L’enigma della globalizzazione finanziaria: la libera circolazione del capitali ed i suoi rischi

Massimo Aprea riporta i risultati di un recente, interessante studio empirico sugli effetti che la liberalizzazione dei movimenti di capitale ha avuto sia sul livello sia sulla distribuzione del reddito in un campione composto da numerosi paesi. Poiché i benefici in termini di reddito risultano essere inconsistenti mentre gli effetti distributivi sono marcatamente negativi, Aprea si chiede perché la liberalizzazione dei capitali sia ancora in cima all’agenda politica di molte istituzioni internazionali.

I flussi internazionali di capitale sono intrinsecamente instabili. La narrativa dei fautori più ortodossi del libero mercato, sostenuta dagli interessi dell’industria finanziaria di Wall Street, ha cercato in ogni modo di far passare in secondo piano questo semplicissimo dato di fatto. Ed ha avuto ragione, riuscendo mettere l’apertura finanziaria internazionale al centro dell’agenda di molte importanti istituzioni, Fondo Monetario (FMI) in testa. Questa è anche la ricostruzione del noto economista Jagdish Bhagwati (un convinto sostenitore della globalizzazione) che, ne “Il mito del capitale”, si interroga sul fondamento dell’enorme consenso verso una politica di liberalizzazione che, in cambio di benefici mai ben quantificati, espone a notevoli rischi il paese che la mette in atto. Nonostante il FMI abbia leggermente ammorbidito la sua posizione a riguardo dopo la crisi del 2008, la questione resta di estrema rilevanza e attualità. In particolare, permane la necessità di approfondire e discutere i presunti benefici dell’apertura finanziaria tenendo conto degli ormai documentati effetti collaterali in termini di maggiore propensione alle crisi. Il recente lavoro di Davide Furceri, Prakash Loungani e Jonathan D. Ostry, The aggregate and distributional effects of financial globalisation, è molto importante in tal senso e vale la pena analizzarlo in maggiore dettaglio.

Lo scopo di Furceri e colleghi è quello di studiare empiricamente gli effetti della liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitale sul livello e la distribuzione del reddito. La relazione viene studiata a livello macroeconomico per un campione di quasi 150 paesi nel periodo 1970-2015, anche includendo delle variabili in grado di spiegare i canali attraverso cui gli effetti stimati si manifestano. In seguito, utilizzando dati più granulari (a livello settoriale), gli autori sono in grado di dare un’interpretazione causale ai loro risultati.

La strategia empirica adottata è quella di regredire alternativamente il reddito, l’indice di Gini – un indice che misura il grado di concentrazione dei redditi in un intervallo che va da 0 a 100 – e la quota di reddito da lavoro sul totale del prodotto sui valori dei cinque anni precedenti di una variabile che indica le date degli episodi di liberalizzazione finanziaria (ricostruite sfruttando la variabilità annuale di un indice de jure di apertura finanziaria, il Kaopen) e di una serie di altre variabili macroeconomiche in grado di spiegare l’evoluzione del reddito e della sua distribuzione. Il modello tiene inoltre in considerazione l’eterogeneità non osservabile tra paesi e la presenza di shock di natura globale. In altre parole, il reddito (la disuguaglianza) di oggi dipende dal fatto che ci sia stato o meno un episodio di liberalizzazione nei mercati finanziari negli ultimi cinque anni.

I risultati ottenuti, robusti ad una serie di specificazioni alternative, sono sorprendenti per quanti credono nelle virtù taumaturgiche del libero mercato: la mobilità dei capitali ha effetti modesti e non statisticamente significativi sul livello del reddito mentre ne peggiora nettamente la distribuzione. In media, cinque anni dopo l’episodio di liberalizzazione, l’indice di Gini è più elevato di 4 punti percentuali mentre, nello stesso orizzonte temporale, la quota di reddito del lavoro è minore di 4,5 punti percentuali. In linea con quanto affermato da Bhagwati, i presunti benefici dell’apertura finanziaria non paiono materializzarsi. Ma quali sono i fattori che spiegano questi risultati?

Un elemento che può incidere sull’intensità e la distribuzione degli effetti della liberalizzazione dei movimenti di capitale è il grado di sviluppo del sistema finanziario domestico. In una specificazione “aumentata” del loro modello, gli autori includono una variabile che divide i 150 paesi del campione in due gruppi: ad alto o a basso sviluppo finanziario. La liberalizzazione dei movimenti di capitale ha effetti positivi sul livello del reddito nei paesi del primo gruppo e negativi, anche se non statisticamente significativi, nei paesi del secondo gruppo. Per quanto riguarda la distribuzione del reddito, l’indice di Gini aumenta in entrambi i gruppi di paesi ma solo in quelli a basso sviluppo finanziario tale aumento è statisticamente significativo. La liberalizzazione dei movimenti di capitale, infatti, può avere effetti benefici sul livello e la distribuzione del reddito solo in presenza di un sistema finanziario domestico che sia in grado di estendere l’accesso al capitale a chi ne fosse stato, in precedenza, escluso. Dunque, in paesi in cui le opportunità di accesso al sistema finanziario sono contenute, la liberalizzazione favorisce chi è già avvantaggiato con potenziali effetti negativi in termini di efficienza ed equità.

Un secondo elemento istituzionale che può incidere sugli effetti della liberalizzazione sulla disuguaglianza riguarda la probabilità che in un dato paese di verifichino crisi finanziarie. Utilizzando una variabile che identifica gli episodi di liberalizzazione a cui hanno fatto seguito crisi finanziarie, gli autori mostrano come le stesse crisi siano un fattore capace di peggiorare notevolmente gli esiti distributivi.

Ma quali sono i meccanismi attraverso cui la liberalizzazione dei movimenti di capitale dispiega i suoi effetti sulla distribuzione del reddito? Una possibilità è che tale politica contribuisca a diminuire il potere contrattuale del lavoro rispetto al capitale: ad esempio, in un contesto di perfetta mobilità, il capitale può minacciare credibilmente di spostarsi altrove se non vede garantite condizioni favorevoli quali una bassa incidenza dei sindacati, bassi livelli di tassazione e bassi salari.

Quest’ipotesi è analizzata in modo interessante nel lavoro di Furceri e coautori. Utilizzando un campione di 23 paesi avanzati, per cui sono disponibili informazioni per circa 25 settori industriali osservati lungo un orizzonte temporale di 35 anni, essi identificano tre canali attraverso cui la liberalizzazione finanziaria può incidere, nei diversi settori, sui livelli di produzione e sulla distribuzione funzionale del reddito. In particolare, l’idea è che la liberalizzazione possa favorire la crescita della produzione nei settori maggiormente dipendenti dal finanziamento esterno mentre penalizzerebbe il reddito da lavoro nei settori ad alta elasticità di sostituzione tra capitale e lavoro e in quelli caratterizzati da una maggiore propensione al licenziamento. In questi ultimi due casi, l’effetto distributivo della liberalizzazione dei movimenti di capitale si manifesterebbe attraverso il deterioramento del potere contrattuale del lavoro. L’analisi empirica conferma quest’ultimo meccanismo: i guadagni in termini di reddito relativi al primo canale si dimostrano, ancora una volta, inconsistenti, mentre la quota di reddito del lavoro tende in effetti ad essere minore nei settori in cui il potere contrattuale del lavoro è maggiormente minacciato dalla mobilità del capitale.

Le implicazioni di politica economica dell’analisi riguardano essenzialmente le misure (istituzioni e politiche) in grado di ridurre la fragilità del sistema economico a fronte dell’instabilità generata dalla liberalizzazione dei flussi di capitale. Inoltre, il riconoscimento che alcuni flussi di capitale, come quelli che riguardano i titoli di debito a breve termine, sono particolarmente pericolosi per la stabilità finanziaria, suggerisce che le transazioni internazionali che ne sono alla base vadano limitate.

Il lavoro di Furceri, Prakash e Loungani è dunque degno di attenzione per vari motivi. In primo luogo, fornisce un tassello importante per una discussione informata su meriti e rischi della globalizzazione finanziaria. In secondo luogo, contribuisce a decostruire alcuni di quei miti, come appunto quello sulla mobilità del capitale, su cui si è basata una narrazione politica che ha causato notevoli danni economici e sociali nelle economie più e meno sviluppate. L’attrazione esercitata dalla globalizzazione finanziaria senza regole continua ad essere un enigma.

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