L’immigrazione tra politiche umanitarie e politiche securitarie: che fine ha fatto l’integrazione?

Luca Bonacini e Eleonora Costantini esaminano i più recenti provvedimenti in tema di politiche migratorie, emanati a livello europeo e italiano, alla luce dei risultati di una ricerca esplorativa condotta dai due autori sull’offerta dei servizi in Emilia-Romagna. In un quadro di diffusa esternalizzazione dei servizi volti all’integrazione dei migranti, quello che risulta determinante per la riuscita delle politiche pubbliche è una forma contrattuale che permetta ai gestori locali la necessaria flessibilità.

Le recenti disposizioni a livello europeo e nazionale sul tema dell’immigrazione hanno riacceso un dibattito politico che sembra essere un fiume carsico: dopo alcuni percorsi sotterranei, ogni tanto risale in superficie. Le disposizioni in questione sono «Un nuovo patto europeo per l’immigrazione e l’asilo» proposto dalla Commissione Europea e il Decreto Legge del 5 ottobre presentato dalla Ministra dell’Interno Lamorgese. Nonostante le aspettative generate, i due documenti sembrano rispondere solo parzialmente ai concreti bisogni dei territori nella gestione dei fenomeni migratori, come intendiamo dimostrare riportando alcuni risultati di una indagine condotta sull’offerta di servizi in Emilia-Romagna.

Le convergenze tra i due documenti rendono evidente come la gestione dei fenomeni migratori sia oggi attraversata da una forte contraddizione, ossia che la condizione di migrante sia legittima solo all’interno dei circuiti della protezione internazionale (retorica umanitaria) e non come diritto individuale e, anzi, che il mancato riconoscimento di una qualche forma di protezione sposti la gestione delle presenze (clandestine) sul piano della sicurezza (retorica securitaria). Come a dire che la formulazione di politiche migratorie efficaci deve essere garantita da un adeguato bilanciamento tra sicurezza (dei confini) e accoglienza (di chi fugge e necessita di protezione), tenendo come unico riferimento i flussi non programmati e tralasciando l’eterogeneità dei fenomeni migratori e dei processi di insediamento che, nel corso degli ultimi trent’anni, hanno avuto luogo nei territori.

La proposta per «Un nuovo patto europeo per l’immigrazione e l’asilo» (sulla quale si può vedere il contributo di Mariani su questo numero del Menabò) si focalizza sul controllo dei confini, esternalizzato a Paesi Terzi, e sulla definizione di regole «solidali» volte alla ripartizione delle quote di ingressi più che sulla necessità di un ripensamento delle politiche a sostegno dell’integrazione. Le sole azioni proposte a supporto dell’inclusione sociale dei (lavoratori) migranti, adottando un’ottica neo-liberale, si sostanziano in un piano d’azione quadriennale in cui rafforzare il partenariato europeo per l’integrazione con le parti sociali ed economiche quali i sindacati, le camere di commercio e le organizzazioni dei datori di lavoro. Il target è in prevalenza quello dei richiedenti asilo e rifugiati, perseguendo la strada intrapresa, prima nel 2011 e poi nel 2013, in riferimento ai flussi non programmati, conseguenti a emergenze umanitarie.

Allo stesso modo, il «Decreto Lamorgese», a seguito dell’ultima tornata elettorale, ripropone a livello nazionale i medesimi temi, concentrandosi in buona parte sulla regolamentazione amministrativa (permessi di soggiorno) e di accesso alle procedure di riconoscimento della protezione internazionale, oltre che sulla protezione dei confini. Il Decreto rivede – sempre in via emergenziale – quanto introdotto nelle precedenti disposizioni, a partire dalla Legge n.94 del 2009 (il primo «pacchetto sicurezza») fino alla Legge Minniti-Orlando del 2017, i cui principi sono stati estremizzati nei «decreti Salvini». Interessante, tuttavia, è che il sistema venga rinominato: non più «di accoglienza e protezione» ma di «integrazione», nel probabile tentativo di ripristinare i capisaldi del precedente sistema SPRAR, in particolare l’accoglienza diffusa sui territori e il protagonismo degli Enti Locali in collaborazione con gli Enti di Terzo Settore

Già nel corso dei primi anni Duemila, l’entrata in crisi dei principali modelli di gestione dei confini e di promozione dell’integrazione, di fronte a una modificazione sostanziale dei flussi migratori (femminilizzazione, velocità, aumento dei paesi interessati), aveva richiesto agli stessi governi nazionali di confrontarsi non più e non solo con la regolazione delle presenze, ma sempre più frequentemente con processi di trasformazione sociale complessi. In Italia, a partire dalla fine degli anni Novanta, si è andato affermando un «modello mediterraneo» (King et al. in Studi emigrazione, 2014) di gestione delle migrazioni caratterizzato da una generalizzata frammentazione degli interventi e da un impianto normativo nazionale a tratti contraddittorio, facendo ricadere – di fatto – sui singoli territori la responsabilità della gestione. Il «modello di microregolazione privo di un paradigma stato-centrico», consolidatosi in Italia (Kazepov, La dimensione territoriale delle politiche sociali in Italia, 2009), delega alle Regioni la concretizzazione dei processi territoriali d’integrazione, che trovano nei Comuni i principali soggetti attuatori. Questo impianto ha concorso a determinare, nel tempo, pratiche localmente ancorate di intervento, caratterizzate da una forte delega al volontarismo pubblico e privato, nonché da un persistente localismo (Ambrosini, Governare città plurali, 2012). Tuttavia, ciò ha significato anche rafforzare le competenze interculturali delle amministrazioni regionali e locali, che sono diventate spesso laboratori aperti di sperimentazione.

L’analisi esplorativa da noi condotta sui nove Comuni capoluoghi dell’Emilia-Romagna (approssimati a distretti socio-sanitari) può quindi rappresentare un utile punto di osservazione e di conoscenza dei processi e delle interconnessioni che avvengono a livello territoriale. L’Emilia-Romagna è un interessante caso studio in quanto si distingue storicamente per un modello di «welfare avanzato ad alta intensità di servizi» (Madama, Le politiche di assistenza sociale, 2010) nonché per un’importante tradizione migratoria. Secondo le elaborazioni dell’Osservatorio regionale sul fenomeno migratorio, al 01/01/2018, dei 3.714.934 cittadini non comunitari in possesso di un documento di soggiorno in Italia, l’11,49% risiedevano in Emilia-Romagna con un peso crescente dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione umanitaria, che sono passati dal 4,3% del totale dei permessi a scadenza al 01/01/ 2015, al 12,7% (pari a 18.070) al 01/01/ 2018.

Tralasciando gli aspetti metodologici della ricerca, diamo conto di alcuni risultati inerenti la governance dei servizi comunali rivolti alla popolazione migrante, attraverso una lettura dei processi di integrazione con i servizi generalisti (servizi sociali) rivolti alla totalità della popolazione residente. L’analisi copre il periodo di programmazione sociale compreso tra il 2007 e il 2017 e si basa sui dati progettuali, finanziari e organizzativi dei singoli comuni.

A livello distrettuale, nei territori analizzati, è emersa la necessità di inserire nella programmazione sociale interventi specialistici a supporto della condizione dei cittadini migranti, integrati tuttavia con gli interventi generalisti rivolti all’intera popolazione. I bisogni sociali della popolazione migrante, infatti, sono in parte ascrivibili allo status migratorio, in parte sovrapponibili a quelli dell’intera popolazione; sono inoltre soggetti a modificazioni nel tempo, connotandosi per una certa dinamicità. L’architettura di questa integrazione si è andata definendo all’interno di ciascun distretto ed è oggetto di continuo adattamento. Su questi processi di adattamento incidono in modo particolare i cambiamenti nei governi locali e soprattutto le scelte dei governi nazionali, che hanno investito meno, nel tempo, sui processi di integrazione a favore della regolazione delle presenze, inasprendo – a titolo di esempio – le condizioni per i rinnovi dei titoli di soggiorno.

Il primo dato che emerge è che se i modelli di gestione dei servizi generalisti presentano una certa varietà di impianti (gestione diretta in buona parte, ma anche deleghe dei Comuni alle Aziende Pubbliche di Servizi alla Persona (ASP), gestione parzialmente esternalizzata al Terzo Settore), la gestione dei servizi specialistici, in tutti i comuni, avviene attraverso forme di contrattualizzazione del Terzo Settore. Nel primo caso, tuttavia, i comuni mantengono la titolarità diretta dei servizi mentre, nel secondo caso, assumono una responsabilità variabile sui processi di esternalizzazione. In entrambi i casi, il nodo critico è la distanza dell’amministrazione sia dai luoghi della programmazione e del monitoraggio sia da quelli del coordinamento e dell’attuazione: il problema non nasce dalla esternalizzazione del servizio e dalla forma che essa prende ma dalla delega di specifiche funzioni di management e coordinamento intermedio dei processi di attuazione. Ciò vale tanto nel caso dei servizi generalisti (i servizi sociali) se delegati ad ASP quanto nel caso dei servizi specialistici delegati a soggetti diversi del Terzo Settore. Restando sui servizi specialistici, i nodi sembrano risiedere nelle competenze dei gestori più che nella loro natura (associazioni o cooperative) e nella capacità di amministrazioni e gestori insieme di dare attuazione a forme diverse di co-gestione, all’interno dei dispositivi contrattuali. Questo sembra essere lo snodo per costruire – prima di tutto – una categorizzazione condivisa dei bisogni sociali, verso cui orientare l’azione di programmazione e di erogazione delle prestazioni.

In breve, le istituzioni contano a tutti i livelli, perché hanno il potere di definire il contesto, attraverso l’emanazione di dispositivi di pianificazione politica. Conta ancora di più, in questo processo, la capacità delle istituzioni di entrare in relazione con tutti gli attori direttamente coinvolti nella politica e di mobilitarli nei processi di governance, come fonti di conoscenza e di competenze in grado di informare i dispositivi di regolazione. Emerge, dunque, che la distanza tra le politiche nazionali – e forse anche europee –, da un lato, e quelle regionali e comunali, dall’altro, non è prevalentemente una mera questione definitoria: includere o meno misure dedicate all’integrazione della popolazione migrante, nel continuum tra sicurezza e accoglienza, significa ricomprendere la molteplicità dei fenomeni e, al loro interno, delle condizioni individuali, che vanno ben oltre quelle riconducili ai soli flussi non programmati e alle loro ricadute – seppure significative – sui singoli territori. Questa operazione legittimerebbe non soltanto, la ricomprensione dei temi dell’intercultura e dell’inclusione nelle programmazioni politiche ma anche la co-costruzione delle medesime politiche promuovendo il confronto con i territori (regioni e comuni nel caso italiano) e con la società civile che, nel corso degli anni hanno acquisito specifiche competenze.

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