L’illusione di un nuovo bipolarismo

Eugenio Levi e Fabrizio Patriarca intervengono nel dibattito sul ritorno del bipolarismo sorto dopo l’ultima tornata elettorale e, esaminando i risultati elettorali, sostengono che l’affermarsi delle liste civiche e l’assenza di precisi crinali di frattura fra i partiti sono in contrasto con l’ipotesi di ritorno del bipolarismo lungo l’asse destra-sinistra. Piuttosto, perdura la crisi dei partiti e resta indefinito il quadro politico nazionale; la conseguenza di tutto ciò è una domanda mutevole disposta a muoversi fra diverse nicchie dell’offerta politica.

Le recenti elezioni amministrative hanno indotto un gran numero di opinionisti a parlare di un ritorno del bipolarismo fra centrodestra e centrosinistra. Il declino del Movimento 5 Stelle è sembrato a molti la spia più evidente di questo ritorno. Eppure, alcune indicazioni sembrerebbero puntare sì in direzione di un’evoluzione del quadro politico, ma non necessariamente di un ritorno al passato. Il tratto caratterizzante questa fase sembrerebbe essere ancora infatti, in perfetta continuità con gli ultimi anni, la perdurante crisi dei partiti politici e l’indefinitezza del quadro politico: vi sono prove che il crinale destra/sinistra tipico del bipolarismo non esista più e, inoltre, che non vi sia alcuna comparabile linea di frattura tra gli schieramenti politici. In questo articolo, ricaveremo alcune indicazioni in questa direzione combinando l’analisi delle elezioni più recenti con i risultati di una nostra ricerca sulle elezioni politiche del 2018 pubblicata recentemente su Economia Politica.

Nell’ultima tornata di elezioni amministrative, il dato più rilevante che, da un lato, smentisce l’ipotesi del ritorno del bipolarismo e, dall’altro, segnala la perdurante crisi dei partiti in Italia è l’ampio consenso per liste civiche associate ai candidati presidenti di Regione e sindaci. A questo riguardo ci soffermiamo sulle elezioni regionali perché generalmente più discusse sui media. La sera delle elezioni non erano pochi quelli che aspettavano con ansia il risultato calcistico: 5-1, 4-2, 3-3? E a favore di chi? Si temevano anche ripercussioni rilevanti sulla tenuta del governo nazionale. Ma ci si è soffermati ben poco sul crescente ruolo nella competizione elettorale di liste civiche associate ai candidati presidente.

La Figura 1 mostra la percentuale di voti raccolta dalle liste civiche nelle 6 regioni che sono andate al voto dal 1995 ad oggi. Nel 1995, nelle prime elezioni successive al crollo della Prima Repubblica e all’ascesa di Silvio Berlusconi, le liste civiche erano in numero ridotto e le loro percentuali di voto sono state estremamente modeste: gli elettori ancora premiavano le formazioni con richiami politici riconoscibili. Fino al 2000, in queste regioni, il numero di civiche è rimasto modesto e i loro risultati non hanno superato il 5%, con l’unica eccezione della lista Cacciari in Veneto. Anche candidati forti, come Antonio Bassolino che, in Campania, nel 2000, ha superato il 60% dei consensi, non presentavano liste civiche a loro sostegno.

Negli anni più recenti, con un’impennata dal 2015 in poi, le liste civiche sono aumentate di numero e hanno raccolto consensi rilevanti: in tutte le regioni, con l’unica eccezione della Toscana, hanno superano il 10% e nel 2020 sono arrivate in media al 25%. In sostanza, da una parte c’è una fetta rilevante di elettorato che preferisce votare liste non identificabili con alcun partito e dalla connotazione politica indefinita. Dall’altra, negli anni è maturata una capacità delle liste civiche stesse di organizzarsi a livello regionale e di diventare competitive, superando talvolta la percentuale degli stessi partiti o lambendola. Anche più emblematici di quello, ben noto, di Zaia in Veneto sono, ad esempio, i casi della lista di Toti in Liguria, di quella di De Luca in Campania, delle due liste a sostegno di Emiliano in Puglia. Anche in Regioni, come le Marche, in cui fino all’ultima tornata il loro peso era impercettibile, oggi le liste civiche raggiungono il 14% dei consensi.

Per comprendere questo dato bisogna tenere presente il successo delle liste civiche a livello comunale, in particolare nei comuni di medie dimensioni. Un anello di collegamento, che non manca di una punta di ironia, è la lista “Emiliano sindaco di Puglia”. Se consideriamo i soli comuni cosiddetti “superiori”, cioè con più di 15000 abitanti ma non capoluoghi di provincia – che, quindi, non includono Crotone e Enna – nel 2020, 22 di essi su 106 esprimono un sindaco di matrice civica. Questo dato è in aumento rispetto agli anni 2000. Se nella legislatura fra il 2008 e il 2013 solo nel 3% dei comuni in media veniva eletto un sindaco civico, dal 2013 al 2018 questo dato sale sopra il 20%, e nel 2019 c’è un exloit: si arriva al 43%. E notiamo che questo dato non tiene conto del Movimento 5 Stelle che, per quanto ottenga risultati non esaltanti nelle amministrative, comunque ad ogni tornata riesce a raccogliere qualche successo, da ultimo l’elezione del sindaco di Matera.

A un crescente consenso delle liste civiche, politicamente indefinite per loro natura, si aggiunge l’indefinitezza del quadro politico nazionale. E qui veniamo ai risultati di una nostra ricerca pubblicata recentemente su Economia Politica   nella quale abbiamo cercato di identificare le linee di frattura del confronto politico attraverso un confronto fra le caratteristiche rilevanti dell’elettorato dei principali partiti italiani delle elezioni del 2018 – Movimento 5 Stelle, Lega, Partito Democratico, Forza Italia. Più precisamente, abbiamo usato delle tecniche di machine-learning su 36 variabili di tipo geografico divise in quattro categorie (demografiche, socio-economiche, legate alla presenza di immigrati e alla qualità della vita) per identificare i predittori più rilevanti del voto per ogni partito e confrontarli fra di loro, senza alcuna pretesa di stabilire un’analisi di tipo causale o di interpretare le variabili. Presentiamo i risultati completi sui predittori nella Tabella 1.

Dal confronto dei predittori fra partiti emergono indicazioni importanti per il dibattito sull’ascesa dei partiti populisti. Dopo il declino di Silvio Berlusconi e l’ascesa del Movimento 5 Stelle, molti hanno infatti teorizzato che al tradizionale crinale destra-sinistra si fosse sostituito un nuovo discrimine nella domanda politica fra populisti e non populisti. In sostanza, il declino dei partiti aveva ridefinito i termini stessi del confronto intorno al problema della rappresentanza parlamentare. In altri termini, il confronto politico fra partiti anti-establishment, quali la Lega e il Movimento 5 Stelle – allora al governo insieme-e partiti tradizionali fautori della competenza politica e tecnica si sarebbe sostituito (o quantomeno affiancato) a quello fra partiti a favore del welfare state e partiti anti-tasse. I risultati della nostra ricerca smentiscono questa tesi e, piuttosto che riabilitare l’asse destra-sinistra, suggeriscono l’assenza di una precisa frattura che orienti il confronto politico.

Nello specifico: per entrambi i partiti tradizionali, il PD e FI, i predittori sono 12; la maggior parte di essi (8 in tutto) sono distinti ma complementari (età e tipo di abitazioni) oppure sono gli stessi ma con segni opposti. Ciò conferma la presenza residuale di un asse destra-sinistra in una parte dell’elettorato. Ci sono poi due predittori (esposizione al commercio extra UE e disponibilità letti in ospedale) che oltre ad essere comuni ai due partiti esibendo lo stesso segno sono rilevanti, ma con segno opposto, l’uno per i 5 Stelle e l’altro per la Lega. Ciò sembra indicare un possibile (ma debolissimo) crinale partiti tradizionali versus populisti. Questi partiti populisti però non sembrano essere tra loro né simili né complementari.

In sintesi, il Movimento 5 Stelle risulta avere un elettorato in città più grandi e con più crimini, dove vi sono più giovani, più disoccupati e dove si lavora prevalentemente nel settore dei servizi. La Lega invece prende più voti in città più piccole e più sicure, dove il livello d’istruzione medio è più basso e maggiore è il peso del commercio e dell’industria. I predittori sono diversi, e i pochi che coincidono presentano segno opposto. Inoltre, queste differenze sono difformi da quelle fra PD e Forza Italia. Lega e Forza Italia hanno in comune solo l’affermazione in comuni relativamente sicuri e con bassa istruzione, mentre tutte le altre caratteristiche sono specifiche a ognuno dei due partiti della coalizione di centrodestra. Gli elettorati di M5S e PD sono molto diversi nelle caratteristiche demografiche (età in primis), e nello status occupazionale. Sono in parte simili perché entrambi risultano più concentrati in aree dove l’economia è a prevalenza di servizi, anche se gli elettori del PD prevalgono nelle aree in cui i servizi sono più avanzati, e dove la densità abitativa è maggiore. Confrontando questi risultati con quelli del 2013, abbiamo rilevato che tra il 2013 e il 2018 i due partiti populisti si sono radicati in questi precisi blocchi sociali mentre i due partiti “tradizionali” hanno perso voti soprattutto nel loro elettorato storico di riferimento.

Per testare la robustezza dei predittori, abbiamo usato i rispettivi modelli di predizione per proiettare la distribuzione dei voti dei 4 partiti italiani in Francia, Spagna e Inghilterra, e poi abbiamo confrontato i risultati con quelli delle elezioni in quei paesi. Il grafico 2 mostra alcuni dei risultati riportando, rispettivamente per Lega e Movimento 5 Stelle, tutti e solo i partiti o i candidati di schieramenti non tradizionali dei tre paesi la cui distribuzione territoriale è correlata in modo significativo a quella della distribuzione predetta in quel paese dal nostro modello. Il modello predittivo sembra in grado di cogliere, oltre le attese, alcune dinamiche sottostanti allo scenario politico europeo – che, dunque, non sono esclusive del caso italiano (ci sono correlazioni significative al 5% nonostante le forti differenze nelle specifiche nazionali) – inoltre, esso offre un quadro di comparazione politologicamente sensato: la Lega è correlata con partiti che si sono caratterizzati per posizioni euroscettiche e anti-immigrazione, e i 5 Stelle sono legati a tutti gli altri movimenti esterni alla politica tradizionale. Si conferma sia la differenza tra i due partiti che la mancanza di un asse destra-sinistra.

In conclusione, la lettura di questa fase politica e dei recenti risultati elettorali secondo cui saremmo all’alba di un nuovo bipolarismo su un asse destra-sinistra, con ciascun polo composto da forze riformiste e forze populiste, non sembra confermata dalle nostre ricerche. Questa ondata bipolarista non sembra affatto straripante: risulta piuttosto confermata una tendenza strisciante al declino dei partiti politici.

Riguardo invece le possibili evoluzioni del sistema politico, è da notare che il civismo uscito rafforzato dalla ultima tornata di amministrative è un fenomeno complesso e non omogeneo. Si compone in parte del frazionismo crescente nei partiti politici, con le conseguenti fuoriuscite di pezzi di classe dirigente locale che hanno portato alla formazione di nuove formazioni civiche. Un altro fenomeno che compone questo civismo, da osservare con attenzione, è l’emersione di una nuova classe dirigente che si è fatta le ossa e ha maturato il suo consenso direttamente a contatto con i problemi economici e ambientali del territorio in cui viveva, senza filtri partitici. Insomma, potrebbero convivere spinte tipiche del municipalismo locale a carattere notabilare con l’organizzazione molecolare, maturata nel tempo, di esigenze di segmenti di popolazione. Non è neanche da escludere il ruolo di una certa tendenza al plebiscitarismo e a favore del cosiddetto “uomo forte”, che viene identificato magari nel candidato presidente di Regione o sindaco in assenza di forti leadership nazionali. Ribadiamo: in che modo questo fenomeno potrà incidere sulla politica nazionale è difficile dire. Potrebbe prevalere una domanda politica di rappresentanza “nuova” che corre su binari paralleli costruiti su formule identitarie spesso più naif che originali: civismo notabilare, complottismo, marianesimo, positivismo futurista, ambientalismo, talvolta antimodernista, euroscetticismo e xenophobia. Si tratterebbe però, almeno secondo alcuni indizi, di una domanda mutevole, disponibile in breve a muoversi tra diverse nicchie, passando senza traumi dall’uomo forte all’uomo qualunque, e viceversa, a seconda dell’altrettanto mutevole offerta politica.

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