L’integrazione degli immigrati in Europa: a che punto siamo?

Marilena Giannetti fa il punto sul processo di integrazione degli immigrati in Europa sulla base di un recente Rapporto congiunto dell’OCSE e della Commissione Europea. I risultati che emergono sono piuttosto variegati tra i diversi paesi ma la gran parte degli indicatori utilizzati nel Rapporto fornisce risultati peggiori per gli immigrati rispetto alla popolazione nativa. Giannetti sottolinea però che questo gap tende a diminuire con il prolungarsi della permanenza degli immigrati nel paese di destinazione.

Mentre in Europa si contavano le vittime dell’emigrazione e nelle Istituzioni Europee si discuteva di come far fronte alla più grande crisi umanitaria dalla fine della seconda guerra mondiale, l’OCSE e la Commissione Europea, hanno pubblicato un Rapporto ricco di utili dati per rendersi conto di come procede il processo di integrazione degli immigrati in vari paesi avanzati, europei e non.

L’integrazione è un processo lungo e complesso che evolve nel tempo ed interessa diverse sfere della vita socio-economica di una persona; per esaminarlo occorre, pertanto, fare riferimento a molteplici indicatori elativi, tra l’altro, alle caratteristiche demografiche, alla vita lavorativa, allo status socio-economico, alla salute, all’istruzione, al livello di discriminazione percepita. Il Rapporto offre informazioni sotto tutti questi aspetti e presta attenzione anche alle seconde generazioni, ossia a coloro che sono nati nel paese di residenza da genitori immigrati.

Iniziamo ricordando che nel 2012, gli immigrati (definiti come persone nate all’estero) presenti nei paesi dell’Unione erano circa 52 milioni di cui 33,5 milioni provenienti da paesi terzi. Negli anni successivi (cfr. International Migration Outlook 2015, OECD) i flussi in entrata nell’UE hanno continuato a crescere. Nel 2014 il numero di coloro che, nell’area OCSE, vivevano in un paese diverso da quello di nascita era cresciuto di oltre il 40% rispetto al 2000 e in alcuni paesi (tra i quali Italia, Irlanda e Spagna) l’incremento è stato superiore al 100%. Anche la quota dei richiedenti asilo è molto cresciuta: nel 2014 l’incremento è stato del 46% rispetto al 2013 e ciò ha portato il totale a 800.000 persone, il secondo valore più alto degli ultimi 35 anni.

Con riferimento a questa massa crescente di individui, il Rapporto fornisce molteplici informazioni sulla distanza che li separa dalla popolazione nativa. La tabella che segue riassume i principali risultati. Il nostro commento riguarderà necessariamente solo alcuni di essi, e farà riferimento principalmente all’UE.

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La situazione socio-demografica. Nel 2012 la percentuale di cittadini che vivono in aree densamente popolate è molto più alta tra gli immigrati rispetto agli autoctoni: nella media dell’UE26 56,6% contro 38,7% (ma in Italia il divario è tra i più bassi: 36,2% contro 31%). Gli immigrati si concentrano nelle aree urbane, dove è più facile trovare un’occupazione e anche a causa di ciò tendono a vivere all’interno di gruppi omogenei per nazionalità, con limitati effetti di integrazione. Inoltre, spesso nuclei familiari numerosi vivono in abitazioni piccole e disagiate.

Nell’UE28, la percentuale di immigrati in età lavorativa (15-65 anni) è più alta di quella dei nativi (approssimativamente 75% contro 65%). In Italia, il gap è maggiore (80 contro 62%) e vicino a quello della Grecia. All’opposto in Polonia il gap è rovesciato: 75% di nativi e 20% di immigrati. In tutta l’Unione (esclusa la Repubblica Ceca) le donne immigrate hanno più figli e ad una più giovane età. Circa un terzo degli immigrati proviene da paesi ad alto reddito e circa il 50% è di origine europea. Nonostante nell’UE circa i 2/3 degli immigrati viva da più di dieci anni nel paese di residenza, solo il 40% ha ottenuto la cittadinanza (dati 2010-11).

Per il processo d’integrazione la lingua è molto importante. Purtroppo, in base ai dati disponibili per l’UE, più del 50% degli immigrati risiede in paesi dove la lingua è diversa da quella del paese d’origine. Al riguardo sono fondamentali sia le politiche adottate dai singoli paesi, che dovrebbero prevedere corsi di lingua per l’intero nucleo famigliare e non solo per i bambini in età scolare, sia l’abitudine all’uso della lingua locale anche in ambito famigliare, sebbene ciò si scontri con il diffuso desiderio di conservare e tramandare le proprie radici e tradizioni. I paesi del nord Europa (ad esempio, la Svezia) garantiscono un insegnante di supporto durante l’orario scolastico, prevedono corsi di lingua per i ragazzi in età scolare e pre-scolare e modalità formative mirate anche ai famigliari adulti. Viceversa, altri paesi, tra cui l’Italia, si limitano a prevedere la possibilità di seguire corsi serali di lingua spesso affidati a volontari per mancanza di risorse.

La questione è molto importante: un’adeguata conoscenza della lingua è essenziale affinché i ragazzi immigrati di prima o seconda generazione raggiungano buoni risultati scolastici. Da questi ultimi dipendono poi le loro prospettive nel mercato del lavoro che, peraltro, sono tanto peggiori quanto meno possono far riferimento a una rete di relazioni sociali. La conoscenza della lingua del paese di residenza ha, dunque, effetti a cascata su molti aspetti del processo d’integrazione.

Il mercato del lavoro. Nell’UE nel periodo 2012-13, il tasso di occupazione medio degli immigrati era del 62% (contro il 65% dei nativi) ma la media nasconde profonde differenze, sia di genere sia tra paesi. Se, rispetto ai nativi il tasso di occupazione medio degli uomini è lo stesso (71%), quello delle donne (54%) è più basso di 5 punti percentuali, e la forbice si è ampliata con la grande recessione. Tuttavia, in Italia – e in altri paesi a forte immigrazione di lavoratori – il tasso di occupazione di uomini e donne immigrati (rispettivamente 70% e 50%) è più elevato delle loro controparti locali. In relazione al titolo di studio, le probabilità di essere occupati, se immigrati, sono inversamente correlate al livello di istruzione; in particolare il tasso di occupazione di chi ha un alto livello di istruzione è in media inferiore di 4 punti percentuali, ma raggiunge valori tra il 12 e il 15% in Italia, Francia, Lettonia, Spagna e Slovenia e tra il 18 e il 20% in Grecia e Malta. Questi differenziali dipendono molto dalla difficoltà di vedersi riconosciuti i titoli conseguiti nel paese d’origine essi, infatti, sono molto più bassi se l’elevato titolo di studio è stato ottenuto nel paese di residenza. Per di più, la quota di lavoratori immigrati che possiede una qualifica più elevata di quella necessaria per svolgere il proprio lavoro, si dimezza quando la qualifica è stata conseguita nel paese di residenza.

Il tasso di disoccupazione degli immigrati è in media più alto di quello dei nativi: nel 2012-13 era del 16% rispetto al 10% e la crisi ha colpito in modo particolare gli immigrati, soprattutto quelli con bassa istruzione e di recente immigrazione. In questo caso i risultati sono piuttosto omogenei. L’indicatore per paese di destinazione, per genere, per livello d’istruzione, risulta sempre più elevato per gli immigrati (con l’unica eccezione della Repubblica Slovacca).

Rispetto al tipo di contratto (tempo indeterminato vs tempo determinato) e al numero di ore lavorate (part-time vs full-time), risulta che i lavoratori immigrati sono sovra-rappresentati tra coloro che hanno un contratto a tempo determinato ed un lavoro part-time. Gli immigrati, inoltre, svolgono principalmente lavori poco qualificati. Tutto ciò si traduce in salari più bassi, minori possibilità di partecipare a corsi di formazione, periodi di malattia e ferie non pagate, minori tutele e possibilità di carriera. Tutto ciò riduce le possibilità di crescita e rende il processo d’integrazione più difficile. Elevata è anche la percentuale di lavoratori stranieri (più del 25%) che dichiarano di non riuscire a partecipare, pur volendolo, a corsi di formazione sul lavoro; tale percentuale tende però a essere più bassa se l’immigrazione non è recente.

L’istruzione – che rimane un importante fattore di successo nel mercato del lavoro, malgrado il fenomeno dell’overeducation –   è mediamente più bassa tra gli immigrati nell’UE: il 36% ha un titolo di studio basso contro il 22% degli autoctoni; invece è uguale nelle due popolazioni (e pari al 26%) la quota di coloro che hanno un alto livello di istruzione.

L’Italia presenta dati estremi: tra gli immigrati è massima la percentuale di coloro che hanno un basso livello d’istruzione (46% ca.) e minima quelli di coloro che hanno un alto livello di istruzione (11%). La nostra debole capacità di attrarre “talenti” che il nostro paese dimostra di avere è confermata sia dalla percentuale di studenti stranieri che si iscrivono presso le nostre università – solo l’1,7% del totale di studenti stranieri/internazionali a livello mondiale, molto meno di paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania e la Francia (cfr. IMO 2015) – sia dall’alto numero di persone altamente qualificate che lascia il nostro paese (più di 101.000 nel solo 2014, in gran parte dirette in Germania, Regno Unito e Svizzera).

La distribuzione dei redditi. Se si guarda alla disuguaglianza tra reddito medio degli immigrati e dei nativi si nota che essa è quasi ovunque rilevante e che in Italia raggiunge uno dei massimi livelli. Se, invece, si guarda alla disuguaglianza all’interno di ognuna delle due popolazioni, si osserva, innanzitutto, che nell’UE 28 il rapporto tra il decile più alto e quello più basso è leggermente più elevato per la popolazione immigrata (4,1 contro 3,8). In Italia, però, vale l’opposto: il rapporto interquantilico è 3,5 per gli immigrati e 4,2 per gli autoctoni.

In Italia il 35,2% delle persone immigrate è sotto la soglia di povertà relativa, si tratta di un valore molto alto (la media nell’UE28 è 29,6%) e decisamente superiore a quello della popolazione nativa (18,7% contro il 16,3% nell’UE28). Solo Grecia (44,8%), Spagna (39,9%) Belgio (39,1%) e Finlandia (38,1) fanno peggio. Poiché il reddito da lavoro costituisce la principale fonte di reddito e di assicurazione contro il rischio di povertà, quanto si è visto in precedenza contribuisce a spiegare questi dati. D’altro canto, la mancanza di adeguate politiche di supporto alle famiglie immigrate più svantaggiate, compromette il processo d’integrazione degli immigrati con il rischio di innescare una spirale perversa che spinge sempre più verso l’esclusione sociale ed economica chi si è trasferito in un altro paese cercando migliori condizioni di vita.

La discriminazione. Con riferimento a questo aspetto alcuni risultati appaiono contro-intuitivi: la percezione di essere discriminati è molto più alta negli adolescenti delle seconde generazioni che non tra i giovani di prima generazione. Benché la “percezione” sia un dato soggettivo, questo risultato può ricondursi al fatto che nei nuovi immigrati è più forte la presa dei valori socio-culturali della società di provenienza. I ragazzi delle seconde generazioni hanno avuto più occasioni di assorbire la cultura e le norme sociali del paese di residenza e perciò sono in grado di meglio riconoscere comportamenti effettivamente discriminatori. Comunque deve far riflettere il fatto che questo risultato non vale per i paesi non europei dell’area OCSE.

In conclusione, anche con riferimento al sottoinsieme di indicatori che abbiamo passato in rassegna, il Rapporto documenta, in generale, le difficoltà degli immigrati a colmare le distanze che li separano dai nativi ma mostra anche che con il prolungarsi della permanenza in molti ambiti le distanze tendono a ridursi e ciò è confermato dall’analisi delle seconde generazioni rispetto alle prime. Il Rapporto mostra anche che il quadro è tutt’altro che omogeneo: le esperienze nazionali sono caratterizzate da significative differenze. Per questo motivo le politiche d’integrazione devono adattarsi ai diversi contesti socio-economico-culturali dei paesi di accoglienza e delle persone immigrate. A livello europeo si devono fissare target comuni e linee di azione per migliorare l’integrazione e la coesione sociale. E probabilmente sono utili misure che rivolgendosi contemporaneamente ad immigrati e autoctoni in analoghe situazioni di bisogno risultano più accettabili per entrambi i gruppi.

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