L’Europa e l’ex Jugoslavia

“Guerra contro l’Europa” s’intitolava l’articolo di apertura del menabò, giugno 1999, dedicato ai bombardamenti allora in corso sulla Serbia. In realtà – vi si leggeva – Clinton mirava soprattutto a «dare un colpo mortale ad ogni sforzo dell’Europa di progettare se stessa e il proprio futuro, di cancellare antiche divisioni, di costruire un’identità europea economica, politica e sociale». Nell’ultimo numero dello stesso menabò, Giuliano Garavini illustra il concetto di “area regionale”, intesa come gruppo di nazioni economicamente integrate e politicamente coordinate. Rifacendosi a tale concetto, si è portati a dire che se gli USA sono attualmente impegnati a battere un tentativo di compattare in “area regionale” il mondo arabo, non se ne può desumere che abbiano invece accettato il potenziamento di quella europea, il  duplice sforzo di allargare l’UE a Est e di definirne meglio sia lo statuto politico, sia il modello sociale.
Per il 2004 è prevista l’ammissione all’UE di Polonia, Ungheria, Rep. Ceca, Slovacchia, Lettonia, Estonia e Lituania; per il 2007 di Romania e Bulgaria. Entreranno cioè tutti i Paesi dell’Europa orientale e balcanica già controllati dall’URSS. Ma a parte la piccola Slovenia – la cui ammissione è pure prevista per l’anno prossimo – che ne sarà delle altre cinque repubbliche già aderenti alla Federazione jugoslava?
Qui vorrei fare qualche accenno, in particolare, alla Serbia e ai criteri di politica economica (obbedienti senza riserve ai dettami dei “grandi organismi finanziari internazionali”) seguiti dal suo governo attuale nel proclamato intento di portarla, appunto, in Europa. In un articolo sul “Percorso delle privatizzazioni in alcuni paesi dell’Est” pubblicato sul menabò del febbraio 1999, V.Crispolti e R.Sadun scrivevano che laddove, come in Polonia e nelle nazioni dell’ ex Jugoslavia, gli assetti proprietari delle imprese erano tali da consentire ai loro managers e ai loro dipendenti un controllo effettivo, i programmi di privatizzazione non potevano limitarsi alla vendita diretta ad acquirenti interni o esteri, ma comprendevano necessariamente forti concessioni a questi gruppi, sotto forma di assegnazioni privilegiate (vauchers) o di acquisti (MEBO) riservati agli stessi. Evidentemente, per quanto riguarda l’ex Jugoslavia, gli Autori pensavano al sistema di autogestione che Tito e i suoi collaboratori cercarono di edificare in alternativa alla pianificazione di stampo sovietico. E’ noto però che tale sistema, dopo vari alti e bassi, rimase lontano dal raggiungere i traguardi sperati. Nello sfacelo della Federazione e della sua economia, i princìpi dell’autogestione sono stati recepiti in qualche modo dalla Costituzione della Repubblica di Serbia, promulgata il 29 settembre 1990. Vi si legge infatti che la proprietà è garantita in ogni sua forma, «sociale, statale, privata e cooperativa» (art.56) e che «i lavoratori devono amministrare l’impresa a proprietà sociale e partecipare all’amministrazione degli altri tipi d’impresa» (art.58). Queste riaffermazioni suonano ormai alquanto platoniche, sebbene permanga tuttora nei lavoratori – posso testimoniarlo – un certo senso di loro appartenenza alla fabbrica e della fabbrica a loro.
E’ chiaro, comunque, che l’attuale governo di Zoran Djindjic tende a comportarsi, in sostanza, come se i lavoratori non esistessero. Con spregiudicato piglio decisionistico, sta procedendo spedito sulla via delle privatizzazioni, per lo più col semplice sistema della vendita all’asta. I lunghi e scarni elenchi che ne vengono di frequente resi pubblici, assomigliano quasi a bollettini di guerra. Come i generali della NATO enumeravano, nel 1999, gli impianti e le città serbe colpite, così, dopo ogni asta, tali elenchi indicano laconicamente sedi e nomi delle ditte vendute (una ventina in media), quelli dei rispettivi compratori e i prezzi riscossi. In un’intervista del 4 gennaio u.s. Aleksandar Vlahovic, ministro dell’economia e delle privatizzazioni, si è  dichiarato soddisfatto di  aver venduto, nel 2002, circa 300 ditte e generalmente “con successo”, cosicchè il ricavo complessivo si è aggirato sui 350 milioni di euro. Nel 2003 – ha aggiunto – contiamo di triplicarlo e alla fine dell’anno avremo privatizzato il 60% dell’intera economia serba.
Per alcune aziende di maggiori dimensioni si punta alla “joint venture” con società estere, attraverso operazioni a volte tanto improvvise quanto discutibili. Tipico è il caso della “Zastava-automobili” di Kragujevac. Il 16 ottobre, cioè alla vigilia delle elezioni presidenziali serbe, il ministro Vlahovic rese noto, di punto in bianco, di aver firmato con la società statunitense “Nucarco” un pre-accordo per una joint-venture denominata “Zastava Motor Works” (ZMW), con azioni possedute per l’80% dagli americani. Nei prossimi tre anni la “Nucarco” investirebbe nella ZMW 150 milioni di dollari. Entro un quinquennio si dovrebbe raggiungere la produzione annuale di 220.000 vetture, il 75% delle quali da vendere sui mercati nord-americano, europeo e di “altri paesi sviluppati”, tra i quali – si è poi saputo – principalmente l’America del Sud.  Dagli attuali 4.500 dipendenti risparmiati, su 13.500 che erano, dai licenziamenti che il governo impose un anno fa, si dovrebbe tornare gradualmente a 9.000. E altre meraviglie.
Proprio mentre stavamo distribuendo, nel salone della “Zastava”, borse di studio inviate da scuole e famiglie italiane – tramite la nostra associazione di volontariato “ABC Solidarietà e pace” –  a figli di operai locali disoccupati, alla direzione si svolgeva un incontro del titolare della “Nucarco”, Malcom Bricklin, assistito dal suo staff, con  managers e sindacalisti dell’azienda. Ecco una sintesi di quanto ci hanno detto alcuni di questi ultimi, venuti la sera a cenare con noi. Gli americani si erano sbracciati a dimostrare ottimismo e spirito di collaborazione, ma loro rimanevano dubbiosi e scettici. Oltretutto il Bricklin ha alle spalle una serie di clamorosi (e probabilmente sistematici) fallimenti. A Kragujevac tutti ricordano la società “Jugo-America”, da lui promossa negli anni ’80, che avrebbe dovuto dar luogo a un’invasione del mercato statunitense da parte di utilitarie costruite appunto alla “Zastava”. Fu un fiasco e i media americani parlarono sarcasticamente di un “Affare del secolo” andato in fumo.  Adesso il Bricklin è tornato alla carica. Ma non può certo essere considerata sufficiente, in mancanza di reali e chiare garanzie finanziarie, quella clausola del pre-accordo con cui «il partner statunitense s’impegna a prevenire eventuali pericoli di bancarotta della ZMW durante i prossimi cinque anni». Testuale: anche una excusatio petita – diremmo noi ricorrendo al latino – può essere una accusatio manifesta. Comunque all’accordo definitivo, secondo il governo, si dovrebbe arrivare entro il 1° marzo. Per ora non si hanno altre notizie. Staremo a vedere.
Tornando a un discorso di carattere generale, va osservato che il governo si dichiara consapevole dei sacrifici richiesti alla popolazione dalla “terapia d’urto” praticata, ma sostiene che non c’è altra strada per una ripresa economica effettiva. Come reagiscono i sindacati, per quel che possono nelle presenti condizioni? Attualmente sono due, su scala nazionale, a godere di maggior seguito. C’è il “Sindacato Autonomo”, a più larghe radici operaie; prima della caduta di Milosevic si chiamava “Unitario” ed era vicino al regime. C’è poi “Nezavisnost” (la parola, prima col punto esclamativo, significa “Indipendenza”), più diffuso tra impiegati, insegnanti e dipendenti pubblici in genere; si è battuto contro Milosevic a fianco dei partiti di opposizione (cartello DOS), alcuni dei quali partecipano adesso alla compagine governativa. “Nezavisnost” ha svolto il suo quinto Congresso, unitamente a una Conferenza nazionale, a metà novembre 2002 e le critiche al governo, sebbene più contenute di quelle del “Sindacato Autonomo”, non vi si sono fatte desiderare.
Alcune privatizzazioni – si è sostenuto alla Conferenza – sono necessarie, ma «per l’efficacia del processo di riforme, il dialogo sociale e l’accordo con i sindacati sono indispensabili». Sbaglia quindi il governo quando vorrebbe ridurre il ruolo di questi ultimi a far accettare i sacrifici ai lavoratori. La “transizione” deve aver luogo, ma solo l’accordo con i sindacati può renderla “sopportabile”. Nella dichiarazione conclusiva si legge fra l’altro: «Oltre 780.000 sono i disoccupati (donne per il 57%) e tra loro numerosi salariati licenziati dopo lunghi anni di lavoro. L’economia sommersa impiega ormai più di un milione di persone. Continua a svilupparsi il mercato nero […]. La società è divisa tra una piccola élite di gente ricchissima (fra il 3 e il 5% della popolazione) e una larga maggioranza (oltre il 70%) a un livello di povertà estrema. Il processo delle privatizzazioni è attuato in totale segreto, senza che le rappresentanze sindacali dei lavoratori interessati abbiano accesso alle informazioni basilari. Il paese ha urgente bisogno di un consenso sulle politiche di sviluppo, se si vuole una transizione duratura verso la democrazia e un’economia di mercato nell’equità. Gli obiettivi a lungo termine devono essere un livello di vita più elevato e l’adesione all’Unione europea»
Pure il governo pone l’ingresso in Europa come obiettivo prioritario, prefigurando però – anche nel chiaro intento di giustificare e far accettare la drasticità dei suoi provvedimenti – scadenze improbabilmente ravvicinate. In un’intervista del 30 agosto 2002 Goran Pitic, ministro per le relazioni economiche con l’estero, ha dichiarato che, se tutto andrà secondo i piani, il Paese avanzerà entro il 2004 la propria candidatura. E a fine dicembre il premier Djindjic, dopo aver sottolineato che la Serbia «è situata al cuore di un mercato emergente di 50 milioni di persone», si è detto certo che essa «ha ormai attraversato il Rubicone» e che, proseguendo nell’attuale politica di riforme, «raggiungerà nel 2003 o nel 2004 il livello dei Paesi ora in procinto di entrare nell’Unione Europea».
Qualcuno più competente di me in materia potrà dire se sia preferibile, per la Serbia, la politica economica “dura” del governo Djindjic o quella “socialmente sopportabile” chiesta da parte sindacale. Io posso solo riferire che l’impoverimento generale, sommandosi alle umiliazioni nazionali che il Tribunale dell’Aja s’intestardisce a infliggerle, stanno determinando nella gente serba un diffuso senso di frustrazione e di disaffezione dalla politica. Ne dà un segnale allarmante il mancato raggiungimento del prescritto 50% degli aventi diritto al voto, nei due recenti ballottaggi per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. E’ una situazione pericolosamente propizia per chi – come il leader del Partito radicale Vojislav Seselj – punta sul ritorno a chiusure nazionaliste e xenofobe.
E’ questo che vogliono adesso gli USA? Si ricorderà il loro ricatto da 50 milioni di dollari, che un anno fa determinò l’improvviso trasporto notturno di Milosevic all’Aja. Ora bastano 40 milioni: tanto vale per gli Usa Milan Milutinov, di cui, appena scaduto il mandato presidenziale, l’ambasciatore Richard Prosper è subito tornato a reclamare la consegna al Tribunale minacciando l’annullamento degli aiuti bilaterali previsti per quella cifra. Nessuno può augurarsi – è chiaro – che persone accusate di crimini di guerra si sottraggano al giudizio; non è però accettabile che il Tribunale sia (o meglio continui a essere) strumento di manovre che col rispetto dei diritti umani hanno poco da spartire.
Ma perché gli USA vogliono mettere in difficoltà gli attuali vertici serbi, con questo loro incessante rincarare la dose sulle traduzioni all’Aja? Non sembra infondato pensare che si tratti di un tassello di una strategia ben più ampia, legata ancora una volta all’ostilità americana nei confronti del processo di rafforzamento dell’Unione europea. In effetti una Serbia moralmente a pezzi, politicamente lacerata da tensioni che presto potrebbero esprimersi in forme meno passive dell’astenersi dal voto, non contribuirebbe certo a facilitare la strada che l’Europa intende percorrere nei Balcani in un futuro il più possibile vicino. Ne è evidentemente consapevole Romano Prodi quando afferma – come ha fatto di nuovo nell’imminenza del suo viaggio in Grecia – che le porte dell’Unione sono aperte anche a tutti i Paesi balcanici, e che essa deve aiutarli a soddisfare le condizioni economiche e a raggiungere la stabilità politica necessarie per entrarvi.
N el prossimo giugno, a conclusione del semestre di presidenza greca, è previsto a Salonicco un vertice dell’UE insieme ai dirigenti degli Stati balcanici. Prodi ha detto di augurarsi che esso abbia un ruolo chiave nella generale strategia dell’allargamento. Se così sarà, l’Europa potrà cominciare davvero a prendersi una feconda rivincita nei confronti del vertice di Rambouillet.

Vittorio Tranquilli

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