L’ibridazione del capitalismo italiano come causa del suo declino (1990-2007)

Marco Simoni ritiene che per cogliere le ragioni di fondo del declino economico italiano, prima della grande recessione, occorre esaminare le riforme economiche degli anni. Basandosi sulla teoria delle Varietà di Capitalismo, Simoni mostra che i cambiamenti introdotti nel mercato finanziario e del lavoro hanno promosso istituti tra loro poco coerenti perché ispirati ora al modello continentale, ora a quello anglosassone, e che il risultato è stata un’ibridazione che ha indebolito la capacità di innovazione dell’Italia e, dunque, la dinamica della produttività e della crescita.

Come è noto agli economisti, ma non al pubblico a causa della violenza della grande recessione, l’Italia ha avuto due fasi diverse nella sua performance economica a partire dal secondo dopoguerra. Per oltre trent’anni è stato il paese d’Europa con la più elevata crescita media, ma da metà degli anni ‘90 al 2007 – cioè fino alla crisi finanziaria globale – è stato il paese d’Europa che è cresciuto meno in assoluto. Senza fasi intermedie, come in un vero e proprio tracollo, si è trasformata dal paese più dinamico in quello più lento.

La discussione pubblica e in parte anche accademica puntano il dito su ragioni che se possono, singolarmente prese, offrire indizi utili sui ritardi comparati dell’Italia, difficilmente sono in grado spiegare un passaggio così radicale. Al contrario, nel libro “Senza alibi: perché il capitalismo italiano non cresce più” (Marsilio 2012 – rimando alla bibliografia citata lì per i dati riportati in questo articolo) offro una interpretazione utile proprio a spiegare un fenomeno che altrimenti rimane paradossale. Questa interpretazione si concentra, come dal titolo del ricco convegno di Siena a cui fa riferimento Ugo Pagano nello scorso numero del Menabò, alla ibridazione del modello di capitalismo italiano, avvenuta a seguito di riforme incomplete, parziali o contraddittorie negli anni ’90, ossia all’inizio del declino.

Come diceva Sherlock Holmes, quando nessuna soluzione plausibile sembra funzionare, allora forse è vera quella meno intuitiva. La mia ipotesi deriva dalla teoria delle Varietà di Capitalismo, ed è confermata dalle analisi empiriche disponibili. Inoltre si presta a integrazioni coerenti, come ad esempio quella suggerita proprio da Pagano: in assenza di istituzioni finanziarie coerenti con gli istituti di corporate governance, le imprese italiane non hanno goduto di un quadro di incentivi funzionale a promuoverne la crescita dimensionale (uso il passato perché i cambiamenti intervenuti negli ultimi quattro anni nelle discipline finanziaria e lavoristica potrebbero aver cambiato il quadro, chiaramente too soon to tell).

In questo articolo riprenderò dal mio libro alcune tesi che possono essere utili sia per comprendere gli scorsi vent’anni che forse per gettare uno sguardo sui prossimi venti.

Innanzitutto, ricordo che tra il 1990 e il 2000 i governi (di centrosinistra, o di centrodestra) hanno riformato le banche, le leggi sul lavoro, la disciplina del diritto societario. Hanno privatizzato asset per circa il 10% del PIL – più di tutti, in Europa – hanno cambiato le norme sul bilancio degli enti locali, hanno riformato le pensioni, anche qui da primi della classe, hanno promosso una nuova disciplina della contrattazione collettiva. Questa lista potrebbe continuare: tutto si può dire della Seconda Repubblica tranne che sia stata avara di riforme, almeno nei suoi primi dieci anni.

Quindi il rallentamento della produttività e soprattutto la crisi dell’innovazione che ne è la causa più prossima, non può attribuirsi alla mancanza di attivismo dei politici. E, per passare alla seconda vulgata, lo stesso può dirsi delle riforme liberalizzatrici. Utilizzando vari indicatori dell’OCSE, da quello sul mercato del lavoro a quello sul mercato dei prodotti, dagli indici sulle liberalizzazioni alle riforme delle pensioni, l’Italia risulta costantemente ai primi posti per sforzo riformatore. Può anche darsi che per qualche idealista hayekiano, l’Italia sia rimasta comunque troppo statalista. Tuttavia, la direzione e la scala dei cambiamenti rende implausibile che le presunte insufficienti liberalizzazioni siano responsabili del grave declino economico italiano.

Il discorso potrebbe estendersi per includere il pluralismo politico e le rendite. Un’altra interpretazione comune sovrappone due elementi, quello della corruzione – noto impedimento alla crescita – e quello del ritardo di sviluppo del Meridione. Anche in questo caso, per identificare la corruzione e il ritardo del Sud come cause di un declino economico così radicale, bisognerebbe sostenere che essi siano aumentati. In realtà, sia i dati istituzionali – dai quali dipende la probabilità della corruzione– sia quelli economici sul Meridione, suggeriscono il contrario. Innanzitutto, negli anni del declino il Sud è cresciuto più del Nord, e non grazie agli aiuti di Stato che erano anch’essi in forte declino. Secondo, il pluralismo politico dal 1993 in poi è aumentato in maniera vertiginosa e le autorità indipendenti hanno ulteriormente eroso il potere di appropriarsi di rendite discrezionali. Una volta caratterizzata da un governo nazionale formato sempre dagli stessi partiti, con poteri locali che erano propaggini delle correnti politiche nazionali, l’Italia è diventata un paese in cui l’alternanza al governo è la regola, dal 1994 in poi. Inoltre, a differenza dei trent’anni precedenti, i sindaci e i presidenti di Regione, anch’essi a forte turnover, sono diventati contro-poteri rilevanti nei confronti dello stato centrale. L’aumento del pluralismo ha certamente ridotto gli spazi per rendite di posizione, oltretutto molto indebolite dalle privatizzazioni.

Questo non significa che rendite o corruzione siano scomparse, o che non siano da contrastare in maniera sempre più efficace, ma rende implausibile che la corruzione o il Meridione siano le cause del declino economico.

Piuttosto che cercare capri espiatori, che hanno funzionato come alibi per molti dei protagonisti di quegli anni, è utile esaminare la natura delle riforme e i loro effetti. La mia conclusione – che considero abbastanza robusta visto che non ha suscitato particolari critiche empiriche – è che le riforme degli anni ’90 hanno distrutto il precedente sistema di compatibilità e coerenze istituzionali. L’Italia del dopoguerra può essere stilizzata come un’economia a capitalismo coordinato “imperfetto”, in cui lo Stato a livello nazionale (grandi imprese) e relazioni istituzionalizzate a livello locale (distretti), hanno svolto la funzione di coordinamento strategico che altrove (ad esempio in Germania) è basata su estese istituzioni economiche nazionali. Quel modello è stato smantellato dalle riforme degli anni ’90, senza pensare alle compatibilità che andavano perdute, e senza che si promuovesse una logica coerente né di tipo liberale sul modello anglosassone, né di tipo coordinato sul modello continentale. Al contrario, entrambe le logiche sono state perseguite nei diversi ambiti di riforma, col risultato di una forte ibridazione che ha ridotto gli incentivi all’innovazione.

Non potendo esaminare in dettaglio le riforme fornisco, alcuni esempi di questa incoerenza. Nel settore della finanza e del diritto societario, la riforma del 1993 consentì per la prima volta alle banche di partecipare all’azionariato di società non finanziarie. Una chiara mossa nella direzione del modello tedesco, dove la presenza delle banche nei consigli di amministrazione è motivata dalla necessità di controllo su investimenti a lungo termine, in assenza di un controllo di mercato e in presenza di forti tutele per la proprietà contro scalate ostili. Viceversa, la riforma del diritto societario del 1998 si ispirò al diritto societario anglosassone, e fornì larghe garanzie agli azionisti di minoranza sul modello delle Public Companies. Dunque, le banche approfittarono naturalmente di questa nuova facoltà di presenza, ma solo come ulteriore controllo sui propri crediti, mentre le famigerate strutture piramidali vennero paradossalmente esacerbate, proprio per irreggimentare un controllo proprietario che non aveva più strumenti di difesa. Allo stesso tempo con i finanziamenti bancari è divenuto agevole, in assenza di poteri di difesa per scalate ostili, organizzare cambi di proprietà anche di aziende che lavorano bene solo su prospettive di lungo periodo. Il caso forse più rappresentativo è quello di Telecom.

Nel 1990, l’Italia era quinta in Europa per richieste di brevetti nel settore delle telecomunicazioni, con circa il 5,1% del totale: non un numero eccezionale ma rilevante. Nel 2008 queste richieste si sono più che dimezzate (siamo scesi all’1,8% del to­tale) e siamo stati sorpassati da paesi come la Svezia e la Finlandia, che occupavano posizioni molto più arretrate.

Questo risultato disarmante è anche la conseguenza delle strategie industriali di Telecom e del suo progressi­vo indebitamento, pari nel 2007 a circa 40 miliardi di euro, mentre era di circa 6,1 miliardi, con investimenti di circa 4,6 miliardi, l’anno prima della privatizzazione. Telecom era la più efficiente azienda telefonica europea e aveva inaugurato una serie di partecipazioni estere in mercati molto pro­mettenti come l’Argentina e il Brasile. Dopo la privatizzazione Telecom fu oggetto nel 1999 della più grande scalata ostile della storia d’Italia e il controllo a oggi è cambiato quattro volte. In sostanza, da quando non è più controllata dallo stato, i vertici decisionali sono cambiati ben sei volte in meno di vent’anni: una stra­ordinaria instabilità per un’impresa di quelle dimensioni.

Di questa traiettoria non è certo responsabile il desiderio degli investitori di arricchirsi: nelle economie che funzionano non c’è contraddizio­ne tra il successo personale di un investitore e il progres­so complessivo delle aziende e dell’economia. Se in Italia si è riscontrato questo conflitto, la causa va ricercata nelle strutture istituzionali. Quando fu privatizzata Telecom, si scelse il modello cosiddetto francese del «nocciolo duro»: un gruppo di investitori a cui il Tesoro avrebbe garantito il controllo. Ciò perché si considerava importante, dal punto di vista strategico e industriale, che la proprietà rimanesse costante. Al contrario, le norme sul diritto societario mutuate dal diritto anglosassone, combinate con le nuove possibilità d’intervento delle banche, hanno reso relativamente facile la scalata. Quella del 1999 fu resa possibile dall’indebi­tamento del nuovo gruppo di controllo, che ha appesan­tito la situazione finanziaria di Telecom, segnandone le strategie industriali, centrate nella sostanza sul servizio del debito (degli azionisti di controllo) piuttosto che sugli investimenti in innovazione.

Un secondo esempio riguarda il mercato del lavoro. Come è noto le riforme del 1998 e del 2001, con mirabile coerenza rispettivamente del centrosinistra e centrodestra, hanno creato una struttura “duale” in cui lavoratori “atipici” si sono trovati ad aggiungersi ai lavoratori “tradizionali”. Questo dualismo è stato esacerbato dal fatto che i “patti sociali” a partire dal 1993 avevano reso più coordinato il sistema di relazioni sindacali, che caratterizza la grande industria e il settore pubblico; inoltre i lavoratori “tradizionali” potevano contare su una maggiore organizzazione sindacale, di fatto assente tra quelli “atipici” per ragioni che esulavano la volontà dei sindacati, ma erano intrinseche a modelli occupazionali discontinui e fragili.

A partire dalla fine degli anni ’90, la maggioranza di nuovi assunti aveva un contratto “atipico”, fino a raggiungere oltre un quarto degli occupati totali nel 2008. In altre parole, il momento di ingresso nel mercato del lavoro è diventato il principale predittore dello status dei lavoratori: i giovani in stragrande maggioranza atipici, i meno giovani no. Di conseguenza, questa “dualizzazione”, che altrove – in Germania – è stata verticale per preservare la produttività dei settori manifatturieri, in Italia è avvenuta orizzontalmente, e ha coinciso con una frattura generazionale, che ha tagliato settori economici, professioni, tipi di occupazione. Di conseguenza, le leggi sul lavoro non hanno promosso più un chiaro set di incentivi né per le aziende né per i lavoratori.

Dal punto di vista dei secondi, il vantaggio comparato di dotarsi di una competenza generale (universitaria) o specifica (professionale) è diventato incerto, dato che il principale vantaggio economico è venuto a dipendere non dalle competenze ma dal tipo di contratto, con i lavoratori “atipici” sistematicamente pagati meno (effetto naturale della minore forza contrattuale).

Allo stesso tempo, per rimanere nel campo della dotazione di competenze, è calata la propensione degli imprenditori a perseguire strategie di formazione, ossia di investimento nella propria forza lavoro, caratteristica tipica delle economie coordinate. Infatti, le coorti di nuovi assunti erano caratterizzate dalla estrema flessibilità e mobilità, che dunque non incentiva tale investimento.

Inoltre, data la presenza nelle aziende comunque di una maggioranza di lavoratori a contratto “tradizionale”, per quanto più anziani, mancavano anche le condizioni per strategie aziendali “anglosassoni”, basate sul breve periodo. In questo contesto, la strategia più razionale è stata di utilizzare la ridotta capacità contrattuale dei lavoratori giovani come cuscinetto per strategie di contenimento dei costi, con un effetto depressivo per la produttività.

Questi due esempi servono a illustrare quali conseguenze negative sono derivate da strategie riformatrici prive di una visione d’insieme e spesso orientate a importare modelli esteri senza una riflessione sull’impatto che questi modelli avrebbero avuto sul tessuto economico dell’Italia. Inoltre, suggeriscono che maggiore attenzione va posta al modo in cui le riforme, in settori apparentemente scollegati, finiscono per interagire. Infatti, le strutture istituzionali incoerenti promuovono sistematicamente logiche contradditorie che cambiano l’incentivo degli attori economici, siano essi investitori o lavoratori. Questa incoerenza, si riscontra in molte riforme di quegli anni, da quelle fiscali a quelle sull’università, generando incentivi tali per cui le scelte più razionali per i singoli, si sono tradotte in risultati subottimali per il sistema nel suo complesso.

In chiosa, gli effetti di queste incoerenze istituzionali diffuse hanno spinto la discussione pubblica sul piano morale, per cui i giovani diventavano “fannulloni” e gli imprenditori “rapaci”, dimenticando che da sempre le istituzioni ben congegnate sono i meccanismi che il capitalismo usa per risolvere positivamente i tanti dilemmi del prigioniero che persone e aziende si trovano ogni giorno ad affrontare. Se ci si trova in equilibri subottimali, prendersela con i prigionieri è futile.

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