasto privo di un forte potere centrale a valle della lotta tra Federico II e Papa Innocenzo IV verteva, ideologicamente, sul problema di chi fosse a capo della cristianità, ma era provocato da concreti motivi di politica di potenza: Federico II era Imperatore tedesco ma mostrava di voler estendere il proprio dominio a tutta l’Italia. In maniera interessante, il conflitto si concluse con un indebolimento del potere centrale a favore dei prìncipi territoriali, a conferma che spesso durante le battaglie politiche di interregno si cela un grande tema: quello della ripartizione del potere tra locale e globale, tra periferia e centro.

Lo stesso problema si pose, in un contesto profondamente diverso, all’inizio dell’Ottocento negli Stati Uniti d’America (USA). L’analisi di questo conflitto offre spunti interessanti per riflettere sulla situazione attuale degli Stati europei e sulla possibilità che dai problemi che vive oggi l’Unione Europea possano nascere un giorno i cosiddetti “Stati Uniti d’Europa” (USE).

Tema antico quello degli USE già presente nella riflessione dei primi grandi europeisti italiani, da Altiero Spinelli a Luigi Einaudi; oggi più importante che mai come provo ad argomentare in un libro recente pubblicato per i tipi della casa editrice Hoepli.

La definizione di “stati uniti”, dalla quale parto, è quella di un gruppo di nazioni o stati che decidono di centralizzare le questioni di politica fiscale relative a tutti i cittadini: quanto spendere, dove spendere, come finanziare tale spesa, cosa tassare. Il ricercatore che si occupa di questi temi si pone una questione innanzitutto di metodo: che angolo dare all’analisi, uno positivo/descrittivo o uno normativo/prescrittivo? Chi sceglie la seconda prospettiva cerca di rispondere alla domanda “cosa è meglio, cosa è ottimale?” È meglio andare verso gli USE o rinunciarvi? E se si decide di muoversi verso la realizzazione degli USE, qual è la velocità ottimale? Tornerò su questo aspetto più avanti. Ma vi è poi la dimensione positiva, che invita il ricercatore a domandarsi “Può succedere davvero”? Una domanda importante, che alimenta vivaci speculazioni, tipicamente basate sul confronto con altre esperienze.

Esistono molti esempi di unioni fiscali tra stati diversi, la federazione indiana, la federazione russa, la federazione svizzera e – ovviamente gli Stati Uniti d’America. Sarebbe ingenuo cadere nella trappola di prendere gli Stati Uniti di oggi, con la loro capacità di tenere insieme stati “diversi”, come il modello al quale l’Unione europea deve conformarsi da subito, centralizzando la politica fiscale a Bruxelles come loro la hanno centralizzata a Washington: con un unico ministro dell’economia, un segretario del Tesoro a Bruxelles. No.

Il vero confronto da fare è tra l’Eurozona di oggi, a 20 anni dalla sua nascita, e gli USA di ieri, a 20 dalla loro nascita, all’inizio dell’Ottocento. Nel farlo, impareremo ciò che può accadere quando stati “diversi” cercano di mettere assieme le proprie politiche fiscali per costruire un’Unione: un caso di studio che può fornire utili indicazioni su come realizzare lo stesso obiettivo in Europa.

All’inizio dell’Ottocento, i Federalisti americani, favorevoli alla Costituzione e alla creazione di un governo centrale, si scontrarono con gli Anti-federalisti, contrari alla Costituzione e desiderosi di mantenere la maggior parte del potere nei governi statali e locali. I due gruppi concordavano sul fatto che l’unica forma possibile di governo per il loro paese fosse quella federale. I Federalisti, però, volevano centralizzare le risorse fiscali e militari per proteggere meglio la nuova nazione dalle minacce esterne, gli antifederalisti non volevano farlo, insistendo testardamente sulla necessità di tutelare gli interessi locali in materia di tassazione e rappresentanza.

I Federalisti, sembrerebbe, hanno vinto. La politica fiscale è centralizzata a Washington e gli Stati Uniti d’America sono oggi veramente uniti, secondo la mia definizione. Ma ci è voluto molto tempo. La politica fiscale non fu centralizzata per oltre un secolo, dopo la nascita degli USA. Ogni stato rimase a lungo geloso delle sue prerogative fiscali e insensibile al richiamo della solidarietà reciproca.

Da qui otteniamo la prima lezione, la solidarietà non si realizza facilmente, anche tra nazioni convinte di avere un destino comune, e ci vuole tempo perché l’idea di solidarietà si affermi e da questa nasca un senso di fraternità.

Perché gli stati d’America arrivassero a fidarsi di “Washington DC”, ci sono voluti l’invenzione del treno, una guerra civile, la Prima guerra mondiale, il desiderio di sostituire la Gran Bretagna alla guida del mondo. Tutti questi fattori e molti altri hanno permesso una lenta convergenza tra le diverse culture degli Stati d’America e la capacità di fraternizzare.

Gli ultimi elementi, i più importanti, che resero possibile la centralizzazione fiscale, furono la Grande Depressione, e un grande leader, il Presidente Roosevelt, che usò le risorse degli stati meno colpiti per aiutare gli stati più bisognosi, senza vincoli, e che seppe convincere i cittadini, o almeno una maggioranza di essi, della bontà di un progetto capace di rappresentare le istanze di coloro che soffrono. Quando ciò avvenne, la centralizzazione ebbe il via libera e gli Stati d’America divennero finalmente davvero Uniti. Abbiamo dunque un secondo risultato empirico guardando alla storia degli USA: la solidarietà genera un’accettazione per la centralizzazione, per la delega al centro. In un certo senso solidarietà e centralizzazione che giungono insieme rivendicano le tesi degli antifederalisti: non si può avere centralizzazione senza una efficace rappresentanza del popolo e ascolto delle sue istanze, specie in tempi difficili e di crisi.

E l’Europa?

Abbiamo Ryan Air al posto del treno, possiamo viaggiare a basso costo e conoscerci meglio (abbiamo l’Erasmus). Abbiamo avuto la nostra gran parte di guerre interne, che ci hanno spinto a creare istituzioni comuni per la pace che poi sono diventate istituzioni comuni per contare nel mondo. Quindi abbiamo tutto? Siamo pronti per la centralizzazione? No.

Abbiamo dimenticato un ultimo elemento di cui dovremmo parlare: la crisi. Abbiamo avuto anche una crisi, in realtà due crisi, una nel 2011 e una ora con la pandemia. Nella crisi del 2011 non ci fu solidarietà (anche per mancanza di leader) per i più deboli, come Grecia ed Italia. Fu un’Europa che reagì in modo molto diverso dagli Stati Uniti di Roosevelt. Nel 2011, l’Italia e la Grecia, di fronte a una recessione profonda dai drammatici risvolti sociali, sono state “invitate” (obbligate?) ad adottare severe politiche di austerità da parte dei paesi più ricchi, politiche che hanno fatto salire alle stelle la disoccupazione e la povertà. La nostra Costituzione europea, basata su regole fiscali stringenti, ci ha tradito, favorendo la nascita di partiti anti-europei in tutti i paesi in crisi e non solo (basti pensare alla Germania).

Durante i primi mesi della crisi Covid le cose sono andate un po’ meglio, con il Recovery Plan. Ma gli stessi prestiti del Recovery hanno dei vincoli, non è solidarietà al suo vero livello, per non parlare di fraternità: in particolare spicca quell’assurdo accordo a riportare (durante Covid!) nel prossimo triennio (previsto dalla Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza) il bilancio primario in pareggio. Ciò creerà tensioni e insoddisfazione rispetto all’Europa, mettendola a rischio nuovamente. Ancora più importante, in un ambiente europeo tutt’oggi soggetto a grandi divisioni culturali, abbiamo ascoltato sgomenti le parole degli olandesi sul “Nord frugale contro il Sud dissoluto”. Non ci siamo, lo scenario è ancora tremendamente a rischio di una rottura in stile Brexit.

Quindi cosa è necessario per invertire il percorso e riprendere con successo la marcia verso gli USE? Il Recovery Fund è condizione necessaria ma non sufficiente. Dobbiamo guadagnare tempo, tempo per conoscerci meglio, per giungere a quella comprensione reciproca e a quel senso di vera solidarietà che sono la premessa per la centralizzazione delle risorse fiscali. Ma tempo ben speso.

Un ministro comune dell’Economia oggi – come auspicato da Macron – sarebbe finlandese o olandese e non autorizzerebbe alcuna forma d’aiuto a chi ne ha bisogno perché in difficoltà. E questa sarebbe la fine del progetto europeo. Serve un progetto, una costituzione fiscale radicalmente diversa da quella attuale che permetta qualcosa di molto semplice: la capacità per i singoli Paesi colpiti da una crisi di affrontarla da soli ma sapendo di poter contare sul sostegno della famiglia europea.

Abbiamo bisogno di una Costituzione che permetta ai paesi in difficoltà di reagire, senza vincoli fiscali né per l’oggi né per il domani. Italia e Grecia hanno bisogno di autonomia in tempi di crisi con una propria politica fiscale, molto più di un Recovery Fund che con una mano dà e con l’altra toglie. Autonomia, ma con responsabilità.

Negli USA non c’è mai stato un tempo in cui gli stati non avessero avuto la possibilità di fronteggiare eventuali crisi interne. Le regole di bilancio in pareggio per gli stati negli Stati Uniti sono diventate rilevanti una volta che la politica fiscale solidale è stata messa in atto a livello centrale e quindi non era più necessaria una politica fiscale locale attiva. Abbiamo dunque bisogno di una nuova Costituzione, che ci faccia guadagnare tempo. Una Costituzione che non promette solidarietà, impossibile in questo momento, ma che consenta a ciascuna nazione d’Europa di affrontare le proprie crisi quando arrivano. Facendo assumere ad ogni stato la responsabilità della bontà (e non dello sperpero) della propria azione di politica fiscale espansiva: di fronte ai propri cittadini, mercati, altri Stati membri.

Se lo facciamo, gli Stati Uniti d’Europa nell’euro, ci insegna l’America, hanno una possibilità di materializzarsi. E per chi crede nell’Europa, torno al punto normativo, per chi crede come me che un’Europa unita sia la cosa migliore, questo è l’unico modo. È una terza via: non fuori dall’euro come desiderano i sovranisti, non con la centralizzazione oggi e subito a Bruxelles, come vogliono gli europeisti tecnocratici e liberisti.

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