L’insospettabile outlier d’Europa

Marcello Basili, mentre Angela Merkel sembra riscuotere importanti successi politici a livello internazionale, si chiede se alle sue spalle ci sia veramente il paese delle meraviglie da molti celebrato. Presentando numerosi dati, Basili sostiene che essi raccontano una storia dei successi tedeschi diversa da quella che più frequentemente circola e chiariscono quale sia il presupposto, irripetibile e irriproducibile, dell’imponente attivo commerciale tedesco e dello spiazzamento dei competitor continentali come Francia e Italia

Molto si è favoleggiato sulla natura del surplus commerciale della Germania e della potenza della sua manifattura, ma la realtà è ben diversa dal mito. Nelle ultime settimane alcuni interventi comparsi sulla stampa quotidiana anglosassone hanno chiarito che le performance commerciali di Berlino sono la conseguenza non di aumenti vertiginosi della produttività del lavoro ma, molto più modestamente, di una dinamica salariale fuori contesto – non solo nell’eurozona, ma nell’intera Unione Europea – a sua volta resa possibile da un’inflazione sostanzialmente nulla.

In un articolo del 29 gennaio scorso, Krugman osserva che il costo del lavoro nel periodo 2000-2014 nell’eurozona è aumentato mediamente del 26% (20% negli Stati Uniti) ma con forti oscillazioni visto che gli incrementi sono compresi tra il 15% della Germania e il 44% dell’Italia. Tuttavia Krugman fa notare che se si considera un tasso d’inflazione del 2% annuo (obiettivo più volte ribadito dalle autorità monetarie e finanziarie dell’UE) la crescita cumulata del costo del lavoro è del 32%. Ovviamente l’Italia che ha sperimentato una crescita del 44% è fuori target, come la Grecia (37%) e l’Irlanda (34%), ma il paese che risulta fuori scala, anzi fuori contesto, è la Germania. con il suo misero +15%. A questo punto Krugman richiama un articolo del settembre 2014 di Francesco Saraceno in cui si mostra che la dinamica del costo del lavoro nei paesi mediterranei dell’eurozona è assolutamente coerente (indistinguibile) da quella degli altri paesi OCSE, con due sole eccezioni: il Giappone, che è in deflazione da alcuni lustri (e perciò irraggiungibile) e la Germania dei miracoli, che, in realtà, è il vero OUTLIER continentale.

Il 6 febbraio il Financial Times ha pubblicato un lungo articolo di Michael Pettis che getta una luce sinistra sul successo commerciale teutonico. Secondo Pettis nel periodo 1998-2014 la Germania ha sofferto di salari stagnanti e di una perdita di efficienza delle infrastrutture, dovuta agli scarsi investimenti; questi ultimi hanno determinato anche una cresciuta media annua dello 0,6% della produttività del lavoro, ben lontana dall’1,5% degli USA o dall’1% della Gran Bretagna e inferiore perfino allo 0,7% della Grecia.

Proviamo allora a ricostruire le vere ragioni del successo tedesco che hanno consentito a un paese in deficit, di raggiungere gli imponenti attivi commerciali degli ultimi anni.

I bassi salari, oltre che dai mini-job che impiegano ¼ della forza lavoro tedesca, sono stati permessi dalla dinamica dell’inflazione nazionale che ha inciso su quella dei salari. Infatti, nel periodo 2000-2011 i salari nominali sono mediamente cresciuti del 30% in Italia, del 35% in Francia e del 15% in Germania. Utilizzando come misura dell’inflazione il deflatore del PIL (cioè il rapporto tra il PIL nominale e il PIL reale), che per il periodo 2000-2011 è stato di 27,5 per l’Italia, 21,2 per la Francia e solo 12,5 per la Germania, risulta che i salari reali sono aumentati del 2,5%, in Germania, del 3,5% in Italia e di oltre il 14% in Francia.

Questa peculiarità della Germania non è casuale; essa è il risultato della fissazione delle parità per la conversione delle valute nazionali in euro che non ha fatto altro che rendere definitivo il risultato dei processi di riallineamento con il Marco tedesco (DM) che si erano verificati nello SME dal 1979 al 1993 (successivamente si passò alle bande larghe ±15%) e che avevano comportato le seguenti svalutazioni: -25,5% (Francia), -44,1% (Italia), -4% (Olanda), -24.4% (Belgio), -37,1% (Irlanda), -17,8% (Spagna), -12,1% (Portogallo) e così via (Cfr. Croci Angelini-Farina, Macroeconomia dell’Unione Europea, Carocci, 2007). Questi riallineamenti hanno permesso di recuperare solo una parte del differenziale inflazionistico rispetto alla Germania, ma anche questa possibilità è scomparsa quando sono stati introdotti i cambi fissi (1999-2002) e quindi la moneta unica.

L’austerità imposta all’eurozona dalla Germania, in un mondo inondato dalla liquidità derivante dalle politiche monetarie (e fiscali) espansive adottate negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Giappone (oltre 4.000 miliardi di dollari) e caratterizzato da tassi d’interesse a zero o sotto zero, non ha fatto altro che indurre una rivalutazione dell’euro rendendo ancora più problematici i riaggiustamenti, per tutti, ma non per la Germania, grazie ancora una volta alla sua struttura produttiva, non miracolosa, quanto semplicemente efficace. Proprio il super euro ha consentito alla Germania di avvantaggiarsi nell’acquisto di beni intermedi nei paesi dell’ex-Europa dell’Est (al più UE, ma non eurozona) e quindi inanellare una serie di rilevanti attivi di bilancio commerciale. Infatti, nel 2009 (anno del contagio europeo della crisi dei mutui subprime) l’outsourcing e l’offshoring della Germania erano a livelli prossimi a quelli italiani (48% contro 49% l’outsourcing e 22% contro il 18% l’offshoring); mentre nello stesso anno, il valore aggiunto nelle importazioni era pari al 28% per la Germania e al 20% per l’Italia. Quindi la Germania è stata in grado di riemergere dall’onda lunga della crisi di Wall Street più rapidamente degli altri paesi dell’UE, con un tasso di crescita più che doppio (2,6%) rispetto a quello medio dell’UE (1,2%) nel periodo 2010-2012, grazie soprattutto all’industria meccanica di precisione e metalmeccanica; ma questo non è il risultato di una particolare dinamica degli investimenti, quanto piuttosto l’effetto del riposizionamento realizzato a partire dagli anni 90 nel mercato globale nei settori a maggiore valore aggiunto. Sorprendentemente, infatti, il tasso d’investimento della Germania ha continuato a ridursi passando dal 20% del PIL del 1999 al 17% del PIL nel 2013, cioè su valori inferiori anche a quelli di paesi in crisi conclamata come l’Italia e la Francia. Il ritardo negli investimenti rispetto alla media dell’eurozona è stato del 3% annuo, cioè, cumulativamente, di oltre il 40% dall’introduzione dell’euro. Nel dettaglio, analizzando gli investimenti in impianti si osserva che fino al 2006 la quota di questi investimenti sul PIL è stata molto bassa (nel 2003 ha toccato il minimo del 6,3%) e nel 2011 ha raggiunto il 7,7%. Si tratta  nel complesso, di valori costantemente  inferiori a quelli dell’Italia e, sorprendentemente,  anche  della Grecia. Gli scostamenti della Germania rispetto ai PIGS sono ancora più pronunciati (-10%) se si considera il settore delle costruzioni, soprattutto nell’edilizia non residenziale (DIW Berlin Economic Bulletin 2, 2013). Inoltre la Germania ha sperimentato una significativa contrazione nel valore netto degli asset pubblici passato dal 20% del PIL (1999) allo 0,5% del PIL (2011), con un grave pregiudizio per le generazioni future. Anche la spesa tedesca per l’education, che rientra tra le spese correnti e non tra gli investimenti, è pari al 5,3% del PIL, ben al di sotto della media dell’UE e soprattutto dell’OCSE (6,2%), evidenziando un particolare investment gap soprattutto nella formazione dei bambini (DIW Berlin 8, 2013).

Anche l’ossessione del rispetto delle regole, più volte invocata contro ogni ipotesi di ristrutturazione del debito greco, acquista un connotato diverso se la si considera dalla prospettiva del rendimento dei capitali esportati. Una delle conseguenze degli attivi commerciali e della inesistente dinamica salariale è stata la crescita dei profitti, che non essendo stati reinvestiti in patria (investment gap), hanno trovato collocazione in altri paesi con risultati non proprio entusiasmanti: “dal 1999 gli investitori tedeschi hanno perso circa 400 miliardi di euro per investimenti all’estero sbagliati, il 15% del PIL. Dal 2006 al 2012 la cifra ha raggiunto i 600 miliardi di euro pari al 22% del PIL tedesco” (DIW Berlin Economic Bulletin 8, 2013). Quindi i due bailout sul debito greco e il conseguente strangolamento dell’economia di Atene hanno ragioni ben diverse da quelle della retorica del rispetto delle regole: difficoltà della Bundesbank a gestire il salvataggio delle banche tedesche fortemente esposte, sottocapitalizzate, piene di derivati e con leve finanziarie di oltre 40, dopo aver impiegato più di  250 miliardi di euro per salvare il sistema delle casse di risparmio, e protezione dei profitti investiti, non proprio oculatamente, all’estero,  già falcidiati dall’esplosione della bolla immobiliare spagnola.

Un’ultima considerazione rispetto alla proposta di ristrutturazione del debito greco avanzata dal governo Tsipras. La nota opposizione della Germania a ogni rinegoziazione è stata  ribadita dal governatore della Budensbank Weidmann e dal ministro delle finanze Schauble, cioè dagli artefici dei due bailout (2010 e 2011) che hanno salvato le banche tedesche e francesi dalla loro esposizione al  debito greco (ma cosa remunera il premio al rischio o spread se non il rischio paese?) e hanno spalmato i 240 miliardi di prestiti su istituzioni internazionali e su stati dell’UE, a condizioni che hanno spinto il paese verso una crisi umanitaria senza precedenti. Anche in occasione dei due bailout, il piano di ristrutturazione del debito, nonostante l’appoggio in seno al FMI di molti paesi, tra cui i BRICS, venne respinto sulla base di principi o, meglio, di interessi privati. Come ora sappiamo e come anche Silvia Ardagna (ricordate l’Austerità espansiva di Alesina-Ardagna?) conclude in uno dei suoi recenti articoli (Ardagna-Caselli: The Political Economy of the Greek Debt Crisis: A Tale of Two Bailouts CEP 25, 2012) il prendere o fallire imposto alla Grecia non solo si è rivelato Pareto-inefficiente ma ha condotto a esiti peggiori di quelli che si sarebbero potuti avere nel caso di un accordo negoziato.

La proposta di utilizzare dei derivati (swap) per ristrutturare il debito greco non è nuova ed è già stata utilizzata molte volte dagli anni 70, con il beneplacito del FMI. La proposta del ministro dell’economia Yanis Varoufakis di consentire l’emissione di GDP-Linked Bond (titoli collegati alla crescita del PIL) ripercorre quanto già fatto da Messico, Nigeria, Bulgaria, Bosnia and Herzegovina, Costa Rica, Singapore e dall’Argentina. Nel 2005, per ristrutturare il suo debito dopo la crisi del 2001, l’Argentina ha emesso GDP-Linked Bond a 30 anni con un tasso del 5% con una crescita del PIL del 3%, a partire dal 2015. Le condizioni di operatività e i potenziali rischi di una simile soluzione sono ampiamente discussi in letteratura (Krugman, Journal of Development Economics, 1988; Shiller MacroMarkets, Clarendon Press 1993, Athanasoulis-Shiller, American Economic Review 2001) e comunque ritenuti gestibili con successo se accompagnati da un efficiente design (Borensztein-Mauro,IMF Policy Discussion Paper 20/10, 2002; Tabova, University of Trento Discussion Paper 2005; Miyajima, IMF Working Paper 85, 2006). Lo stesso si può dire per la trasformazione di parte del debito in bond irredimibili, strumento ampiamente usato nel secolo scorso. Coerente e razionale appare anche la richiesta di Atene di ridurre l’obbligo imposto dalla troika di un avanzo primario dal 3% all’1,49% del PIL (nel 2014 l’avanzo primario greco ha raggiunto i 3 miliardi pari all’1,5% del PIL, ormai del 27% inferiore a quello pre-crisi ), in modo da avere qualche margine di manovra per politiche economiche di sostegno della domanda interna.

La concessione di un primo prestito ponte di 5 miliardi da parte della BCE ad Atene, alzando da 60 a 65 miliardi le disponibilità del fondo Emergency Liquidity Assistence, a conclusione del Consiglio Europeo del 12 febbraio, indica che i tempi sono cambiati e che a Bruxelles forse qualcuno comincia a pensare che il re sia nudo.

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