L’helicopter money e la credibilità della Banca centrale europea

Pompeo Della Posta discute l’affermazione secondo la quale monetizzare il debito rischierebbe di minare la credibilità anti-inflazionistica della Banca Centrale Europea sostenendo che non sarebbe questo il caso. Non è possibile, infatti, perdere credibilità attuando una politica, come sarebbe la monetizzazione della spesa, che porterebbe con sé meno rischi e che risulterebbe meno costosa dell'alternativa rappresentata dal ricorso all'indebitamento.

La crisi sanitaria ed economica prodotta dal COVID-19 determinerà una caduta del PIL che in Italia rischia di essere a due cifre e che sarà molto pesante anche negli altri paesi europei. Come sottolineato da Della Posta (2020) e Della Posta e Morroni (in MicroMega, 2020), le risposte tecnicamente possibili a un tale shock all’interno dell’Unione economica e monetaria europea (UME), vanno dall’estremo in cui i singoli paesi sono lasciati da soli nel fronteggiarlo a quello – politicamente più problematico – nel quale la sua natura simmetrica è riconosciuta e la Banca centrale europea (BCE) finanzia direttamente sul mercato primario la spesa pubblica decisa dal governo o bypassa il settore pubblico trasferendo potere d’acquisto direttamente sui conti correnti dei cittadini. Quest’ultima possibilità, non a caso, è quella che suggeriva Milton Friedman, che per primo utilizzò l’espressione helicopter money proprio per riferirsi al finanziamento diretto dei cittadini, senza l’intermediazione del governo, da parte della banca centrale. Tale politica avrebbe il vantaggio di evitare l’accumulazione di debito pubblico, il cui piano di rientro rischierebbe di frenare la crescita futura dei paesi indebitati.

Gli economisti che si schierano a favore di tale possibilità sono numerosi e, sorprendentemente, appartengono ai più diversi approcci teorici, da quelli più ortodossi (si veda ad esempio Blanchard e Pisani-Ferry, 2020, Giavazzi e Tabellini, 2020, Galì, 2020) a quelli più radicali (si veda ad esempio l’appello di 101 economisti apparso su MicroMega il 14 aprile 2020), passando per economisti dal prestigio indiscusso ma più difficilmente catalogabili in un definito filone teorico (De Grauwe, 2020).

Al di là degli aspetti formali legati agli impedimenti istituzionali derivanti dalla lettera del Trattato di Maastricht che regola il funzionamento della BCE e che comunque, se esistesse la volontà politica, potrebbero ben essere superati, come ricorda lo stesso De Grauwe, 2020, nel discutere la possibilità di adottare una politica di espansione monetaria volta al finanziamento diretto della spesa pubblica c’è chi ribadisce che operando in tal modo si rischierebbe di minare la credibilità anti-inflazionistica della BCE stessa. Chi assicura, si argomenta, che l’emissione di moneta volta al finanziamento diretto della spesa pubblica non diventi ricorrente, influenzando così lo stato delle aspettative del settore privato? Vi è il rischio elevato, quindi, che la credibilità della BCE venga perduta irrimediabilmente, aprendo la strada ad inarrestabili aspettative inflazionistiche.

Vale però forse la pena di tornare ai passaggi che hanno accompagnato l’evoluzione della teoria della credibilità per ricordare il punto di convergenza che si raggiunse negli anni Novanta del secolo passato. I contributi teorici iniziali degli anni Settanta e Ottanta, infatti, in particolare quelli di Kydland e Prescott (in Journal of Political Economy, 1977) e di Barro e Gordon (in Journal of Monetary Economics, 1983), sembrarono effettivamente condurre alla conclusione inequivocabile della superiorità delle regole monetarie rispetto alla discrezionalità. Quelle argomentazioni hanno, di fatto, rappresentato la base su cui è stata costruita l’architettura istituzionale della BCE e ad esse si richiamano anche in questi giorni coloro che sostengono che al fine di preservare la credibilità futura della BCE sia necessario continuare a tenerle “le mani legate”.

Tale conclusione, tuttavia, fu rivista da contributi successivi, che considerarono un contesto stocastico, anziché deterministico (Lohman, in American Economic Review, 1992), dimostrando che nel caso in cui la produzione fosse colpita da uno shock inatteso non si poteva più concludere in maniera univoca che le regole fossero superiori alla discrezionalità.

L’esempio è molto semplice da fare: Ulisse poté rimuovere con successo il problema di incoerenza temporale che aveva di fronte a sé, facendosi legare le mani all’albero maestro della sua nave. La tentazione di rinnegare la sua decisione iniziale di non gettarsi in mare, morendo così travolto dai flutti nel tentativo di raggiungere le sirene, quindi, era esclusa fin dall’inizio e la scelta di tirare diritto davanti alle sirene, compiuta al momento di partire, poteva ben dirsi credibile. Ma che ne sarebbe stato di lui e del suo equipaggio – ai cui componenti, come tutti ricordiamo, egli aveva impedito di sentire il canto ammaliatore delle sirene mettendo tappi di cera nelle loro orecchie – se la nave fosse stata colta di sorpresa da una tempesta? Quello shock inatteso avrebbe rischiato di mandare a fondo la nave prima ancora di dover affrontare la sfida posta dal canto tentatore delle sirene. Avere le mani libere, invece – cioè potere esercitare discrezionalità di azione – avrebbe permesso loro di affrontare la tempesta.

Tutto questo portò alla conclusione che nel caso in cui ci sia la possibilità di essere colti da shock inattesi, le regole monetarie non devono essere fisse, bensì state-contingent, vale a dire che le regole devono adattarsi a stati diversi del sistema (Svensson, in Alfred Marshall Lecture, 1993).

Era necessario distinguere, quindi, fra credibilità dei policymakers e credibilità delle politiche che tali policymakers perseguono (Drazen e Masson, in Quarterly Journal of Economics, 1994). Come possono i policymakers essere credibili e mantenere la loro credibilità se adottano politiche che mancano esse stesse di credibilità? Il contesto nel quale si sviluppò questa conclusione era quello dei cambi fissi e del mantenimento dell’impegno iniziale a non svalutare la propria moneta. Tale politica, infatti, si scontrava con la realtà della perdita di competitività risultante da una divergenza inflazionistica che non avrebbe dovuto esserci proprio grazie ai guadagni di credibilità, ma che invece si era ugualmente manifestata per ragioni diverse, di natura strutturale e/o istituzionale (Rudiger Dornbusch fu fra i primi a farlo notare a noi italiani nella primavera del 1992, prima della crisi dello SME che poi ebbe il suo avvio nel settembre).

Come poteva la Banca d’Italia mantenere la propria credibilità nella difesa del cambio se tale politica non era di per sé credibile, vista l’impossibilità per l’economia italiana di sostenere a lungo i deficit risultanti della bilancia commerciale che affossavano la nostra produzione interna?

Il parallelo fra quel contesto e l’attuale, pur con le dovute differenze, è facilmente tracciabile. Si argomenta oggi che la BCE potrebbe perdere la propria credibilità anti-inflazionistica se accettasse di acquistare sul mercato primario i titoli di stato o se finanziasse direttamente i cittadini accreditando i loro conti correnti (contravvenendo così alla lettera del Trattato di Maastricht). Ma la credibilità non sarebbe perduta, proprio perché la situazione è tale da rendere evidente che monetizzare le spese sarebbe meno costoso per le economie dei paesi dell’area euro che ricorrere all’indebitamento, qualunque sia la forma che esso assuma (eurobond, coronabond, MES, debito nazionale). La restituzione futura di tali debiti, infatti, rischierebbe di compromettere le capacità di ripresa economica dei paesi in questione, che si troverebbero nella condizione di dovere ricorrere a politiche recessive di austerità fiscale. Monetizzare le spese, invece, permetterebbe di rispondere in maniera efficace alla grave crisi che li ha colpiti senza esporli al rischio di attacchi speculativi sul debito, senza creare le premesse per austerità recessive future, né d’altra parte rischiare nulla dal lato dell’inflazione, per ovvie ragioni.

Il contesto istituzionale europeo, e in particolare la frammentazione intergovernativa che contraddistingue l’EMU, tuttavia, non consente di riconoscere queste conclusioni, che risultano invece di tutta evidenza alla Bank of England, che si interfaccia ad uno stato nazionale, e alla Federal Reserve, che ha di fronte a sé uno stato federale, tanto per fare un paio di esempi ben chiari e difficilmente contestabili.

Già durante la crisi dell’area euro ci distinguemmo per perseguire politiche fiscali restrittive opposte a quelle decise dal Regno Unito e dagli Stati Uniti, con risultati che non sono stati quelli attesi (basti pensare che la crisi cessò nell’estate del 2012 solo grazie al whatever it takes di Draghi e non certo come frutto dell’austerità fiscale che fu imposta).

Pare proprio che anche in questa occasione si voglia incorrere in un errore simile, sebbene relativo questa volta alla politica monetaria. Si afferma spesso che l’UME sia una unione incompleta. Il costo di tale incompletezza e frammentazione appare, ancora una volta, di tutta evidenza.

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