L’Europa sonnambula

Roberto Tamborini parte dalla considerazione che la crisi del decennio scorso è stata un'occasione persa per creare un'Europa migliore e sostiene che oggi non si tratta di organizzare aiuti umanitari per questo o quel paese. Secondo Tamborini, non basta accontentarsi di qualche miglioramento rispetto agli errori della crisi precedente. Occorre un europeismo esigente, impiantare il seme, seppur piccolo, di un lungamente (dis)atteso cambio di natura più genuinamente europeo.

I protagonisti del 1914 erano dei sonnambuli, apparentemente vigili ma

non in grado di vedere, tormentati dagli incubi ma ciechi di fronte alla

realtà dell’orrore che stavano per portare nel mondo (C. Clark, Come

l’Europa arrivò alla Grande guerra, Laterza, Roma-Bari, 2013)

 

Nel pieno della tempesta economico-finanziaria europea seguita alla Grande recessione, Benjamin Cohen scrisse che tanto i pessimisti della ragione – prevedendo il crollo inevitabile dell’Unione monetaria europea (UME) –  quanto gli ottimisti della volontà – fiduciosi nella sua rifondazione e rinascita – avevano torto. “L’euro né fallirà né avrà successo. Difettoso ma difeso, semplicemente sopravvivrà” (“The Future of the Euro: Let’s Get Real”, Review of International Political Economy, 2012, p. 689, trad. mia).

In quel frangente, un numero sorprendente, per quantità e qualità, di studiosi internazionali si sforzò di dare concretezza al motto “una crisi è un’occasione da non sprecare”. Nei dieci anni trascorsi, una mole di articoli, studi, libri, blog e post si sono cimentati sul tema delle “lezioni della crisi”. Senza pretesa di sistematicità, nella mia biblioteca elettronica ora ne conto più di 300. In retrospettiva, pur tra molte sfumature e varianti, vi è stata una rimarchevole convergenza su alcuni punti, ripresi più volte anche in documenti ufficiali dei vertici comunitari, che riassumo qui di seguito.

1) Ebbe luogo una “europeizzazione” della crisi finanziaria globale, nel senso che essa fu esacerbata e prolungata da un serie di errori, e soprattutto da alcuni gravi difetti di costruzione della casa comune. Uno in particolare si rese evidente: la UME non era attrezzata per far fronte alle crisi sistemiche. Il disegno istituzionale era interamente finalizzato a prevenire e circoscrivere i cosiddetti “shock asimmetrici”, imbrigliando però lo spazio fiscale dei paesi membri secondo il dettato del Patto di stabilità.  Non era stato concepito alcun sistema di stabilizzazione finanziaria e macroeconomica sovranazionale al di fuori delle politiche monetarie ordinarie della BCE. Anzi, la visione ortodossa era che tale assetto fosse necessario allo scopo di preservare l’indipendenza della politica monetaria (monetary dominance).

2) “Gli avvertimenti non furono ascoltati. Istituzioni scadenti, i cui difetti erano stati evidenziati accuratamente, non furono toccate o malamente rattoppate. Quando infine la crisi rese evidenti queste crepe, le autorità scelsero di evitare le questioni di fondo” (C. Wyplosz “The Eurozone Crisis: A Near-Perfect Case of Mismanagement”, Journal of Applied Economics¸ 2014, p. 3; trad. mia). La creazione emergenziale di nuovi istituti e strumenti (Six Pack, Two Pack, Fiscal Compact, European Stability Mechanism, ecc.), sebbene eseguita rapidamente e con qualche utilità, fu insufficiente nell’insieme e segnata dall’espansione incontrollata e disordinata del “metodo intergovernativo” dei negoziati e accordi diretti tra governi al di fuori e al di sopra delle istituzioni comunitarie. Furono prodotti sostanzialmente meccanismi di “prevenzione e correzione” degli squilibri fiscali e macroeconomici di ciascun paese, in linea con la visione suddetta e con lo scopo di rafforzarne l’attuazione.

3) Era urgente porre rimedio con una serie di riforme istituzionali finalizzate a “completare la UME”, indicata nei tre obiettivi della Unione bancaria, Unione fiscale, e asintoticamente, Unione politica. In assenza di tali interventi (certamente i primi due), alto era il rischio di soccombere alla “prossima crisi”.

Lo scatto del Jean Monnet Moment – “L’Europa progredirà attraverso le proprie crisi” – non ci fu, ma piuttosto l’incedere del sonnambulo. Solo l’Unione bancaria è stata avviata (sorveglianza centralizzata nella BCE, meccanismo unico di risoluzione delle crisi) ma è rimasta incompleta nella parte più vicina ai cittadini (assicurazione comune dei depositi), incagliata nella disputa esoterica tra divisione e riduzione del rischio. l’Unione fiscale è rimasta un tabù, e nessun passo concreto è stato fatto nemmeno per una razionale stabilizzazione macroeconomica comune. La spinta riformatrice impressa dalla presidenza francese di Emmanuel Macron (il famoso Discorso della Sorbona del 26 settembre 2017) si è spenta nel giro di un anno o poco più.

La prossima crisi è adesso. Mentre un’epidemia epocale sta sconvolgendo il continente, l’incompletezza della UME grava ancora come una pesante zavorra sulla capacità collettiva, e di ciascun paese, di reagire in maniera pronta ed efficace. Contrariamente ad alcuni superficiali raffronti e rassicuranti convenevoli, ci sono inquietanti analogie, una coazione a ripetere, che lega la crisi economico-finanziaria del decennio scorso, quella del Covid-19 e le chiavi di lettura e reazione dei paesi della UME.

Primo, le due crisi sono entrambe sistemiche, o come si dice in gergo, “simmetriche”. La caduta aggregata del PIL nel 2009 fu del 4,5%. In questo momento nessuno è in grado di prevedere con sufficiente precisione l’entità e la durata della recessione prodotta dal lockdown continentale, ma le previsioni di primavera della Commissione vanno oltre il 7% per il 2020, con valori tra il 4% e il 9% per i singoli paesi.

Secondo, dieci anni fa la risposta europea fu un timido Economic Recovery Plan da 200 miliardi di euro (1,5% del PIL), proposto dalla Commissione presieduta da Manuel Barroso, “nel pieno rispetto del Patto di stabilità e crescita” (Comunicato del 26 novembre 2008), che poi venne sospeso de facto ma nel solo 2009. Nello stesso tempo, prendendo a confronto un’entità federale di dimensioni analoghe, Washington varava un piano da 700 miliardi di dollari. Partendo dal nulla preesistente, la prima linea di difesa comunitaria alla pandemia Covid-19, e l’unica nelle intenzioni dei governi dei paesi “austeri” che poco prima avevano rifiutato di “elevare” il cosiddetto bilancio europeo al 1% del PIL, è stata portata dalla Commissione von der Leyen al Consiglio europeo (non al Parlamento) il 26 marzo.  Essa comprende la sospensione del Patto di stabilità (questa volta sembrerebbe a tempo indeter­minato), e un pacchetto di risorse da 540 miliardi ottenibili dalla Banca europea degli investimenti (200 mld.), dal Meccanismo europeo di stabilità (MES, 240 mld.) e da un progetto di fondi di supporto agli ammortizzatori sociali (SURE, 100 mld.). Sorvolando sulla differenza tra fondi comunitari e fondi prestabili da altri enti il totale ammonterebbe a circa il 4% del PIL, a fronte del 10% degli Stati Uniti. Poi c’è l’impegno della Banca centrale europea ad estendere le operazioni “non convenzionali” fino a 750 miliardi, tra cui acquisti di titoli di stato sul mercato secondario.

Questi interventi di pronto soccorso costituiscono un importante miglioramento della capacità di risposta comunitaria rispetto all’esperienza passata. Ma se questo rimanesse il perimetro d’intervento, come desiderato dai governi “austeri”, l’entità della risposta della Zona Euro sarebbe di nuovo largamente affidata alla capacità di spesa dei singoli paesi, mentre quello inter­governativo continua ad essere l’unico sistema decisionale de facto. In complesso, ancora una volta, risulterebbe difficile convincere un euroscettico del valore aggiunto dell’ Europa, visto che qualsiasi stato sovrano può giovarsi, senza particolari intralci, del finanziamento monetario della spesa pubblica da parte della propria banca centrale, come sta avvenendo negli Stati Uniti, Regno Unito o Giappone, o in caso di emergenza finanziaria può ricorre al Fondo monetario internazionale senza dover contrattare il beneplacito di altri diciotto governi come richiesto dal MES.

Terzo, tra il 2008 e il 2010 lasciare salvataggio e rilancio dell’economia pressoché interamente sulle spalle fiscali di ciascun paese portò il disavanzo aggregato della Zona Euro dal 2,1% del PIL al 6,3%, compreso tra 2,5% della Finlandia e 11,2% della Grecia. Quando nel 2010 venne suonato l’allarme del consolidamento fiscale (l’austerità), l’approccio esclusiva­mente preventivo e correttivo “paese per paese”, la dottrina dei “compiti a casa” di ciascuno insita nel DNA della UME, determinò il risultato opposto a quello desiderato, alimentando e amplificando le forze divergenti, già di per sé in atto, sia degli andamenti macroeconomici che della finanza pubblica.  Assente nei Trattati e nelle regole, nessuna considerazione ebbero fenomeni macroeconomici ben noti come le ripercussioni reciproche tra paesi, o la necessità di affiancare alla politica monetaria unica una coerente posizione fiscale aggregata. Nessun peso fu dato al fatto che a partire dal 2012, cadendo nella seconda recessione, la dinamica del PIL e della disoccupazione della Zona Euro andarono fuori sincrono, non solo rispetto ai paesi extra-europei, ma anche rispetto ai paesi europei non-euro. Ma nessuno, a parte la BCE, ha il mandato di curarsi della Zona Euro in quanto tale. Emerse nitidamente qual era la natura della UME plasmata dai Trattati e dal loro enforcement. “(…) Una concezione bellicosa della politica (…) Per tutto il tempo della crisi i governi nazionali si comportarono come se i rispettivi stati fossero, o dovessero diventare, autosufficienti, vivere esclusivamente dei propri mezzi, stare saldamente in piedi sulle proprie gambe” (C. Bastasin “The Euro and the End of 20th Century Politics”, 2015; trad. e corsivi miei). I paesi forti non hanno bisogno dell’Unione, averne bisogno è uno stigma di debolezza che costa caro ai tavoli negoziali.

Dinanzi alla forza travolgente di una catastrofe sanitaria come quella odierna, già qualcuno ha osservato che lo shock è simmetrico, ma effetti e reazioni dei paesi saranno asimmetrici. Osservazione condivisibile, che tuttavia lascia aperto il dubbio atroce su quale sarà la conseguenza. Le eventuali diversità nell’entità del disastro sanitario ed economico, e di conseguenza la maggior disarticolazione o resilienza dei sistemi economici e dei conti pubblici, attizzeranno l’incontenibile attitudine europea al “finger pointing“, saranno messi a carico di ciascun paese, affidato alle terapie dei vari “bracci correttivi” degli strumenti predisposti durante la crisi precedente? Quest’attitudine “istintiva” si è manifestata nei vertici europei che hanno seguito l’inizio dell’emergenza, anche con toni grossolani e offensivi dei governanti contrari alla creazione di strumenti collettivi.

Per il presidente della Bundesbank Jens Weidmann “la priorità è dare aiuti. Ma un’espansione della responsabilità comune modificherebbe la natura dell’Unione monetaria” (intervista a Affari & Finanza, 20 aprile). Il bivio esistenziale dell’Unione monetaria ora è proprio questo. Non si tratta di organizzare aiuti umanitari per questo o quel paese, o di abborracciare un armamentario pseudo-comunitario incompleto, anacronistico, disegnato su misura dei rapporti di forza inter-governativi. Non basta accontentarsi di qualche miglioramento rispetto agli errori della crisi precedente. Occorre un europeismo esigente,  impiantare il seme, seppur piccolo, di un lungamente (dis)atteso cambio di natura più genuinamente europeo, con una strategia mirata a due obiettivi fondamentali (v. Boitani e Tamborini lavoce.info). Primo, contingente, limitare il più possibile la crescita incontrollata e scoordinata dei debiti pubblici nazionali. Secondo, prospettico, introdurre nuovi dispositivi di finanza pubblica comunitaria, comunitaria sia dal lato delle entrate che delle spese, indispensabili per scongiurare le tendenze disgregatrici dell’UE che, sommandosi alle precedenti, diventerebbero letali.

Questa prospettiva ha trovato spazio nel Consiglio europeo del 23 aprile, a costo di aspre contrapposizioni, forse anche grazie a una inusuale pressione della società civile in diversi paesi (ad esempio, tra molte altre, una petizione alle autorità e ai capi di stato e di governo europei ha raccolto più di 1800 adesioni di economisti europei). Il Consiglio ha avallato, oltre al pacchetto emergenziale della Commissione citato prima, la proposta presentata dalla Francia (col sostegno di Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Belgio e altri via via) di creare un Recovery Fund innestato su un bilancio comunitario rafforzato e alimentato dalla raccolta di fondi sul mercato finanziario. Alla Commissione è stato dato mandato di definire il quadro normativo e operativo di tale strumento, che potrebbe raggiungere la cifra di 1500 miliardi, e a cui potrebbero attingere i paesi membri nella fase di rilancio delle proprie economie. Si tratta di un passo nella direzione auspicata, sebbene molti aspetti siano ancora da definire, e molti inciampi possano ancora ostacolarne il cammino o trasformarlo in un gioco di prestigio di poste contabili già esistenti. Se ne riparlerà nei prossimi vertici, e difficilmente il nuovo fondo diventerà operativo prima del 2021.

Rimane alto il rischio che se qualche risultato concreto arriverà, non sarà il frutto di un vero rinnovamento, ma dell’ennesimo negoziato hic et nunc tra governi in base ai loro rapporti di forza, magari grazie alla benevolenza di qualcuno di essi. Forse l’Europa sonnambula sopravvivrà anche questa volta perché non può morire, sebbene la storia e l’economia insegnino che non può progredire senza cambiare la sua attuale natura di “bellicosa”  competition union, come ben descritta anche da Francesco Farina sul Menabò del 30 aprile: una mera arena delle forze di mercato, popolata da sovrani(sti) fiscali assoluti in reciproca competizione legati solo da tassi di cambio irrevocabilmente (?) fissi, con una pletora di guardiani e arbitri, ma un solo organo di governo col solo obiettivo della stabilità dei prezzi. Competere senza cooperare è un gioco a somma zero che comporta vincenti e perdenti, ma, come in una scalata in cordata, la caduta dei perdenti può trascinare con sé anche i vincenti, a meno che la corda venga tagliata.

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