L’illusione liberista

Andrea Boitani critica in modo radicale il progetto liberista. Un progetto che mira a una società che si risolve nel mercato, dove i rapporti sociali sono irrilevanti, se non mediati dal mercato, le istituzioni politiche valutate solo in base agli interessi economici di individui egoisti, e il denaro può comprare tutto. Le disuguaglianze possono crescere a dismisura in nome del merito, degli incentivi, dell’efficienza. I guasti ambientali sono favoriti dal bilancino dei costi e benefici usato dagli economisti, che pende a favore del presente e “svaluta” il futuro.

Le idee dell’economia, sviluppate nel corso di oltre due secoli, sono state geneticamente selezionate e negli ultimi quarant’anni usate a sostegno ideologico di un progetto politico e culturale conosciuto in Italia come liberista (o neoliberista, per distinguerlo dal liberismo classico di un Cavour e di un Pareto) e nei paesi anglosassoni come neo-liberal. Un progetto che ha preso vigore alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, prima negli Stati Uniti di Reagan e nella Gran Bretagna della Signora Thatcher e si è poi diffuso in molti paesi sudamericani e asiatici, arrivando a occupare la mente e l’anima di politici di ogni orientamento con la forza del mito. L’Europa continentale (tranne forse la Russia di Eltsin nei primi anni Novanta) è rimasta più al riparo dalla piena liberista, ma le correnti sotterranee si sono comunque rinforzate, se non altro grazie all’influenza di vari economisti europei che si erano abbeverati direttamente alle fonti americane. All’esplorazione del progetto culturale liberista e alle sue conseguenze è dedicato il mio ultimo libro (L’illusione liberista, Laterza, 2021).

Secondo i liberisti, il mercato lasciato a se stesso crea le migliori opportunità e il maggior benessere per tutti e, comunque maggiori opportunità e benessere di quanti sarebbe capace di fare qualsiasi sistema “misto”, in cui mercato, Stato e comunità operano cooperativamente. I liberisti usano il “teorema della mano invisibile” per dare dignità (via efficienza) al laissez faire, per poi asserirne la superiorità anche quando le rarefatte condizioni per la validità di quel mitico teorema non esistono e lasciar fare significa lasciare campo libero ai grandi predoni monopolisti e al crony capitalism. Tra laissez faire e concorrenza scelgono il laissez faire. Il riconoscimento dei “fallimenti” del mercato non è mai andato molto a genio ai liberisti, perché ovviamente intacca la fede nelle virtù taumaturgiche del laissez faire. Tanto meno sono disposti a riconoscere la vera e propria disgregazione sociale prodotta dalle crescenti disuguaglianze di reddito, di ricchezza, di capacità e preferiscono non vedere gli effetti negativi delle disuguaglianze sulla crescita economica. La questione importante, per i liberisti, non è quanta disuguaglianza ci sia ma quante opportunità ci sono per gli individui talentuosi e “meritevoli”. Ignorano sia che il merito è fortemente imparentato con la fortuna sia che la disuguaglianza di risultati influenza direttamente l’uguaglianza di opportunità e i meriti acquisibili dalla prossima generazione. “Gli esiti ex post di oggi danno forma al campo di gioco ex ante di domani: chi beneficia della disuguaglianza di esiti oggi può trasmettere un vantaggio iniquo ai propri figli domani” (Atkinson, Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, Milano, Cortina, 2015, p. 15).

 Si dice che in Italia il liberismo sia sempre rimasto minoritario, non abbia mai sfondato sul piano politico e forse neanche su quello culturale. Grandi liberali, come Benedetto Croce, hanno preso le distanze dal liberismo, addirittura coniando una parola (liberismo, appunto) che non esiste in altre lingue, per distinguere il liberalismo dal laissez faire. Però il liberismo è entrato nella cultura della élite come un “dover essere” rispetto al quale la politica del paese stava sempre un gradino sotto il necessario, o almeno sotto le aspettative. Il liberismo si è insinuato nelle teste di molti giornalisti e di alcuni politici. Gli uni e gli altri hanno cominciato a credere, a scrivere, a dire in giro che non possiamo più permetterci il Welfare State, a proclamare che la presenza dello Stato in economia (insieme alle tasse) deve “inevitabilmente” ridursi. Affermazioni che hanno contribuito a far perdere qualsiasi distinzione tra dimensione dello Stato (entità della spesa e della tassazione in percentuale del Pil) e qualità del suo intervento (misurata dall’efficacia e dall’efficienza delle azioni intraprese). Trascurando che ci sono Stati “pesanti” molto ben funzionanti (come quelli del Nord Europa) e stati (relativamente) “leggeri”, come gli Stati Uniti e il Regno Unito, i cui “fallimenti” sono stati denunciati tante volte e che, guarda caso, sono anche quelli che (per lunghi mesi) hanno reagito peggio alla pandemia.

Secondo il massimo guru del liberismo novecentesco, Milton Friedman, “un’impresa ha una e una sola responsabilità sociale: svolgere attività miranti ad accrescere i suoi profitti, nel rispetto delle regole fondamentali della società, sia quelle incorporate nelle sue leggi sia quelle dettate dai suoi costumi etici”. In quella frase (riportata, con approvazione, da Franco De Benedetti sulla quarta di copertina del suo ultimo libro, Fare profitti) c’è il rifiuto per la responsabilità sociale dell’impresa, che pure sembra proprio essere uno dei pilastri del nuovo compromesso tra capitalismo, società e democrazia che si sta cercando di costruire e a cui guarda anche Papa Francesco. Vale la pena ricordare che l’avidità, la massimizzazione dei profitti come unico obiettivo delle imprese ha anche portato all’esplosione dei bonus ai top manager (collegati in prevalenza ai profitti di breve periodo) e, quindi, delle loro retribuzioni relativamente a quelle dei dipendenti. Il che, tra l’altro, ha contribuito all’ampliamento delle disuguaglianze verso l’alto. Ma ha anche portato allo sfruttamento intensivo dell’ambiente e al cambiamento irreversibile del clima, che danneggia i poveri e le generazioni future molto più che i ricchi e le generazioni presenti.

Gli economisti liberisti hanno sempre teso a scontare pesantemente i danni dei cambiamenti climatici (e quindi i benefici delle politiche di contrasto), per quanto grandi siano, che si manifesteranno nel futuro (ma sono in corso già oggi, come tutti sanno). Tanto maggiore è lo sconto quanto più lontano è il futuro considerato e anche quanto più alto è il tasso di sconto utilizzato. Gli economisti liberisti non si sono fermati troppo a discutere di temi etici e hanno semplicemente applicato tassi di sconto elevati (5-6 percento), giustificandoli con un generico riferimento ai tassi “di mercato”. Nei calcoli aziendali scontare un costo o beneficio futuro è del tutto normale, dato che un’impresa deve pagare interessi sul denaro preso a prestito e, quindi, ogni guadagno futuro dovrà essere decurtato degli interessi nel frattempo pagati. Ma scontare flussi di cassa non è la stessa cosa che scontare il benessere dell’umanità di là da venire. Chiaro che ognuno di noi sia più legato ai propri figli e nipoti che ai lontani discendenti che non conoscerà mai. Sembra un tratto psicologico semplice e comprensibile, a livello individuale. Ma perché dovrebbe riguardare la società intesa come un tutto? Questa va oltre la mera somma degli individui oggi viventi e comprende le generazioni future, il cui benessere dovrebbe perciò pesare quanto il nostro.

Il progetto liberista ha cercato e tuttora cerca di realizzare non solo un’economia di mercato, ma una società che, in definitiva, si risolve nel mercato. Una “ideologia di mercato” per la quale i rapporti sociali sono irrilevanti se non mediati dal mercato, mentre le istituzioni politiche vengono guardate e valutate solo in base agli interessi economici di individui egoisti, senza alcuno spazio per concetti come lo “spirito pubblico” e il “bene comune”. Tra le più ferme convinzioni degli economisti liberisti è che ogni cosa buona della vita sia riducibile, in un modo o in un altro, a una merce da scambiare, traendone il massimo vantaggio. L’estensione dei mercati permetterebbe di ampliare la gamma delle opportunità per ciascuno, quindi di ottenere benefici maggiori per tutti. Inoltre, pagare per un bene, qualsiasi esso sia, non ne cambierebbe la natura, né modificherebbe l’atteggiamento che abbiamo nei suoi confronti. Sia chiaro, se devo vendere la mia auto usata o un appartamento, non c’è alcun problema etico nel cercare chi abbia la più alta disponibilità a pagare. Analogamente, sarebbe una cattiva idea mettere la gente in coda per acquistare i calzini, le auto o i frullatori. Molto meglio affidarsi al mercato, preferibilmente concorrenziale. Ma la coda è un buono strumento laddove l’accesso egualitario a un certo bene è un valore da tutelare. Non penso che troveremmo eticamente accettabile sostituire le code ai seggi elettorali con il pagamento (magari a seguito di asta telematica) per votare in fretta. Che penseremmo se la distribuzione dei vaccini anti-Covid avvenisse in base alla disponibilità a pagare invece che in base al rischio-salute? Pagare i bambini per leggere libri o per incentivarli a prendere buoni voti, pagare le donne tossicodipendenti affinché si lascino sterilizzare e non mettano al mondo bambini a loro volta tossicodipendenti, pagare per ottenere che un’altra donna porti avanti una gravidanza al proprio posto, possono sembrare modi per migliorare il benessere di tutti – sia chi è disposto a pagare sia chi è disposto a essere pagato – ma siamo sicuri che sia così? Secondo il filosofo di Harvard Michael Sandel (e io sono d’accordo) non è certo che sia sempre così: consentire la gestazione surrogata a pagamento può forse accrescere il benessere di coppie abbienti che non possono avere figli e di donne povere, magari residenti dall’altra parte del pianeta, e quindi soddisfare il criterio costi-benefici da un punto di vista utilitaristico. Ma la trasformazione della gestazione in un “servizio” acquistabile sul mercato mondiale non “svilisce le donne, strumentalizzando il loro corpo e le loro facoltà riproduttive”? (Sandel, M., Quel che il denaro non può comprare, Feltrinelli, 2013).

Le idee economiche vivono oggi un particolare trapasso: per fortuna, dopo la crisi finanziaria del 2008 e dopo la pandemia da Covid 19, la visione liberista ha subito un duro colpo a causa dei suoi propri fallimenti; una nuova consapevolezza sta emergendo da un mare tutt’altro che placido. Si è ricominciato a guardare al mercato (e al capitale) non come feticci ma come strumenti al servizio degli obiettivi che la società pone, attraverso le istituzioni democratiche. In tanti hanno ripreso a considerare i reali comportamenti degli esseri umani, il ruolo dei gruppi sociali e delle comunità (alcuni, a dire il vero, non avevano mai smesso di farlo). L’uomo economico, razionale ed egoista, con cui i fondamentalisti del mercato volevano imperialisticamente popolare tutte le scienze sociali, ha perso il centro della scena sulla quale aveva “steccato” più volte. Sembra che l’imperialismo degli economisti (liberisti) sia entrato nella sua fase declinante e che si stia facendo strada la convinzione di Federico Caffè che “la scienza è una continua distruzione creatrice e non un monotono dipanare il filo che può trarsi da un unico bozzolo”.

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