L’eresia keynesiana e la società giusta

Economics is a very dangerous science

                                                                                  John Maynard Keynes, Thomas Robert Malthus

“Dobbiamo inventare una saggezza nuova per una nuova era. E nel frattempo, se vogliamo fare qualcosa di buono, dobbiamo apparire eterodossi, problematici, pericolosi e disobbedienti agli occhi dei nostri progenitori”. E’ con queste parole che Keynes si avvia a concludere nel 1925 il saggio Sono un liberale?, consegnando alla riflessione dei contemporanei le numerose questioni di ordine politico, economico e sociale che nel nuovo contesto mondiale, governato dal capitalismo, si vanno prefigurando. Ed è con una domanda – quella stessa che dà il titolo allo scritto – che il ragionamento si chiude, approdando a quell’unica possibile conclusione che poteva scaturire da una disamina tanto articolata, quanto problematica, sull’irrompere dei “tempi moderni”. Il senso ultimo di questa disanima è quello che accompagnerà Keynes per lungo tempo, fino all’uscita della Teoria Generale nel 1936: è lì che sarà data unitarietà e consistenza alla critica della economia monetaria di produzione – in cui il capitalismo palesa compiutamente la sua natura di sistema instabile ed iniquo – e alla capacità di autoregolazione dell’economia di mercato.

Sono un liberale? è dunque un titolo felice per l’ultima recente (e corposa) raccolta di scritti keynesiani, pubblicata in traduzione italiana da Adelphi alla fine del 2010 (pp. 320; a cura di La Malfa G.; traduzioni di Fantacci L., Salvatorelli F., Parodi M.). La raccolta, apparentemente molto eterogenea, comprende una serie di articoli, interventi e pamphlet elaborati da Keynes tra gli anni ’20 e la prima metà degli anni ’30, variamente ispirati dalla discussione politica, dalla riflessione economica, dalla celebrazione biografica. Da grande comunicatore quale era, Keynes faceva infatti ricorso a molteplici modalità espressive riuscendo abilmente a tessere, con grande movimento di argomentazione, le fila della complessità degli eventi del periodo in cui viveva.

I brani riuniti in Sono un liberale? rappresentano indubbiamente una selezione molto “densa”, per tipologia di scritti e per tematiche trattate. Essi sono offerti al lettore nel convenzionale ordine cronologico, ma non si tarda a capire che appartengono tutti a quel lungo processo di gestazione che ha preceduto l’elaborazione della Teoria Generale.

Lo sfondo – in apertura – è di quelli che segnano il tragico passaggio dall’ “ordine” ottocentesco, a quello del XX secolo, passando per gli squassi del primo conflitto mondiale (Il consiglio dei quattro, Una riunione del consiglio dei tre). E’ qui che Keynes comprende, sino in fondo, le estreme conseguenze a cui porteranno le riparazioni di guerra inflitte ai tedeschi, tanto da dimettersi dalla carica di rappresentante del Tesoro inglese alla Conferenza di Versailles. Il rilievo del “problema economico” è dirompente, e l’Europa andrà incontro alla Grande Depressione nel 1929, e al secondo conflitto mondiale un decennio più tardi.

Il “problema economico” è la questione pressante con cui deve fare i conti la società moderna, nonostante le meraviglie che il progresso sembra porgere su un piatto d’argento. “Abbiamo contratto un morbo di cui forse il lettore non conosce ancora il nome, ma del quale sentirà molto parlare negli anni a venire – la disoccupazione tecnologica. Scopriamo sempre nuovi sistemi per risparmiare forza lavoro, e li scopriamo troppo in fretta per individuare nuovi impieghi per la forza lavoro” (Possibilità economiche per i nostri nipoti). La “povertà nell’abbondanza” è l’intrinseca contraddizione in cui vive il capitalismo, ed è questa contraddizione che è necessario spiegare se si vuole recuperare un senso positivo nel progresso, sgombrando il campo dagli opposti pessimismi che si vanno fronteggiando “il pessimismo dei rivoluzionari, convinti che una situazione così compromessa renda inevitabile un cambiamento radicale, e quello dei reazionari, persuasi che la nostra vita economica e sociale si regga su un equilibrio talmente instabile da sconsigliare qualsiasi forma di esperimento” (ibidem).

L’ “amore per il denaro” è alla radice di tutto. Ma non l’ “amore per il denaro che serve a vivere meglio, a gustare la vita”, bensì l’amore per il “possesso del denaro” (Auri sacra fames). Ed è in regime di laissez faire che “il profitto va all’individuo che, per abilità o fortuna, si trova con le sue risorse produttive nel posto giusto al momento giusto” (La fine del laissez faire). Inoltre, prosegue Keynes “Un sistema che permette all’individuo abile o fortunato di raccogliere l’intero frutto di questa congiuntura offre chiaramente un incentivo immenso a coltivare l’arte di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Così uno dei più forti moventi umani, cioè l’amore per il denaro, viene asservito al compito di distribuire le risorse economiche nel modo migliore per aumentare la ricchezza al fine di ottenere la massima produzione di ciò che è maggiormente desiderato secondo la misura del valore di scambio” (ibidem).

La questione è persino più ampia, e c’è bisogno di una nuova etica perché “.. sembra ogni giorno più evidente che il problema morale della nostra epoca ha a che fare con l’amore per il denaro, con l’abituale ricorso al movente del denaro in gran parte delle attività della vita … con l’approvazione sociale del denaro come misura concreta di successo e con l’appello della società all’istinto di accumulazione…” (Un breve sguardo alla Russia). Per questo nasce un sincero interesse verso il comunismo russo – del quale sembra potersi cogliere una sorta di “afflato religioso”– “che cerca di costruire una struttura della società in cui le motivazioni economiche come fattori condizionanti avranno un’importanza relativa diversa, in cui l’approvazione sociale sarà distribuita in altro modo, e dove i comportamenti che prima erano normali e rispettabili non lo saranno più”. Keynes, da esponente della borghesia colta (come lui stesso si definisce), tratta anche con il dovuto distacco quella che chiama “fede comunista”, ricordando che non è certamente possibile accettare una “dottrina che, preferendo la melma al pesce, esalta il rozzo proletario al di sopra della borghesia e dell’intellighentjia” (ibidem), ma non ha dubbi circa la necessità di una nuova etica.

Gli scritti keynesiani portano però alla luce qualcosa di ancora più pregnante: analisi della società e rivoluzione nel metodo dell’analisi economica camminano fianco a fianco, e solo capendo il profondo legame che le tiene insieme, è possibile assimilare il “rivoluzionario” messaggio di cui la Teoria Generale è portatrice.

Nella grande lotteria del capitalismo, dove domina incontrastata un’incertezza non quantificabile con il calcolo probabilistico ed è la moneta a gettare un ponte tra presente e futuro, sono gli spiriti animali degli imprenditori a determinare lo stato e l’andamento della domanda effettiva del sistema economico; una domanda che, misurandosi esclusivamente sui valori di scambio, nulla ha a che fare con il valore d’uso dei beni prodotti, e dunque con i bisogni che la società esprime. Questo è il passaggio cruciale per Keynes, che porge un doveroso tributo alle (ingiustamente) dimenticate analisi di Malthus e alla capacità di queste di saper vedere il ruolo trainante della domanda nel dirigere il processo produttivo. E’ in gioco, niente meno, il confronto con Ricardo. Ma l’indagine è meticolosa e “Piero Sraffa, al quale nulla sfugge, ha scovato le lettere mancanti [relative alla corrispondenza tra Malthus e Ricardo, ndr] nel corso delle  sue ricerche per l’imminente edizione – completa e definitiva – delle opere di David Ricardo ….Vi si colgono, di fatto i germi della teoria economica, e anche le linee divergenti lungo le quali la materia può essere sviluppata….Ricardo studia la teoria della distribuzione del prodotto in condizioni di equilibrio, e Malthus si concentra su ciò che determina il volume della produzione giorno per giorno nel mondo reale. Malthus tratta dell’economia monetaria in cui viviamo; Ricardo dell’astrazione di una un’economia con moneta neutrale” (Thomas Robert Malthus).

Il mondo reale e la sua complessità diventano il centro della speculazione keynesiana. Per questo è importante seguire l’evoluzione che la formazione culturale di Keynes subisce proprio nel corso degli anni ’20. Il metodo, quello rigorosamente fondato su basi logiche – che gli provengono dalla lunga consuetudine con i logici di Cambridge, Russel in primis -, rimane fondamentale, ma muta profondamente la prospettiva con cui al metodo Keynes guarda. La teoria deve assumere un valore strumentale rispetto alla pratica, ed è necessario impadronirsi di un linguaggio ordinario in cui faccia premio la vagueness, ossia l’elaborazione di un ragionamento basato sul senso comune (come diffusamente spiega John Coates  nel suo The claims of common sense – Moore, Wittgenstein, Keynes and the social sciences, 1996, Cambridge University Press).

A partire dal 1905 Keynes segue le lezioni di Marshall, e sarà da questi che mutuerà tale forte cambiamento di visione. Il ritratto che Keynes fa di Marshall aiuta quindi a recuperare questa imprescindibile fase di cambiamento. “La matematica preliminare era per lui un gioco da ragazzi. Voleva entrare nel vasto laboratorio del mondo, udirne il ruggito e distinguerne i diversi toni, parlare la lingua degli uomini di affari, e nello stesso tempo osservare tutto con gli occhi di un angelo dotato di un’intelligenza superiore” (Alfred Marshall). “Dunque Marshall, che esordì fondando i moderni metodi diagrammatici, si autocensurò per mantenerli al loro giusto posto” (ibidem). Il trained common sense sarà l’approccio che Marshall eleggerà nel dedicarsi allo studio dell’economia: per poter cogliere la complessità dei fenomeni sociali, la lettura dei fatti reali deve essere supportata dall’uso del linguaggio ordinario. Ed è così che, secondo Keynes, egli saprà divenire l’interprete di un sapere d’eccellenza nel campo economico, perché, spiega: “lo studio dell’economia non sembra richiedere doti straordinarie. Sul piano intellettuale, non è forse una disciplina assai semplice rispetto alle branche più elevate della filosofia e della scienza pura? Ma gli economisti bravi, o anche solo competenti, sono mosche bianche. L’economia è una materia facile in cui però pochissimi eccellono. Il paradosso trova una spiegazione nel fatto che il grande economista deve possedere una rara combinazione di qualità. … Deve essere, in una certa misura, un matematico e uno storico, uno statista e un filosofo. Deve sapersi esprimere, ed essere in grado di comprendere i simboli. Deve saper cogliere il particolare nel generale e abbracciare l’astratto e il concreto nello stesso moto del pensiero. …Deve essere ad un tempo risoluto e disinteressato, distaccato e incorruttibile come un artista, ma a volte anche pragmatico come un politico. …Marshall possedeva molte componenti di questa ideale poliedricità, ma non tutte… aveva senza dubbio la stoffa dello storico e del matematico, ed era capace di occuparsi insieme del particolare e del generale, del temporale e dell’eterno” (ibidem).

Keynes finisce con l’affermare – e non stupisce – che “l’economia è una scienza molto pericolosa”, richiamando l’attenzione sul fatto che i “tempi moderni” necessitano di “nuove politiche e nuovi strumenti per adeguare e controllare il funzionamento delle forze economiche, così che non interferiscano in maniera intollerabile con l’idea odierna di che cosa sia appropriato e giusto nell’interesse della stabilità e della giustizia sociale”. Spirito critico, ma non a sufficienza da essere annoverato nelle fila della cultura marxista, e dunque eretico tra gli eretici, egli lascia infine che siano altri a rispondere alla domanda da cui è partito: Sono un liberale?

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