L’Europa delle privatizzazioni

In questi giorni le pagine dei giornali italiani e stranieri sono piene di sottilissime analisi su chi verrà eletto presidente del Consiglio europeo o ministro degli Esteri dell’Unione europea. Il nuovo trattato di Lisbona, che prevede le due nuove cariche, entrerà infatti sicuramente in vigore dal primo Dicembre dopo che, buon ultimo, il presidente ceco Vaclav Klaus è stato costretto a firmare.

Con il trattato di Lisbona l’Unione europea avrà dunque una nuova presidenza del Consiglio europeo della durata di due anni e mezzo invece che una presidenza di turno semestrale, come era vero fino ad oggi. Il principale candidato a questa posizione, prima di essere impallinato dagli stessi britannici che lo conoscono meglio, era Tony Blair. Sarebbe stato proprio un bel presidente d’Europa. Il leader laburista ha infatti avuto il grande merito di portare la Gran Bretagna sulla via della bancarotta finanziaria lasciando mani libere alla City, ha mancato le promesse fatte ai suoi cittadini ed è sotto accusa per la morte di decine di migliaia di inermi cittadini mandando i suoi soldati in Iraq, ha reso ottimi servigi agli israeliani facilitando il loro intervento a Gaza e si è poi convertito al cattolicesimo diventando il referente privilegiato di Comunione e Liberazione. E poi c’è oggi un gran vociare su chi sarà il futuro ministro degli Esteri dell’Unione europea, una posizione forse non meramente simbolica perché questi sarà allo stesso tempo vicepresidente della Commissione e dotato di uno staff considerevole. Per questa casella si sono scatenati gli italiani con la candidatura autorevole di Massimo d’Alema a nome dei socialisti europei, che sembrerebbero adesso accontentarsi di questa posizione per lasciare ai popolari l’incarico più prestigioso.

 

Ma se questi sono i dibattiti che appassionano giornalisti e gruppi dirigenti dei grandi partiti europei, l’attenzione dei cittadini dovrebbe essere rivolta a ben altro. La loro attenzione dovrebbe essere rivolta a come l’Unione europea si sia trasformata da meccanismo di cooperazione in ambito economico a strumento per allargare a dismisura il processo di privatizzazione di tutto ciò che faticosamente si è costruito come patrimonio pubblico. C’è molta differenza infatti tra l’idea franco-tedesca del 1951 di cooperare nel settore del carbone e dell’acciaio, o degli anni ’70 di cooperare nelle politiche industriali e in quelle energetiche, e l’idea di costringere gli Stati nazionali a privatizzare industrie strategiche e servizi pubblici. Mentre c’è molta necessità infatti di cooperare a livello europeo per costruire delle reti energetiche amministrate a livello sopranazionale in modo da impedire sprechi e profitti indebiti, non c’è bisogno alcun bisogno di ulteriori privatizzazioni di reti e servizi pubblici. Il dibattito di questi giorni sulla privatizzazione dell’acqua dimostra invece la perversa azione della legislazione europea. Un decreto legge del governo, che ha come obiettivo “l’adeguamento alla disciplina comunitaria in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica”

(http://www.acquabenecomune.org/spip.php?article6553), impone che le società concessionarie della gestione dell’acqua siano per almeno il 40 per cento in mano a privati, dando così inesorabilmente avvio alla privatizzazione di un bene pubblico come l’acqua. Al di là del fatto che la privatizzazione dell’acqua è in contrasto con tendenze largamente prevalenti anche in Francia, in Belgio, in America Latina e perfino in India, resta vero che l’opacità delle norme europee sulla difesa dei servizi pubblici continua a favorire un processo disastroso di disgregazione della società e di consegna di beni comuni ad interessi privati, che non faranno altro che farne salire i prezzi e diminuire la qualità.

 

C’è poi un ulteriore strumento, ancor più antidemocratico, attraverso il quale l’Unione europea impone al pubblico di ritirarsi per lasciare sempre più spazio al privato. Questo strumento si chiama Banca centrale europea, che detiene nell’Unione europea un peso spropositato nel forzare scelte di politica economica, a causa del fatto che non ha come bilanciamento un governo europeo dell’Economia. Il ruolo spropositato della banca di Francoforte deriva, tra l’altro, dal fatto che per una sfortunata contingenza storica l’euro è nato nel momento in cui massima era la fede nel fatto che un’economia sana si esaurisse in un bilancio in pareggio e un’inflazione contenuta, senza alcun interesse per ambiente, occupazione, coesione, servizi per i cittadini e per tutto ciò che rende la vita di ognuno di noi degna di essere vissuta. La logica devastante dei banchieri centrali europei è stata riassunta in un recente e illuminante articolo di Bini Smaghi, membro italiano del Comitato esecutivo della Bce, apparso sul “Corriere”

(http://rassegnastampa.mef.gov.it/mefnazionale/View.aspx?ID=2009110314108689-1). Il problema, secondo il banchiere europeo, è nuovamente quello del debito pubblico, e in Italia più che in ogni altro paese europeo. Bisogna quindi ridurre la spesa pubblica, e visto che “non si potrà fare ricorso alle dismissioni di patrimonio pubblico nella stessa misura degli anni Novanta, dato che molte privatizzazioni sono già state fatte” e visto che “lo spazio per aumentare la pressione fiscale sarà limitato dal livello elevato già raggiunto in molti paesi”, per sostenere la crescita non rimane che “la riforma del sistema previdenziale”. Ecco la logica di Francoforte: c’è la crisi, la crisi è stata prevalentemente generata da comportamenti criminali del mondo finanziario e dalla debolezza della domanda del mercato interno; bene, allora bisogna tagliare pensioni e alzare l’età pensionabile, in altre parole ridurre un’altra garanzia pubblica sulla vecchiaia la cui importanza per la coesione sociale era già stata compresa alla fine del XIX secolo da Bismarck.

 

C’è dunque bisogno più che mai di un dibattito sull’Europa. Ma non di un dibattito su come occupare tutte le possibili posizioni di potere che Bruxelles offrirà in futuro, ma piuttosto di un dibattito su come ribaltare il paradigma della privatizzazione che domina attualmente il processo d’integrazione e che porterà gli Stati a perdere strumenti di coesione sociale, ed inevitabilmente indebolirà anche tutto il processo integrativo. Dopo la bocciatura della Costituzione europea di Giscard da parte dei cittadini francesi ed olandesi nel 2005 (episodio presto dimenticato) i gruppi dirigenti europei sono rimasti sordi alla necessità di un dibattito per un nuovo modello di integrazione che rilanci il ruolo del pubblico e della partecipazione democratica. Fino a quando non lo affronteranno la crisi che attualmente percorre l’Europa non cesserà, nonostante l’entrata in vigore del trattato di Lisbona.

 

*Giuliano Garavini è l’autore del recente volume sull’Europa “La fine degli imperi”.

 

 

 

 

 

 

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