L’efficienza è (soprattutto) una questione di contratti. Riflessioni intorno al premio Nobel per l’economia

Maurizio Franzini e Antonio Nicita illustrano nei suoi aspetti essenziali l’economia dei contratti che quest’anno è valsa il premio Nobel per l’economia a Hart e Holmström. Franzini e Nicita ricordano i molti ambiti ai quali essa si può applicare (incentivi, organizzazione dell’impresa, appalti pubblici, ecc.), i suoi elementi distintivi, il contributo che dà alla comprensione della realtà e al perseguimento dell’efficienza organizzativa. Nelle conclusioni, i due autori indicano anche alcune sue incompletezze.

Se vi interessa sapere come dovrebbero essere congegnati contratti diretti a far impegnare al massimo chi lavora o opera per voi o perché il timore di non vedere rispettati gli accordi che concludete può spingervi ad assumere decisioni inefficienti; se siete curiosi di individuare i fattori dai quali dipendono le dimensioni delle imprese; se ritenete che sia importante definire bene i criteri che lo stato dovrebbe seguire per decidere se offrire in proprio un servizio oppure darlo in appalto ai privati e conoscere gli accorgimenti istituzionali che favoriscono il buon funzionamento organizzativo delle imprese; se, ancora, pensate che nelle relazioni contrattuali si nasconda spesso una forma di potere che non consiste soltanto nell’appropriarsi di una fetta maggiore della “torta”, allora dovreste interessarvi, se già non la conoscete, all’economia dei contratti.

Questo filone di analisi economica esamina le questioni elencate, e molte altri di analoga rilevanza, con strumenti innovativi. Non sorprende, perciò, che l’Accademia svedese delle scienze quest’anno abbia assegnato il cosiddetto premio Nobel per l’Economia (il realtà  si tratta del premio che dal 1968, e non dal 1895 come gli autentici  premi Nobel, la Sveriges Riksbank   ha introdotto per celebrare i suoi 800 anni di vita) a due dei più  originali  studiosi di economia dei contratti:  Oliver Hart e Bengt Holmström.  In questa breve nota cercheremo di presentare gli elementi distintivi di questo approccio, il contributo che dà a comprendere la realtà e le strade che indica per migliorarla, soprattutto sotto l’aspetto dell’efficienza Metteremo in luce i suoi punti di forza ma anche alcune incompletezze che reclamano ulteriore ricerca.

Il punto di partenza è dato dalla circostanza che molte delle promesse contrattuali che caratterizzano gli scambi economici avvengono in un contesto di informazione incompleta e incertezza e, quindi, di ‘velo di ignoranza’ circa le future condizioni all’interno delle quali dovranno essere mantenute quelle promesse. E’ il contesto della cosiddetta incompletezza contrattuale (ampiamente indagata da un altro premio Nobel, Oliver Williamson). Un contratto è incompleto quando la sua esecuzione non è garantita e la sua forza ‘giuridica’ è limitata. Ciò può essere dovuto a varie ragioni: dall’incapacità dei contraenti di prevedere tutti i possibili futuri stati del mondo (e le conseguenti azioni) in un contratto, ai limiti informativi e cognitivi di una terza parte indipendente (un tribunale, un’autorità) che potrebbe essere chiamata a interpretare la volontà originaria delle parti contraenti. Questa forma di incertezza può generare significative forme di inefficienza, inducendo le parti a non avviare relazioni contrattuali efficienti solo per timore di possibili rinegoziazioni con esito avverso (hold-up).

Il contratto incompleto lascia, dunque, aperta la possibilità che l’esito del contratto sia difforme da quello atteso e/o dovuto e ciò si riflette inevitabilmente sul comportamento che si tiene al momento di stipularlo. In generale, questo comportamento può essere in contrasto con quello necessario per raggiungere l’efficienza. Dunque il problema non è solo quello della distribuzione ex post dei frutti del contratto, ma anche e soprattutto delle conseguenze sulle decisioni ex ante.  Questo problema generale si può porre in modi diversi in situazioni diverse e gli accorgimenti per contrastarlo possono essere diversi. Hart e Holmström, pur seguendo un’impostazione comune, si sono concentrati su aspetti diversi.

In particolare Holmström ha esaminato soprattutto situazioni in cui l’asimmetria informativa non si manifesta soltanto tra i contraenti e un soggetto terzo (giudice) ma anche tra gli stessi contraenti, si tratta del cosiddetto problema di agenzia tra un principale non informato e un agente informato. Nei casi di asimmetria informativa il problema economico che si pone è come incentivare il soggetto che ha un’informazione privata o che svolge un’azione non osservabile dall’altro contraente a profondere il massimo sforzo produttivo: il medico che ci visita, il manager che gestisce l’impresa su mandato degli azionisti, l’agricoltore che cura il campo per conto del proprietario, persino il governante che decide su mandato degli elettori e così via.

I possibili campi di applicazione sono moltissimi, dalla teoria dell’impresa alle regole di corporate governance, ai contratti assicurativi, bancari e finanziari, e così via. Per i contratti tra manager e azionisti, ad esempio, la performance  può tipicamente essere misurata mediante il valore delle quotazioni azionarie dell’impresa, mentre un ulteriore segnale utile per stabilire la remunerazione del manager può essere costituito dai profitti contabili realizzati. Nei rapporti di lavoro possono essere utilizzati come segnali della performance dell’agente il giudizio di un superiore (tipicamente il manager, in un’organizzazione verticale) o le eventuali lamentele dei clienti sul trattamento ricevuto.

Oliver Hart, pur muovendosi nello stesso ambito, ha esaminato in particolare i casi in cui lo ‘sforzo’ è dato da un investimento in capitale umano o, se si vuole, in conoscenza. In un certo senso, il caso studiato da Hart è più generale perché si rivolge a contesti nei quali le parti contraenti, pur potendo osservare le reciproche azioni, possono sotto-investire nella prospettiva di rinegoziare il contratto con termini più favorevoli. Ciò avviene in particolare nei casi in cui l’effort o l’investimento dei contraenti è specifico alla relazione contrattuale, cioè non valorizzabile in relazioni di mercato alternative. Quindi, per chi investe restare nel contratto è  l’unica possibilità di valorizzare il proprio sforzo. Ma, proprio per questo, in assenza di regole vincolanti, nessun soggetto razionale si vincolerà per primo al contratto, effettuando investimenti specifici, se non avrà la certezza che anche la controparte avrà fatto altrettanto. Questo rischio di fiducia (moral hazard) comporterà investimenti inefficienti e occasioni perdute. Viene cosi proposta una teoria delle organizzazioni economiche nelle quali l’allocazione del controllo e la divisione del lavoro sono determinati dalla particolare combinazione che si instaura, di volta in volta, tra capitale umano specifico e capitale materiale e finanziario.

Va anche considerato che l’incompletezza dei contratti è rilevante perché permette di individuare una forma precisa di potere all’interno dell’impresa. Si tratta del potere dato dal diritto residuale (cioè non definito nel contratto) di controllo: chi dispone di tale diritto di fatto esercita il potere perché decide cosa va fatto quando il contratto tace.  E nella concezione di Hart questo potere è giustificabile solo se conduce a esiti efficienti.

Alcune recenti teorie di corporate governance nonché recenti proposte di riforma del governo societario, all’estero come in Italia, hanno mutuato dalle teorie di Hart, la necessità di procedere a riforme volte a garantire (anche attraverso fenomeni di scalate societarie) un rapido accesso ai diritti di proprietà (inclusi i fenomeni di privatizzazione) e al controllo delle imprese da parte dei soggetti che possiedono il capitale umano più specifico a gestire l’impresa. Anche altre decisioni, in altri ambiti, sembrano conformi a  quanto suggerisce l’economia dei contratti, ma sono forse più frequenti i casi di difformità, malgrado le apparenze.

Ad esempio, è diffusa la pratica di retribuzione dei manager in base ai risultati rappresentati dall’andamento delle quotazioni di borsa, ma la teoria di Hart e Holmström, richiederebbe di evitare  che l’andamento del valore di borsa diventi decisivo indipendentemente dalla verifica sulle cause del suo andamento: solo quelle riconducibili all’azione del manager – e non ad esempio a ondate speculative – dovrebbero incidere sulla retribuzione.  Come sappiamo non avviene sempre così. Anzi. E non è troppo difficile capire perché sia così.

Anche il “mercato della proprietà delle imprese”  ha caratteristiche che non consentono il raggiungimento dell’efficienza secondo la prospettiva dell’economia dei contratti. In particolare, le lotte per il controllo delle imprese, di cui ci raccontano tutti i giorni i quotidiani finanziari, mostrano l’esistenza di ostacoli significativi (anche di natura strategica) al processo di efficiente ri-attribuzione dei diritti di proprietà. La questione assume connotati peculiari nel caso del capitalismo famigliare italiano come è stato rilevato, tra gli altri, da Fabrizio Barca, Marcello de Cecco e, prima ancora, da Federico Caffé.

Altri recenti contributi basati sugli studi di Hart hanno riguardato lo studio del grado ottimo di intervento pubblico diretto nell’erogazione di servizi ‘meritori’ (ad esempio istruzione, sanità, sicurezza, istituti penitenziari). In particolare in uno studio del 1997 con Vishny e Shleifer, Hart analizza la scelta tra produzione in house e privatizzazione di alcuni servizi pubblici. La tesi è che la soluzione in house sia da preferire quando riduzioni di costi che non possono essere contrattate hanno effetti deleteri sulla qualità, quando le innovazioni nelle qualità non sono importanti e quando la corruzione nel procurement è un problema serio. Ciò porterebbe a conclusioni favorevoli alla privatizzazione nella raccolta dei rifiuti, nella produzione di armi e anche, sebbene in misura minore, nelle scuole. Mentre l’opposto varrebbe, ad esempio, per le prigioni.

Al riguardo, una recente decisione del Department of Justice americano sembra derivare da queste raccomandazioni: si è deciso, infatti, di non rinnovare i contratti che affidavano ai privati la gestione delle prigioni. Secondo quanto ha affermato il Deputy Attorney General, Susan Yates  le prigioni private “non offrono lo stesso livello di servizi rieducativi… non consentono risparmi sostanziali sui costi…. E non offrono lo stesso livello di sicurezza”. E’ da notare, però, che il provvedimento riguarda solo le prigioni federali e non quelle statali. E viene da chiedersi se i singoli stati abbiano raggiunto conclusioni diverse, oppure si siano astenuti dal condurre un’analisi di questo tipo.

Nel complesso, queste considerazioni suggeriscono che gli ostacoli all’adozione delle soluzioni individuate da Hart e da altri economisti dei contratti possono essere numerosi. Anche se si riconoscesse che quelle soluzioni sono in grado di  realizzare l’efficienza (e non sempre è così) resterebbe comunque il compito di eliminare, nella realtà, gli ostacoli alle inefficienze. Un compito tutt’altro che lieve e che si pone di continuo, anche di fronte alle evoluzioni più recenti delle modalità di produzione e di offerta di molti servizi. Il riferimento è alla trasformazione tra capitale e investimenti in capitale umano che osserviamo nell’economia digitale e nella cosiddetta sharing economy. L’avvento dell’ecosistema digitale ridefinisce da un lato i meccanismi di asimmetria informativa in presenza di tracciabilità dello sforzo e dall’altro spinge verso forme avanzate di intermediazione con le  cosiddette piattaforme digitali. Siamo di fronte a un filone del tutto inedito, che pare offrire soluzioni organizzative nuove la cui efficienza di lungo periodo è, però,  tutta da indagare.

Naturalmente Hart e Holmström non sono responsabili delle deficienze istituzionali che impediscono contratti efficienti. Ma forse una maggiore articolazione delle loro teorie che rendesse più facile verificarne l’operatività e, soprattutto, la rilevanza empirica consentirebbe  non soltanto una migliore comprensione delle relazioni tra istituzioni e contratti,  ma anche una più puntuale  valutazione dei costi che genera l’inadeguatezza istituzionale.  E da questo potrebbe derivare una spinta verso istituzioni più favorevoli all’efficienza e possibilmente anche all’equità. O, almeno, così si spera.

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