L’informazione nell’era della polarizzazione: un’analisi quantitativa

Antonio Peruzzi e Walter Quattrociocchi si occupano di (dis)informazione in periodi di opinioni polarizzate, presentando i risultati di un loro recente progetto sulle reazioni degli utenti Facebook ad alcuni articoli sull’immigrazione pubblicati dal Corriere della Sera. In particolare, i due autori danno conto dei contenuti e delle tecniche giornalistiche che più incidono sulla polarizzazione e rilevano che introdurre la realtà dei fatti smorzi la sfiducia nei confronti dei giornali, con effetti di limitazione della disinformazione proveniente da fonti dubbie.

È evidente a tutti come ogni giorno siamo esposti ad un enorme quantitativo di contenuti, informativi e non, soprattutto sui social media. Ne sono una prova le nostre bacheche Facebook e Twitter, dove notizie, opinioni politiche e pareri più o meno informati si avvicendano a buffi video di gattini e panda. Il rischio, palesato dal World Economic Forum nel 2017, è che l’esposizione a tale sovrabbondanza di informazioni in un ambiente disintermediato – quale quello dei social media, dove chiunque produce e fruisce di qualsiasi tipo di contenuto rapidamente e a costo apparentemente zero – possa dar luogo a fenomeni di disinformazione volti ad alterare l’opinione pubblica.

Data la nostra limitata attenzione, i vari contenuti pubblicati sui social media sono in competizione tra loro per guadagnarsi una posizione privilegiata tra le nostre gerarchie di interesse. D’altro canto, la nostra mente sembra adottare una serie di scorciatoie – in gergo tecnico chiamate euristiche – per regolare i nostri processi decisionali e di selezione delle informazioni fornendoci una comoda rappresentazione della realtà. Mentre, da un lato, queste scorciatoie ci semplificano la vita, dall’altro esse possono rivelarsi fuorvianti; è il caso dei bias cognitivi. A tal proposito, sono ben noti i lavori di Kahneman e Tversky sullo studio di questi meccanismi e sul loro impatto nei processi decisionali. Un esempio di come i bias cognitivi possano ingannarci è dato dalla tendenza umana a ricavare trend e pattern ricorrenti affidandosi ad un numero limitato di informazioni, altresì chiamata euristica di rappresentatività (A. Tversky e D.Kahneman, “Judgment under uncertainty: Heuristics and biases”, Science, 185(4157), 1974). Una persona che vedrà una moneta dare come risultato “testa” per tre volte, tenderà a pensare che la moneta sia truccata e che il quarto lancio darà come risultato nuovamente “testa”. Tale euristica consentirà una decisione rapida (dopo solo tre lanci), ma porterà a dimenticarsi dell’esigua dimensione del campione.

Per quanto riguarda il consumo e la diffusione di informazioni, un ruolo centrale viene giocato dal pregiudizio di conferma (in inglese Confirmation Bias). Tale bias cognitivo fa sì che le persone tendano ad assimilare più facilmente informazioni in accordo con quelle che sono già le proprie convinzioni personali, mentre ciò che è in qualche modo “a contrasto” viene spesso ignorato. Su internet, ed in particolare sui social media, tale attitudine degli utenti in combinazione con la presenza di un ambiente virtuale disintermediato contribuisce alla frammentazione degli utenti stessi attorno a narrative condivise, dando così origine a comunità polarizzate, altresì chiamate camere d’eco (Echo Chambers in inglese). All’interno di queste camere d’eco gli utenti fruiscono di contenuti coerenti con la loro visione del mondo, sia vera o falsa l’informazione veicolata. D’altro canto, ogni contenuto avverso rispetto alla narrativa condivisa viene, la maggior parte delle volte, ignorato o schernito. Quando, infine, due comunità con credi contrastanti si trovano ad interagire, il dibattito tende a degenerare col tempo, soprattutto nel caso di conversazioni molto lunghe. Tali dinamiche sembrano essere indipendenti dall’argomento di cui si tratta (Vaccinisti-Anti-vaccinisti, Pro-scienza e Complottisti) e coinvolgono anche la sfera pubblica e il dibattito politico come nel caso della Brexit o del referendum costituzionale del 2016.

I tentativi fino ad ora proposti per contrastare i fenomeni di disinformazione si sono spesso concentrati sullo smentire notizie ritenute false tramite articoli giornalistici di contrasto, detti di debunking, o tramite certificazioni di autorevolezza delle fonti. Anche i maggiori provider di servizi online come Google e Facebook si sono adoperati in tal senso. Ciononostante, tali misure si sono spesso rivelate poco efficaci. Mentre, infatti, gli utenti già propensi a ritenere un contenuto falso troveranno una conferma della propria idea (atteggiamento di reinforcement seeking secondo L. Festinger, A Theory of Cognitive Dissonance, Stanford University Press, 1957) e accoglieranno di buon grado tali iniziative, gli utenti predisposti a considerare come vero un dato tenderanno ad evitare di mettere in discussione il proprio credo (atteggiamento di challenge avoidance, sempre secondo Festinger) e faranno rientrare tali contromisure nella cerchia delle iniziative promosse da chi cerca di oscurare quella che dal loro punto di vista viene considerata la verità taciuta.

Un approccio alternativo propone di adottare soluzioni comunicative più efficaci e attente dal punto di vista della narrazione per evitare che un dibattito si polarizzi al punto da diventare terreno fertile per contenuti di disinformazione. Lungo questa linea, si colloca il progetto QUEST EU H2020 il cui scopo è, appunto, lo studio di diverse strategie al fine di migliorare la comunicazione scientifica sui social media, specialmente su temi delicati come il cambiamento climatico o i vaccini.

Sempre in tal senso, si è mosso uno dei nostri recenti lavori al Data Science & Complexity Lab che ha coinvolto in partnership l’Università Ca’ Foscari di Venezia, il Corriere della Sera e la London School of Economics (LSE) e che ha prodotto come risultato il report Journalism in the Age of Populism and Polarisation: Lessons from the Migration Debate in Italy, pubblicato sul sito della LSE. Il progetto si è occupato di analizzare in aggregato, con modalità sicure e rispettose della privacy, le reazioni degli utenti Facebook ad alcuni degli articoli pubblicati dal Corriere della Sera sul tema dell’immigrazione. Scopo dell’indagine è stato quello di investigare quali contenuti e tecniche giornalistiche intensificassero o riducessero la polarizzazione degli utenti, cercando di individuare così nuove strategie comunicative per incentivare un dibattito costruttivo.

Ma perché proprio il tema dell’immigrazione? Nei primi mesi del 2018, quando il progetto ha avuto inizio, abbiamo chiesto ai giornalisti del Corriere quali sarebbero stati i temi più controversi dell’anno a venire. Avevamo infatti bisogno di un ambito dove la discussione fosse accesa e dibattuta. Ci risposero prontamente che la questione dei migranti sarebbe stata senza dubbio una delle più calde. Tale previsione si è rivelata essere più che mai corretta. Come da Figura 1, gli articoli del Corriere sul tema dell’immigrazione hanno creato in media un coinvolgimento degli utenti maggiore rispetto al resto dei temi trattati per il biennio 2017-2018. In particolare, la discussione si è fatta più che mai accesa nell’estate 2018, quando la politica dei porti chiusi del Ministro dell’Interno Matteo Salvini e i casi delle navi Aquarius e Diciotti hanno fatto cronaca, come si può osservare anche dal repentino incremento del numero di commenti agli articoli del Corriere sul tema tra Giugno e Settembre 2018.

Una volta individuato il tema abbiamo provveduto a monitorare un totale di 114 articoli classificati in base al tipo di contenuto (testuale, con infografiche, video, multimediale o quiz) e al tipo di tecnica giornalistica adottata. Inoltre, abbiamo assunto tre studenti della LSE per annotare i circa 210 mila commenti agli articoli pubblicati sulla pagina Facebook del Corriere. Abbiamo chiesto loro di indicare se tali commenti fossero esplicitamente a favore o contro il fenomeno migratorio, se contenessero un linguaggio tossico o se criticassero esplicitamente il Corriere.

In generale, risulta, e non sorprende, che è più la forte presenza di utenti che si palesano contrari al recente fenomeno migratorio rispetto ai favorevoli. Più interessante è invece soffermarsi su quanto emerge dal numero di critiche mosse nei commenti.

In riferimento ai tipi di contenuto (figura 3), riscontriamo che gli articoli con contenuti visivi e multimediali presentano la minor percentuale di critiche, come a voler rimarcare il motto ‘vedere per credere’. D’altra parte, la tipologia del quiz, volta a sfatare alcuni miti circa i numeri che circolano sul recente fenomeno migratorio, presenta un’alta percentuale di critiche.

Per quanto riguarda le tecniche giornalistiche (figura 4), gli articoli più imparziali e accurati sembrano essere quelli verso cui gli utenti dimostrano più fiducia; essi sono caratterizzati infatti da un numero minore di critiche nei confronti del Corriere. D’altro canto, gli articoli che si basano su dati, gli articoli di giornalismo costruttivo e gli articoli più emotivi (come le ‘human interest stories’, che trattano delle vicissitudini di un migrante o di un gruppo di migranti) registrano le maggiori critiche. Una possibile motivazione del perché articoli ‘data-driven’ ricevono forti critiche viene suggerita dal meccanismo del pregiudizio di conferma. Ci sarà da investigare ancora per capire le ragioni delle critiche nei confronti degli articoli più emotivi. Un’ipotesi, ad oggi da verificare, è che i lettori si possano sentire emozionalmente manipolati da questo tipo di articoli e che questo assolutamente non piaccia.

Sembra quindi che introdurre in un dibattito polarizzato la realtà dei fatti possa smorzare il sentimento di sfiducia nei confronti dei giornali. Ciò, di conseguenza, potrebbe contribuire a limitare il dilagare di fenomeni di disinformazione provenienti da fonti dubbie. La questione, tuttavia, rimane annosa e ulteriori ricerche potranno aiutarci a comprendere meglio quali siano le strategie migliori di contrasto alla disinformazione. L’auspicio è però quello che si esca dalla dicotomica e spesso sterile distinzione ‘vero-falso’ e che si affronti il fenomeno della disinformazione nella sua complessità adottando un approccio interdisciplinare che sappia combinare efficacemente le migliori soluzioni provenienti da diverse aree del sapere.

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