L’incerta marcia della Cina verso la crescita inclusiva, tra houku e dibao

Michela Boldrini e Ludovica Galotto esaminano l’Economic Survey sull’economia cinese recentemente pubblicato dall’OCSE che contiene i primi dati disponibili sulla situazione in Cina ad un anno dal XIII Piano Quinquennale. Boldrini e Galotto mettono in evidenza come la Cina debba ancora affrontare diverse sfide decisive nella lotta alle disuguaglianze e debba rivedere anche talune sue istituzioni se vuole raggiungere entro il 2010 gli ambiziosi obiettivi di crescita inclusiva ed eliminazione della povertà che si è data.

Lo scorso marzo l’OCSE ha pubblicato l’ultima edizione dell’Economic Survey sull’economia cinese. Il documento – normalmente pubblicato con cadenza biennale – oltre a raccogliere gli ultimi dati sull’andamento dell’economia presenta una breve analisi delle sfide che pone lo sviluppo del paese, affiancate da alcune raccomandazioni di policy.

L’ultima survey, pubblicata ad un anno dall’ultimo Piano Quinquennale appare particolarmente interessante per valutare – per lo meno rispetto agli indirizzi di policy – come la Cina stia muovendo verso la realizzazione degli ambiziosi obiettivi che si è data per la fine del quinquennio 2016-2020. La politica economica cinese, secondo il Piano, dovrà infatti essere orientata alla realizzazione di un “Nuovo Normale” che punti a una crescita “moderata ma sostenibile”, con un tasso di crescita media più contenuto ed una trasformazione qualitativa del sistema produttivo; inoltre, l’economia dovrebbe essere orientata all’innovazione e la distribuzione dei frutti dello sviluppo dovrebbe essere più equa, in modo da sostenere la domanda interna.

Un primo sguardo ai dati rivela che il PIL reale cinese è cresciuto al tasso del 6,7% nel 2016, in linea con il trend decrescente che dovrebbe consentire – attraverso una graduale riduzione del ritmo di crescita di 0,2 punti percentuali anche nei prossimi due anni – il raggiungimento del target fissato dal Piano di una crescita più “moderata” con una media annua del 6,5%. E’ in questo contesto che si colloca l’obiettivo di uno sviluppo che sacrifichi l’attuale tasso di crescita a doppia cifra a favore di una maggiore sostenibilità e l’efficienza.

Gli ultimi dati disponibili sull’innovazione mostrano come la Cina, già nel 2015, avesse raggiunto risultati positivi in termini sia di numero di brevetti registrati sia di spesa per la ricerca; in particolare, quest’ultima è leggermente cresciuta come quota del PIL rispetto all’anno precedente (2,07 contro 2,01%). Tuttavia, il livello di competizione dei mercati, specialmente in alcuni settori strategici come quello dell’energia, e la protezione dei diritti di proprietà intellettuale – la cui scarsa tutela è considerato un fattore che scoraggia gli investimenti – restano le sfide maggiori per la Cina.

Dal punto di vista dell’obiettivo di una crescita “moderata e più equilibrata”, che punti alla domanda interna come nuovo driver, i piccoli progressi registrati finora in termini di riequilibrio sono ascrivibili ad una diminuzione degli investimenti (già iniziata nel periodo post- crisi finanziaria globale) più che a un vero e proprio aumento dei consumi: il contributo di questi ultimi alla crescita è, infatti, rimasto abbastanza stabile attorno ai 4-6 punti percentuali. Nonostante il rallentamento degli investimenti, l’accumulazione di capitale rimane tuttora il principale fattore di crescita della Cina che, come gli altri paesi dell’OCSE, ha visto negli ultimi anni diminuire il contributo della produttività totale dei fattori.

L’obiettivo di stimolare la domanda interna pone il governo cinese di fronte al trade-off tra la scelta di usare una politica fiscale espansiva in grado di stimolare la domanda interna e garantire ai cittadini un buon livello di qualità e accesso ai servizi assistenziali, sanitari ed educativi – da cui potrebbe derivare una riduzione dei risparmi – e una politica di spesa pubblica prudente, che tenga conto del tasso di invecchiamento e della crescita della popolazione. Peraltro, la sostenibilità di un modello di crescita alimentato dai consumi richiede una più equa redistribuzione dei frutti della crescita, dunque uno sviluppo più inclusivo.

La storia recente delle disuguaglianze in Cina inizia a partire dalle prime liberalizzazioni degli anni ’70 quando, con la graduale trasformazione da paese socialista fortemente egualitario ad economia di mercato si ebbero tassi di crescita strabilianti e disuguaglianze in forte aumento. L’indice di Gini dei redditi disponibili è cresciuto da 0.38 a 0.49 tra il 1985 al 2008, ma negli ultimi 8 anni si è avuta una netta inversione di tendenza, probabilmente per effetto delle prime politiche orientate al “Nuovo normale”. Solo tra il 2015 e il 2016 l’indice risulta in leggera crescita (come mostra la Figura 1) che sembrerebbe però spiegata, secondo l’analisi del capo dell’agenzia nazionale cinese delle statistiche, da fenomeni temporanei come la riduzione delle pensioni per alcuni gruppi rurali e dall’effetto di uno shock negativo sui prezzi del grano.

Economics (Main)
Economics (Main)

I dubbi sul fatto che la Cina stia effettivamente diventando più egualitaria rimangono tuttavia insoluti, anche a fronte di studi come quello di R. Easterlin et al., che riporta come la soddisfazione di vita del 30% delle famiglie più povere sia fortemente diminuita nel periodo tra il 1980 e gli anni 2000, mentre è aumentata quella del 30% più ricco. I dati raccolti dall’OCSE nella Survey del 2017 non sembrano ottimistici: infatti, in Cina rimangono fortissime differenze di redditi tra le famiglie che vivono nelle aree urbane rispetto a quelle rurali, e si sta accentuando la distanza tra gli estremi della distribuzione dei redditi e dei salari. Allo stesso modo, nonostante la rapida riduzione della quota di famiglie al di sotto della soglia di povertà (che dal 30% del 2005 è passata al 5% nel 2015), sta aumentando la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, tanto che nel 2012 l’1% dei più abbienti possedeva un terzo della ricchezza totale, mentre il 25% delle famiglie più povere poteva fruire solo dell’1% della ricchezza totale.

Con il termine ricchezza, si deve qui intendere soprattutto la proprietà degli immobili, che contano per il 70% dei patrimoni familiari, e che sono stati oggetto di un processo di privatizzazione fortemente sbilanciato a favore di una piccola élite. La riforma del 1998 ha infatti offerto ai cittadini cinesi la possibilità di acquistare ad un prezzo molto conveniente la casa in cui abitavano, precedentemente concessa alla famiglia ma di proprietà governativa. I cittadini delle grandi città – già avvantaggiati finanziariamente –sono quindi divenuti proprietari di immobili di valore molto più elevato rispetto ai cittadini delle zone rurali, con l’effetto di ampliare il gap di ricchezza.

Il divario tra zone rurali e urbane è tra le principali cause alla base delle gravi disuguaglianze presenti nella società cinese e ha un’origine tutt’altro che recente; risale al 1958 la re-introduzione da parte di Mao Zedong dell’houku, l’antico sistema di residenza obbligatorio per cui una famiglia ha diritto ad accedere a una serie di diritti e benefit forniti dallo stato – che vanno dall’istruzione fino all’assistenza sanitaria – solo nel luogo di residenza. L’obiettivo era duplice: controllare gli spostamenti dei cittadini sul territorio in un periodo di intense migrazioni dalle campagne più povere verso le città; garantire un livello minimo di welfare a tutta la popolazione. L’houku è rimasto in vigore fino ad oggi, lievi modifiche sono state apportate solo quando si è reso necessario consentire l’afflusso di manodopera a basso costo nelle grandi industrie.

All’espansione della classe media si è accompagnata la formazione di un enorme gruppo di cittadini urbani “di serie B”, migrati dalle campagne nelle grandi città per lavorare, senza però la possibilità di usufruire dei servizi offerti dallo stato. L’effetto dell’houku si propaga anche sui figli dei migranti nati in città, con conseguenze non indifferenti sulle loro opportunità di accesso all’istruzione e successivamente al mondo del lavoro; in sostanza, l’houku contribuisce ad esacerbare il già netto divario esistente tra zone rurali e urbane in termini di qualità e accessibilità dell’istruzione, come emerge anche dai risultati nei test PISA, e influisce negativamente sulle condizioni e la qualità della vita dei “migranti urbani”.

Per stimolare i consumi e ridurre i risparmi, appare fondamentale il miglioramento delle condizioni di vita dei migranti, non solo in termini di opportunità di istruzione ma anche di accesso (e qualità) dei servizi sanitari: tra i migranti solo coloro che vantano un contratto di lavoro formale possono oggi accedervi (circa il 18% nel 2014). Per quanto complesso da gestire, tra l’opposizione delle élites urbane, i costi e la diffidenza dei lavoratori di origine rurale, il governo cinese ha avviato una politica di progressiva riforma del sistema dell’houku già dal 2014 e il Piano prevede che vengano rilasciati permessi di residenza a 100 milioni di “migranti urbani” entro il 2020. Nel corso del 2016, secondo quanto dichiarato dal governo, 1,43 milioni di persone sarebbero già state registrate, portando la percentuale di popolazione con houku-urbano al 41,2%, contro il 39,9% del 2015.

In presenza di divari così marcati, il sistema fiscale cinese rappresenta uno strumento poco efficace nella lotta alla disuguaglianza; in realtà esso rischia di aggravarla, soprattutto a causa della regressività delle tasse sui redditi da lavoro, l’assenza di tassazione sugli immobili e l’amministrazione locale ed eccessivamente discrezionale delle imposte e dei sussidi. Secondo un recente studio del Fondo monetario, infatti, la redistribuzione fiscale, misurata come differenza tra l’indice di Gini sui redditi da lavoro prima e dopo il computo di tasse e trasferimenti, ha portato addirittura ad un aumento delle disuguaglianze: tra il 2000 e il 2013 quella differenza sarebbe cresciuta in media di 1 punto percentuale (Figura 2).

Economics (Main)
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Una delle principali cause della regressività delle imposte è il disegno dello schema contributivo, che imputa ad ogni lavoratore dipendente un livello minimo di contribuzione pari al 60% non del reddito percepito ma del reddito medio nell’area geografica di appartenenza. Lo schema prevede, inoltre, che i contributi massimi siano pari a tre volte il reddito medio percepito dai lavoratori nella stessa regione. Queste soglie hanno un effetto chiaramente svantaggioso per i lavoratori che percepiscono i salari più bassi, cui viene applicata una percentuale di contribuzione più alta rispetto alla media, e che è destinata ad aumentare data la crescita dei top income.

Un’altra causa fondamentale dello scarso potere redistributivo del sistema fiscale è l’assenza di una tassazione sugli immobili, che potrebbe consentire una – almeno parziale – correzione degli squilibri determinati dalla privatizzazione delle unità abitative.

Simili problematiche si presentano anche nel sistema di assistenza sociale, il cui fulcro è il dibao, un programma volto a assicurare un livello minimo di reddito alla popolazione attraverso sussidi alle famiglie. Nello specifico, il dibao prevede un trasferimento monetario che copre la differenza tra il reddito medio familiare pro capite e la soglia minima di reddito, calcolata localmente in base al “costo minimo della vita” di ogni regione.

Tale schema potrebbe essere uno strumento chiave per permettere alla Cina di raggiungere l’obiettivo più ambizioso del piano quinquennale: eliminare completamente la povertà. Eppure il sistema presenta ancora numerose criticità: la natura decentralizzata dello schema e l’eccessiva discrezionalità lasciata all’amministrazione locale, in assenza di linee guida nazionali, fanno sì che tra le regioni vi siano enormi differenze nel determinare le soglie, le quali dipendono soprattutto dalle risorse dei governi locali e da motivazioni politiche. Inoltre, poiché occorre essere registrati ufficialmente nell’area di residenza per ricevere il sussidio, dal dibao sono esclusi i milioni di lavoratori migranti che possiedono lo status di residenti rurali e dunque non possono beneficiarne nelle città. Il risultato è che restano fuori dal programma proprio i soggetti nelle condizioni economiche più precarie.

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