Liberalizzazione dei movimenti di capitale e disuguaglianza: i risultati di una stima

Massimo Aprea riflette sui possibili effetti delle politiche di liberalizzazione dei movimenti di capitale sulle disuguaglianze di reddito. Dopo avere illustrato le varie difficoltà che occorre affrontare per conoscere tali effetti e dopo aver ricordato che disponiamo di pochi studi al riguardo, Aprea presenta i risultati di un suo tentativo di stima soffermandosi, in particolare, su quello che mostra un significativo impatto delle liberalizzazioni sulla quota di reddito appropriata dall’1% più ricco della popolazione.

E’ oramai ampiamente riconosciuto che le disuguaglianze economiche, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, sono notevolmente e costantemente aumentate in quasi tutti i paesi avanzati. Il consenso che registra questo riconoscimento non si estende, però, all’individuazione delle cause che hanno determinato il fenomeno. Infatti, malgrado significativi progressi, non si può di certo dire che il dibattito sulle cause della disuguaglianza sia arrivato a conclusioni definitive. Uno dei motivi di questa incertezza risiede nella grandissima difficoltà di individuare le cause specifiche di un processo complesso come quello che sta alla base della distribuzione del reddito. Tuttavia, la cruciale importanza del tema e la sua rilevanza per esprimersi sulla desiderabilità di un determinato assetto politico-sociale, rendono necessari ulteriori passi avanti in questa direzione.

Queste note sono dedicate a riassumere i risultati di una mia indagine sugli effetti della globalizzazione finanziaria e in particolare della progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale, realizzata a partire dalla metà degli anni ’80, sulle disuguaglianze economiche in un campione di 14 economie avanzate. Questo specifico problema non ha ricevuto grande attenzione nella letteratura economica. Un contributo rilevante è però quello di Furceri e Loungani (“The distributional effects of capital account liberalization”, Journal of Develompent Economics, 2018) al quale mi riferirò ripetutamente.

Prima di descrivere l’analisi in maggiore dettaglio, sono opportune un paio di importanti precisazioni. In primo luogo, per globalizzazione finanziaria si intende il processo per cui i vari Paesi si collocano all’interno di un sistema di regole che consente a residenti e non residenti di scambiare attività finanziarie (capitale) in grandissima libertà. In secondo luogo, per quanto le due dimensioni siano indissolubilmente legate, può essere alquanto differente studiare gli effetti distributivi degli specifici provvedimenti legislativi di liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitali o del grado di apertura di un particolare sistema finanziario. Mentre la mia analisi si concentra sul primo di questi due aspetti, il lavoro di Furceri e Loungani si occupa del secondo.

La seconda precisazione si riferisce ai meccanismi attraverso cui la liberalizzazione dei movimenti di capitale può contribuire ad aumentare le disuguaglianze di reddito. Tali meccanismi possono essere molteplici e qui elencherò i principali. Il primo consiste in una maggiore volatilità finanziaria e nel conseguente aumento della probabilità di crisi finanziarie. L’assunzione è che tali crisi, come sostenuto da parte della letteratura empirica, aggravino anziché alleviare le disuguaglianze di reddito. Il secondo meccanismo, che ha rilevanza per la distribuzione funzionale del reddito, consiste nella perdita di potere contrattuale dei lavoratori rispetto al capitale. Anche qui l’intuizione è piuttosto semplice: i proprietari del capitale avendo la possibilità di minacciare credibilmente di trasferire all’estero i propri capitali riescono a imporre ai lavoratori condizioni (non solo salariali) molto più favorevoli ai propri interessi. Sarebbe particolarmente interessante sviluppare questa idea e sottoporla a verifica, in considerazione della sua rilevanza sociale e del consistente trasferimento di quote di reddito dal lavoro al capitale che si è verificato negli ultimi decenni. L’ultimo meccanismo deriva dai limiti che la libertà del capitale di muoversi da un paese all’altro può porre all’espansione dello Stato Sociale e dall’incentivo che dà a spostare il peso della tassazione verso i meno mobili redditi medio-bassi. Entrambi questi effetti vanno nella direzione di aumentare le disuguaglianze di reddito.

Passo ora a presentare i risultati della mia analisi empirica. Una questione problematica è quella della misurazione del grado di apertura finanziaria. A questo proposito si distinguono indicatori de jure, basati sulla raccolta di informazioni legislative di vario tipo e indicatori de facto, che, invece, prendono in considerazione l’informazione relativa a una specifica variabile economica.

Furceri e Loungani, nel loro articolo, si propongono di stimare l’effetto di episodi di liberalizzazione finanziaria sulla disuguaglianza misurata dal coefficiente di Gini e sulle quote di reddito di alcuni dei quantili più ricchi della distribuzione. Per farlo, utilizzano un panel molto ampio (149 Paesi per 45 anni) e una strategia che identifica le date “teoriche” di liberalizzazione quando la differenza da un anno all’altro di un particolare indicatore de jure di apertura finanziaria, il Kaopen, è maggiore di una determinata soglia. Inseriscono poi questa variabile di comodo, che assume il valore di 1 nell’anno in cui c’è stata una liberalizzazione e 0 altrimenti, in un’equazione autoregressiva nei vari indicatori di disuguaglianza andando così a stimare un modello Auroregressive Distributed Lag (ARDL). Il loro modello evidenzia un effetto positivo e statisticamente significativo dell’ordine dello 0,8% nel breve periodo (1 anno) e dell’1,4% nel medio periodo (5 anni) delle liberalizzazioni dei movimenti di capitale sul coefficiente di Gini, mentre è più difficile interpretare i loro risultati sui “top incomes” dal momento che non viene spiegato come sono inclusi nel modello.

Avendo a disposizione un campione molto più piccolo (14 Paesi per 45 anni) ho potuto verificare se le differenze del Kaopen fossero in grado di replicare con precisione lo schema delle liberalizzazioni rilevanti per lo studio. Dal confronto tra le date “teoriche” identificate dalla metodologia di Furceri e Loungani e quelle “effettive” dei provvedimenti effettivamente varati sono emerse alcune discrepanze. Per questo motivo ho deciso di includere nel mio modello empirico un indicatore de facto del grado di apertura finanziaria, orientando in tal modo l’analisi verso la verifica di un relazione tra l’apertura internazionale del regime finanziario e le disuguaglianze di reddito. L’indicatore che ho scelto è quello sviluppato da Lane e Milesi-Ferretti nel 2003 ed è costituito dal rapporto tra lo stock lordo (attività + passività) di titoli esteri e il Pil.

Il modello che ho stimato fa parte, come quello di Furceri e Loungani della classe degli (ARDL). L’ordine di ritardo che ho scelto è 2 sia per la componente autoregressiva (alternativamente il coefficiente di Gini sul reddito di mercato e la quota di reddito del centile più ricco) sia per la mia variabile esplicativa principale, ossia la somma di attività e passività estere sul Pil. Tale modello ha, tra gli altri, il vantaggio di tenere in considerazione la persistenza delle variabili distributive. Per attenuare i problemi riguardanti l’omissione di variabili che spiegano contemporaneamente l’aumento delle disuguaglianze e il grado di apertura finanziaria ho incluso una serie di controlli macroeconomici e tutte le variabili sono espresse in differenze per evitare che la significatività dei coefficienti stimati sia gonfiata da trend stocastici comuni. Infine, mentre il modello include degli effetti fissi al livello di Paese per tenere conto delle varie differenze istituzionali, ho preferito non includere gli effetti fissi temporali per guadagnare gradi di libertà per la stima dei coefficienti chiave. In alternativa, controllo per shock comuni ai vari Paesi includendo la crescita del Pil mondiale tra le variabili di controllo.

La tabella 1 presenta i risultati della stima, effettuata sia con il metodo dei minimi quadrati con errori raggruppati per Paese sia con il metodo della Seemingly Unrelated Regression, che, ipotizzando una struttura non diagonale della matrice di varianza e covarianza, dovrebbe aumentare la robustezza della stima.

 

 

Il risultato su cui vorrei richiamare l’attenzione è quello che riguarda l’effetto del grado di apertura finanziaria, misurato dalla variazione annua dello stock lordo di titoli esteri in rapporto al Pil, sulla quota di reddito detenuta dal centile più ricco. Più specificamente un aumento unitario dello stock di titoli esteri sul Pil fa aumentare la quota del centile più ricco di 0,206 punti; in termini percentuali questo significa un aumento del 2,34% rispetto al suo valore medio. Si tratta di un valore tutt’altro che trascurabile e robusto ad una serie di parametrizzazioni alternative del modello.

In conclusione, per stimare gli effetti che una decisione politica di straordinaria importanza, come è stata quella di procedere alla progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale, ha avuto sulle disuguaglianze economiche occorre affrontare numerosi problemi a iniziare da quelli relativi alla misurazione della liberalizzazione stessa. A questo proposito, mentre è evidente che, a seconda della domanda specifica che ci si pone, alcuni indicatori possano essere migliori di altri, sarebbe molto interessante sviluppare nuovi indicatori che consentano, tra le altre cose, di distinguere tra diverse politiche di liberalizzazione. Ad esempio, la liberalizzazione degli investimenti diretti esteri potrebbe avere effetti sull’entità e altre caratteristiche della disuguaglianza di redditi ben diverse dalla liberalizzazione dei movimenti di capitale a breve termine.

Il tentativo di cui ho dato conto in queste note, pur necessitando raffinamenti e approfondimenti, individua un effetto consistente delle liberalizzazioni sulle quote di reddito appropriate dall’1% più ricco. Tale risultato assume particolare rilevanza se si considera che la concentrazione del reddito nell’estremità più “alta” della distribuzione è un tratto distintivo della disuguaglianza di questi decenni. Se confermato, questo risultato contribuisce a rafforzare la tesi di chi ha sostenuto che le politiche adottate a partire dagli anni ’80 sono le maggiori responsabili della preoccupante evoluzione delle disuguaglianze.

Schede e storico autori