Legge elettorale e assetto istituzionale. Una questione di democrazia

Gaetano Azzariti si occupa della legge elettorale e, dopo aver richiamato la necessità di un ritorno alla semplicità delle forme e alla chiarezza dei principi, sostiene che se il senso di una legge elettorale è permettere al popolo di esprimere e scegliere i propri rappresentanti, allora essa deve essere comprensibile nei suoi meccanismi di funzionamento e non può occuparsi unicamente di governabilità. Nell’emergenza attuale, secondo Azzariti, una via uscita temporanea, consisterebbe nell’estensione al Senato della legge elettorale della Camera, dopo l’intervento della Consulta.

Vorrei lanciare un appello per un ritorno alla semplicità delle forme e alla chiarezza nei principi.

La discussione sulla riforma del sistema elettorale è diventata insopportabilmente confusa, anzi del tutto indecifrabile, almeno per chi vuole ragionare in base a valori e non solo per perseguire i propri interessi di partito, se non direttamente quelli strettamente personali. Ci vengono proposti sistemi elettorali, sempre più complessi, che sembrano fondarsi sul mistero della cabala,con il solo scopo di acquisire prima del voto un risultato politico desiderato ovvero con il fine di esorcizzare esiti non graditi.

Così è per l’ultima proposta -che si sta cercando ora di imporre al parlamento utilizzando l’arma impropria rappresentata dalla questione di fiducia -elaborata dagli stessi protagonisti che pochi mesi addietro si erano accordati per introdurre un sistema del tutto diverso, che ora immaginano di poter escogitare un meccanismo grazie al quale – secondo le parole dei commentatori più accreditati e dei più scaltri esponenti politici –si garantisca a Berlusconi di ottenere la leadership nel centrodestra, a Salvini di fare il pieno nei collegi del nord, ad Alfano di provare a non scomparire, a Renzi di tacitare gli avversari interni e orchestrare un trappolone per Pisapia, a quest’ultimo di affrancarsi dall’ingombrante D’Alema e abbandonare la sinistra soi-disant radicale.

È questo un terreno di discussione inaccettabile.L’espressione unicamente del livello di assoluta l’autoreferenzialità della politica,un’ostentazione della politica che si allontana sempre più dal mondo reale.

Allora, il primo dovere è quello di riportare con i piedi per terra il confronto sulla legge elettorale.Ricordare, che questa non serve per assicurare il risultato ai giocatori, bensì a permettere al popolo sovrano di esprimere e scegliere i propri rappresentanti.

Per questo mi appello alla semplicità della forma.

Vorrei anzitutto fornire un criterio di massima per poter giudicare la bontà dei sistemi elettorali. Quanto più sono difficili da spiegare, tanto più vanno criticati; poiché il sospetto che dietro le alchimie e le subordinate algebriche si celi la volontà di alterare il risultato elettorale volgendolo a favore di alcuni e a scapito di altri è spesso fondato.

Rilevo che, nel frenetico succedersi dei sistemi elettorali in Italia e nella caotica riproposizione di riformarli,una costante è data. Tutte le proposte sono modellate attorno al calcolo differenziato dei voti in uscita, alle soglie d’accesso, ai premi di lista, ad incentivi o penalizzazioni infinite. Ormai sono questi tratti artificiali ad aver preso il sopravvento, scalzando la realtà materiale del suffragio.“Una testa, un voto”era l’ingenua richiesta del terzo stato che pose fine al diverso sistema di voto per ordine dell’ancien regime. Ricordalo oggi si rischia di passare per irresponsabili sabotatori, o almeno fautori dell’ingovernabilità del sistema.

Oltre la semplicità, è soprattutto alla chiarezza dei principi che bisogna guardare.

Quali? Se è vero che la legge elettorale non è altro che uno specchio della nostra visione di democrazia, la vera domanda cui rispondere per individuare i principi è la seguente: quale democrazia vogliamo? Ed è di questo di cui dovremmo parlare: della qualità della nostra democrazia, delle sue forme e della sua sostanza.

Sulla riforma della legge elettorale mi limito qui a due considerazioni.La prima legata a quel che dovrebbe fare il buon legislatore se volesse dare un seguito coerente alle indicazioni della Corte costituzionale ed evitare per la terza volta di trovarsi ad approvare una legge in contrasto con i principi supremi della costituzione.La seconda legata alla convenienza politica e alla necessità – se si vuole cambiare veramente il Paese – di abbandonare le logiche maggioritarie che ci hanno condotto sin qui.

Sul primo punto ricordo che entrambe le decisioni della Consulta sui sistemi elettorali hanno rilevato che le ragioni della governabilità –obiettivo politico legittimo – devono però essere perseguite “con il minore sacrificio possibile per la rappresentanza politica nazionale”, la quale “si pone al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo prefigurati dalla Costituzione”.

A me sembra chiaro il senso di un tale rilievo: l’ossessione maggioritaria, l’ansia di governabilità che ha dominato la politica in Italia nell’ultimo quarto di secolo è andata troppo oltre e, passando di fallimento in fallimento, è giunta a comprimere eccessivamente il valore supremo della rappresentatività dell’assemblea parlamentare.

Dopo queste sentenze, il buon legislatore non perderebbe un attimo del suo tempo e – ringraziata la Corte per averla avvertita del pericolo incorso – rimedierebbe al mal fatto, riscoprendo le virtualità della rappresentanza politica che si pone alla base della nostra democrazia costituzionale.Una legge elettorale a vocazione proporzionale sarebbe solo il primo passo nella giusta direzione.

V’è, poi, la seconda ragione che dovrebbe sollecitare ad invertire la rotta. Ed è la constatazione dello stato in cui ci troviamo. Dopo venticinque anni di democrazia maggioritaria nessun risultato auspicato è stato conseguito:

  • non la promessa semplificazione del sistema politico, che è invece esploso e s’è frammentato al suo interno;
  • non la reclamata stabilità dei governi, costantemente ostaggio di maggioranze sempre più litigiose;
  • non l’illusione della scelta del governo rimessa al corpo elettorale, che non decide ormai più nulla, non solo non sceglie il governo, ma neppure i propri rappresentanti, neppure l’ultimo dei peones.

Non solo non si sono raggiunti gli obiettivi perseguiti ma si sono pericolosamente inaridite le fonti che alimentano la democrazia costituzionale.

Il parlamento in primo luogo. Quest’ultimo io credo sia stato il peccato più grande.

Se vi è un organo sacrificato dal lungo regresso che ha accompagnato il progressivo,apparentemente inarrestabile, declino del paese questo è stato l’organo della rappresentanza popolare.Oggi il parlamento italiano non conta più nulla,schiacciato dal Governo che ne domina i lavori,impedito al confronto da regolamenti fatti apposta per poter decidere senza discutere. Il parlamento sembra aver perduto ogni autonomia di organo costituzionale, posto ai margini della nostra forma di governo, che pure si vuole ancora qualificare come “parlamentare”.

Questa “riduzione al nulla” del parlamento è il più grave dei peccati e la più imperdonabile delle leggerezze perché – come scriveva Kelsen – “alla sorte del parlamentarismo è legata la sorte della stessa democrazia”.

In verità, il parlamento oggi non è stato solo abbandonato dalla classe politica, che discute altrove, ma anche dal popolo che si indigna, ma non va più a votare, che non si riconosce più nelle istituzioni democratiche.

Ed è questo il lato più preoccupante perché non c’è democrazia senza consenso. Invero, non c’è neppure un governo democratico senza consenso.Eppure le ultime leggi elettorali sembrano essere state pensate proprio per governare senza popolo, con l’unico scopo di avere un governo la sera stessa delle elezioni, anche se queste fossero andate deserte e comunque a prescindere dalla rappresentanza effettiva, dal peso reale delle forze in campo.

Oggi dovremmo cogliere l’occasione per rimettere al centro della nostra riflessione la questione della rappresentanza reale, cercando di ridurre – almeno di ridurre! – il terribile gap tra rappresentanti e rappresentati; provando a recuperare un po’ di popolo alle ragioni della democrazia e del parlamentarismo.

Per far questo è necessario sfatare un po’ di luoghi comuni. Mai stati veri, sebbene ostinatamente ripetuti. Non è vero, ad esempio, che si vota per “scegliere” il governo: si votano i membri dell’organo legislativo, i rappresentanti della nazione, che poi svolgeranno le proprie funzioni senza vincolo di mandato.La democrazia parlamentare è cosa ben diversa dalla democrazia del capo.

Poi,dei parlamentari autorevoli, perché realmente rappresentativi della nazione, potranno assicurare un sostegno duraturo e responsabile ai governi,i quali – dopo le elezioni, in base all’esito di esse, e dopo la nomina effettuata dal Presidente della Repubblica –si presenteranno difronte ad essi per esporre un programma di governo.

Sono dunque i parlamentari a dover conferire – con mozione motivata – la fiducia al governo e non viceversa.Dunque il parlamento viene prima del governo.

Un parlamento davvero rappresentativo non necessariamente deve essere lo specchio della nazione, ma certamente non può riflettere un’immagine del tutto deformata delle forze politiche reali.È per questo che le torsioni maggioritarie, i premi, gli sbarramenti e le altre diavolerie immaginate per giungere ad un esito voluto non può essere senza limiti, anzi in verità deve essere contenuta al minimo.

La richiesta di una legge elettorale di tipo proporzionale vuole preservare questo valore, e si pone a fondamento di una visione della democrazia realmente pluralista. A fondamento, insomma, della democrazia reale e non di quella solo immaginata da una classe politica di governo che si è vieppiù isolata dalla realtà e che non sente più neppure il bisogno di confrontarsi con essa.

È vero sono molti i sistemi elettorali che potrebbero garantire la rappresentanza reale. E l’urgenza del momento, con l’avvicinarsi della fine della legislatura, non permette una discussione pacata e approfondita. Ad essere sinceri neppure i reali rapporti di forza, né la maturità delle forze politiche permette di prospettare soluzioni ottimali.

Se avessimo più tempo proporrei di discutere quel che a me appare il meglio nella situazione data. Non solo un generico sistema elettorale di tipo proporzionale, ma anche:

  • un sistema proporzionale diviso in collegi dalle piccole dimensioni,per assicurare il rapporto costante tra rappresentanti e territorio;
  • una competizione tra liste e candidati che si svolga su base uninominale, affinché si responsabilizzino tanto i partiti nella selezione dei candidati quanto gli elettori che scelgono assieme alla lista di partito anche il candidato da questo proposto;
  • la possibilità di collegamento tra candidati dei diversi collegi solo se tra loro omogenei, il che eviterebbe la forzosa ricerca di coalizioni pre-elettorali necessariamente insincere;
  • ma anche la possibilità di non essere eletti anche se si risulta vincitori in un collegio, facendo prevalere la distribuzione proporzionale dei seggi a livello nazionale sul risultato individuale nel collegio;
  • infine, una soglia per evitare la frammentazione eccessiva e favorire i processi di aggregazione politica anziché quelli di divisione, vizio a cui molte forze – soprattutto a sinistra – cedono, condannandosi all’irrilevanza. Per questo una soglia al 5% rappresenterebbe una sfida per il cambiamento.

Se avessimo tempo per discutere dovremmo parlare di questo o altri modelli “ideali”, ma il tempo di questa legislatura è pressoché terminato e ci troviamo ora in uno stato di vera emergenza.Se si vuole allora cercare di evitare una legge ancor peggiore dell’esistente imposta senza discussione al parlamento ovvero,ancor peggio, un decreto legge del governo che riscriva al posto del parlamento una legge elettorale, bisogna trovare un compromesso.Una via di mezzo che contenga già in sé un impianto proporzionale.

La legge elettorale proposta per l’elezione della Camera, dopo l’intervento della consulta, se estesa anche al Senato può rappresentare una soluzione, una via d’uscita temporanea. La versione attuale emendata dalla Consulta non è certo priva di difetti (pluricandidabilità, capilista bloccati), ma appare contenere alcuni pilastri in grado di sostenere una democrazia realmente rappresentativa (impianto a vocazione proporzionale, sbarramento – sin troppo ridotto – al 3%, voto residuale di preferenza). L’estensione al Senato della legge per la Camera imporrebbe inoltre l’eliminazione della soglia del 40% superata la quale una lista otterrebbe la maggioranza dei seggi. Oggi questa soglia rappresenta solo un feticcio (nessuno si illude di conseguirlo), ma contiene in sé un’irrazionalità di sistema, rappresentato dall’insopportabile rischio di una diversa maggioranza tra Camera e Senato (nel caso di “premi” assegnati a due liste diverse) con la conseguente paralisi del sistema parlamentare nel suo complesso. Meglio evitare.

La legge della Camera, estesa anche al Senato, non costituirebbe la soluzione ideale; non rappresenterebbe certo un modello. Ma in questo momento della storia si tratta solo di tenere aperta una porta perché un prossimo parlamento possa pensare ad una legge elettorale finalmente conforme alle ragioni della democrazia pluralista e conflittuale.

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