Legittimazione ad agire del fondo pensione, fra interpretazione adeguatrice ed inerzia legislativa (Corte cost. n. 154/21)

Pasquale Sandulli commenta la sentenza n. 154/21 della Corte Costituzionale sulla legittimazione ad agire del Fondo Pensione in caso di omissione del versamento dei contributi da parte del datore di lavoro. Sandulli si soffferma su due tra i numerosi profili di inammissibilità della questione e sostiene che il quadro in cui collocare le indicazioni della Corte è il rischio di evanescenza del sistema di Welfare conseguente all’attribuzione ai Fondi pensione della titolarità di situazioni giuridiche deprivate della loro effettiva realizzabilità.

Il commento alla sentenza n. 154/21 può ben prendere le mosse dalla considerazione finale (punto 3 in diritto, subito prima del dispositivo), per sottolineare l’autorevole invito della Corte costituzionale al legislatore ad una più attenta sistemazione …  della materia, assai rilevante sul piano delle attese sinergie fra mutualità̀ volontaria e regime pensionistico pubblico, così da risolvere le aporie che pur emergono dalle questioni oggi scrutinate.

La questione portata all’attenzione della Corte era destinata ad esaurirsi nel preliminare vaglio processuale in termini di ammissibilità, conclusosi infatti negativamente per i profili che saranno brevemente considerati, non senza aver prima richiamato l’attenzione sulla circostanza che oggetto dell’invocato giudizio di costituzionalità è/era una norma fantasma, in quanto frutto della mancata attuazione della delega di cui all’art. 1, comma 2, lett. e, n. 8 l. 243/04, che prevedeva “l’attribuzione ai fondi pensione della contitolarità̀ con i propri iscritti del diritto alla contribuzione, compreso il trattamento di fine rapporto cui è tenuto il datore di lavoro, e la legittimazione dei fondi stessi, rafforzando le modalità̀ di riscossione anche coattiva, a rappresentare i propri iscritti nelle controversie aventi ad oggetto i contributi omessi nonché́ l’eventuale danno derivante dal mancato conseguimento dei relativi rendimenti”. Una tale scelta omissiva del legislatore delegato corrisponderebbe ad un orientamento, prevalente ma non esclusivo – formatosi, con qualche incertezza, già prima del 2004 – secondo cui il fondo pensione sarebbe privo della legittimazione ad agire nei confronti dei datori di lavoro in caso di omissione contributiva; ma – finendo per tradire il suo pur apprezzabile intento, come confermato dalla dichiarazione di inammissibilità – il giudice a quo non si è limitato ad invocare un intervento di attuazione del meccanismo previsto dalla delega, puntando piuttosto ad una vera e propria manipolazione addirittura dell’art. 81 cod. proc. civ.

I profili di inammissibilità della questione, così come prospettata, sono vari. Qui ci si concentra, per ragioni di conformità alle indicazioni di questa Rivista, su due di essi.

La Corte rileva, quale secondo motivo di inammissibilità, l’inadeguata illustrazione dei motivi di contrasto” atti a determinare la convinzione del rimettente in ordine alla non manifesta infondatezza. Il rimettente avrebbe dovuto illustrare con maggiore convinzione la circostanza che per effetto dell’adesione non soltanto sorge il “diritto (del lavoratore) al versamento in favore del Fondo dei contributi e degli accantonamenti destinati a finanziare la posizione previdenziale”, quanto anche il diritto del Fondo stesso alla puntuale acquisizione delle risorse da gestire al meglio in chiave collettiva: ma un diritto privo degli strumenti per conseguirne l’adempimento degrada a mera speranza! Qui è evidente la convinzione del giudice a quo che la mancata realizzabilità in sede giudiziaria del diritto concorre gravemente ad impedire il raggiungimento di quell’obiettivo di sistema, voluto dal legislatore: la realizzazione cioè di un secondo pilastro pensionistico nel contesto dell’art. 38, c. 2 Cost., caratterizzato da nuove forme a contribuzione definita, ad adesione volontaria ma irrevocabile, in regime di capitalizzazione individuale, basato sulla ulteriore connotazione in senso previdenziale del TFR, assumendolo come contenuto di una obbligazione privata e volontaria verso il Fondo pensione o pubblica e obbligatoria mediante il versamento al Fondo di tesoreria, in coordinazione con la scelta del lavoratore di mantenimento del regime civilistico del TFR. Ma sul punto la Corte è ferma alle indicazioni dei suoi precedenti in ordine alla ordinaria insindacabilità della mancata attuazione di una delega legislativa, richiedendo per la diversa conclusione la necessità di una rigorosa dimostrazione di un tale effetto sistemico di segno negativo sulla riforma, quella disposta nel 2004/5, in cui si inserisce la delega stessa.

Con riferimento al primo motivo di inammissibilità, la Corte prospetta con la formula lacune descrittive dell’ordinanza di rimessione: il giudice rimettente non avrebbe puntualmente qualificato la fattispecie sulla quale innescare la questione di costituzionalità, privandosi quindi della capacità di risolverla direttamente “con gli strumenti dell’interpretazione adeguatrice”. Sulla scorta, presumibilmente, di una decisione della Corte di Cassazione, sez. Lavoro, n. 4626/19, il rimettente – osserva la sentenza in esame – avrebbe dovuto accertare se, nel caso, il conferimento del TFR sottendesse la cessione di un credito futuro (art. 1260 c.c.) o una delegazione di pagamento (art. 2168 c.c.). In effetti il giudice a quo avrebbe dovuto rappresentare più puntualmente, ma anche semplicemente, la fattispecie del conferimento del TFR ed i relativi effetti, anche alla luce della richiamata normativa post 2005, che aggiunge a far data dal 1° gennaio 2007 l’immediata disponibilità del TFR ben prima della cessazione del rapporto di lavoro, per ciascun momento di maturazione. Ma, è dato qui ritenere, tale rappresentazione avrebbe dovuto seguire un percorso diverso da quello prospettato dalle due Corti dando piuttosto rilievo, ai fini della definizione del quesito, alla identificazione ex lege (art. 8, d. lgs n. 252/05) del conferimento – esplicito o tacito, totale o parziale – del TFR come atto negoziale di adesione ad un fondo pensione. Il rimettente avrebbe dovuto cogliere il conseguente effetto di evoluzione del TFR dalla originaria formula di mera accumulazione presso il datore di lavoro alla nuova fattispecie di destinazione immediata del TFR a previdenza complementare per la formazione di un montante presso il Fondo prescelto di un montante a disposizione dell’iscritto.

La prospettata alternativa fra cessione di credito futuro e delegazione di pagamento risulta così ampiamente superata, sia perché non vi è cessione, tanto meno de futuro, sia perché la delegazione – di per sé non liberatoria – non è congrua rispetto all’obbligo esclusivo del datore (tale è definito da Cass. cit. 4626/19): semmai, potrebbe farsi riferimento alla indicazione di pagamento, secondo la configurazione dell’art. 1188 c.c., c. 1, specialmente per il caso di adesione a fondo aperto, ma, tutto sommato, anche per il caso di adesione al fondo negoziale di riferimento, posta la preesistenza di un vincolo gravante sul datore di lavoro come da contratto collettivo o dalla stessa disciplina di legge. D’altra parte, questo è l’orientamento complessivo della normativa speciale in tema di previdenza complementare: a cominciare dalla circostanza che, proprio in funzione dello stimolo all’adesione ad una qualche forma di previdenza complementare, il legislatore ha disposto un meccanismo di conferimento tacito, che si spiega civilisticamente – salvando così la volontarietà dell’adesione del silente – con la figura del comportamento concludente, che può operare solo se l’approdo è unico, senza alternative: e quindi, nel caso, semplicemente l’effetto costitutivo del rapporto trilatero – lavoratore, datore di lavoro, Fondo pensione – determinato dal conferimento/adesione del lavoratore al Fondo.

Nel prendere, dunque, atto della inammissibilità della questione nei termini prospettati dal Trib. di Sassari, in piena condivisione del profilo di contraddittorietà nella formulazione del quesito, vale la pena di svolgere qualche riflessione sul merito della questione, prescindendo dal contributo che avrebbe potuto essere offerto dalla Corte costituzionale, se correttamente stimolata. In questa prospettiva è opportuno cogliere qualche utile spunto da taluni passaggi della decisione in esame. Il tema della legittimazione del fondo ad agire si inquadra nella più ampia problematica della omissione contributiva, della quale per la verità si è occupata in termini sistematici la Covip (Relazione annuale per il 2002, p. 46), ma solo in sede di progettazione della riforma concretatasi con la delega di cui alla l. 243/2004. Sulla base di approfondimenti specifici (quaderno n. 1), la stessa Covip – in qualche modo influenzata dall’idea che le fonti istitutive dei fondi negoziali fossero orientate ad evitare battaglie giudiziarie nello scontato presupposto della diversa connotazione della contribuzione nel sistema di base rispetto alla contribuzione complementare – confermava che solo il lavoratore iscritto fosse legittimato ad agire. Tuttavia, COVIP esprimeva la preoccupazione che nella prospettiva di un mutamento dei meccanismi di conferimento, al limite semiautomatico (come in effetti verificatosi), del TFR si sarebbe resa necessaria una modificazione delle soluzioni legali in tema di recupero della contribuzione omessa (cfr. Covip, rel. per il 2002, pag. 64 ss), in qualche modo assimilabile agli strumenti di esecuzione forzosa previsti per il regime previdenziale di base. Caduta la delega, e nonostante i significativi mutamenti introdotti dal d. lgs n. 252/05 in tema di effetti del conferimento, espresso e specialmente tacito, sembra subentrata una sorta di rassegnazione in ordine all’assenza tout court di legittimazione processuale del Fondo.

Una rassegnazione, però, ingiustificata, posto che il profilo qualificante della (mancata) delega era costituito dalla formula centrale della stessa: “rafforzando le modalità di riscossione anche coattiva”; il termine rafforzando tradisce a tutta evidenza la circostanza che, seppure ordinario e coerente con l’impianto privatistico e volontario dei fondi pensione, la legittimazione processuale del Fondo fosse comunque scontata. Ed allora, acquista corpo e significato l’invito rivolto al legislatore verso una maggiore attenzione e coerenza nel regolare la materia, anche sul piano processuale, esplicitando con norma interpretativa della prima parte precettiva dell’art. 1, c. 2, lett. e) n.8 l. 243/04, così come prende corpo la linea dell’interpretazione adeguatrice che la Corte costituzionale suggerisce (attraverso la dichiarata inammissibilità della questione) al giudice a quo nel proseguimento del processo; ma anche a tutti gli altri giudici, in termini di riconoscimento della legittimazione ad agire del fondo per realizzare, in funzione dell’obiettivo di cui all’art. 38 c. 2 Cost., il proprio interesse/diritto al contributo, senza peraltro giungere a forzare l’art. 81 c.p.c.

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