Le termiti di Stato: perché la complessità conduce alla disuguaglianza

Vito Tanzi ha recentemente pubblicato per la Cambridge University Press un volume dal titolo: Termites of the State. Why Complexity Leads to Inequality. Il Menabò pubblica, in due parti, la traduzione dell’Introduzione al volume, che affronta la questione del rapporto tra Stato e mercato. Tanzi adotta un ampio sguardo storico, attento sia all’evoluzione delle idee che alla concrete forme assunte dall’intervento dello Stato nell’economia, e fornisce numerosi spunti di riflessione utili anche per cercare risposte ai problemi ancora aperti.

Gran parte dell’economia moderna si occupa del breve periodo. I ritardi tra il momento in cui vengono attuate le politiche economiche e quello in cui si manifestano i loro effetti vengono generalmente ignorati. Tali ritardi possono però portare a risultati imprevisti che meritano maggiore attenzione da parte degli economisti.

Termites of the State.Why Complexity leads to Inequality, (Cambridge University Press, 2018) si occupa del lungo periodo; copre tre periodi distinti, ma in parte sovrapposti – il primo va dal 1840 circa fino agli anni ’20; il secondo dalla Grande Depressione fino al 1980 circa; il terzo arriva alla Grande Recessione – e affronta la questione forse più importante in economia: quale deve essere il ruolo economico del Governo, dello lo Stato e del settore pubblico nei paesi democratici ad economia di mercato? Quali effetti comporta la crescente complessità collegata all’attuazione di particolari politiche?

Prima della Grande Depressione. Il ruolo economico dello stato ha attirato per secoli l’attenzione di filosofi ed economisti. Nel XIX secolo, si confrontavano due scuole di pensiero: laissez-faire e socialismo. Il laissez-faire è stato spesso attribuito, forse non correttamente, ad Adam Smith il quale in realtà voleva che il Governo svolgesse un ruolo diverso e migliore rispetto a quello, di tipo mercantilistico, dei suoi tempi. Il socialismo includeva indirizzi diversi: i due più importanti erano il socialismo cattolico e quello marxista.

Tradizionalmente, il cattolicesimo è associato alla carità, al bisogno di condivisione e all’idea che dal possesso della proprietà e della ricchezza privata discendono obblighi verso la società; un aspetto sottolineato nell’importante enciclica Rerum Novarum, promulgata da Papa Leone XIII nel 1891. Ciò rendeva il socialismo cattolico compatibile con i principi dell’economia di mercato.

Il socialismo marxista non prevedeva alcun ruolo per il mercato e mirava alla socializzazione dei mezzi di produzione nonché alla centralizzazione delle decisioni economiche, con l’eliminazione del mercato e della proprietà privata. La visione marxista trovò la sua prima applicazione in Russia, dopo la rivoluzione bolscevica di Lenin; seguirono la Cina, con la rivoluzione di Mao, e altri paesi, come la Cambogia. I risultati di questi esperimenti sono ben noti. Con lo sviluppo e l’aumento della complessità delle economie, il marxismo si è dimostrato un’opzione sempre meno realistica, l’idealismo che lo ispirava è stato sostituito dalla corruzione e il potere è stato appannaggio di una nuova classe privilegiata.

Il laissez-faire richiede più attenzione sia per la maggiore importanza che ha oggi sia perché sono nati equivoci, alimentati in parte degli economisti, sul ruolo che ha avuto nell’Ottocento La verità è che i governi non hanno mai scelto liberamente il laissez-faire né lo hanno mai praticato nella sua versione più pura.

Il termine non nasce con Smith ma durante un incontro di Colbert, potente ministro del re di Francia, con alcuni mercanti nel XVIII secolo ai quali Colbert chiese cosa il governo potesse fare per aiutarli nelle loro attività. Uno dei mercanti, Legendre, ripose che il miglior aiuto era tenersi alla larga, lasciandoli liberi di fare i propri affari, dunque di “nous laissez faire“.

A quel tempo il mercantilismo era una pratica comune di governo. Si trattava di una versione estrema di ciò che alcuni chiamano oggi “capitalismo clientelare”. I governi intervenivano in molti settori economici, creando monopoli o offrendo vantaggi ad alcuni privilegiati. Nella sua interpretazione originale, dunque, il laissez-faire aveva ben poco a che fare con il livello delle imposte e della spesa pubblica, e molto con regole discutibili e arbitrarie.

In ogni caso, fino al XX secolo, i governi non avrebbero potuto svolgere il ruolo che molti di essi giocano oggi nel sistema economico, perché non disponevano delle risorse, delle entrate fiscali e degli apparati burocratici necessari (cfr. V. Tanzi, The Ecology of Tax Systems, Elgar, 2018). Anche la possibilità di emettere debito pubblico era minore, e il ricorso al debito era considerato esempio di cattiva politica, come chiariscono, tra gli altri, Hume e Smith. Per queste ragioni, il laissez-faire è diventato un’alternativa al mercantilismo.

Fino al XX secolo, il livello della tassazione nei paesi che oggi classifichiamo come avanzati era in media inferiore al 10% del PIL e appena sufficiente a coprire la spesa necessaria a: sostenere l’elevato tenore di vita dei sovrani; pagare le spese per la difesa (e occasionalmente per combattere una guerra); amministrare la giustizia e le infrastrutture essenziali; fornire alcuni beni pubblici. Le tasse erano basse non necessariamente per una scelta politica esplicita ma per motivi oggettivi, fra i quali non figura il sostegno al laissez-faire, anche se gli economisti classici e i governi erano generalmente contrari a una tassazione elevata.

In primo luogo, pochi cittadini avevano il diritto di voto. Potevano votare solamente gli uomini, proprietari di beni e ricchezze, disposti a pagare l’imposta di capitazione (poll tax) e di certo non felici di pagare tasse più alte. L’allargamento del diritto di voto, soprattutto durante la prima metà del XX secolo, anche alle donne, ha portato alla richiesta di livelli di tassazione più elevati.

In secondo luogo, “l’ecologia della tassazione” (cfr. Tanzi, cit., 2018) rendeva difficile per i governi ottocenteschi riscuotere imposte più alte. Ciò divenne possibile con la rivoluzione industriale, tra la seconda metà del XIX secolo e la prima metà del XX secolo. Se oggi la quota maggiore di entrate fiscali proviene dalle imposte sul reddito e sul valore aggiunto, lo si deve alla rivoluzione industriale.

In terzo luogo, maggiori entrate fiscali permettevano agli stati di creare apparati burocratici moderni (con burocrati del tipo descritto da Max Weber) in grado di monitorare politiche moderne e complesse. Questi apparati nell’Ottocento non esistevano e non potevano esistere. Maggiori entrate fiscali avrebbero permesso ai governi di soddisfare meglio le nuove esigenze collettive, i bisogni legati all’industrializzazione, allo sviluppo delle tecnologie e alla crescente urbanizzazione. Una società industrializzata, urbanizzata e democratica ha bisogno di più intervento pubblico (attraverso spesa e regolamentazione) rispetto a una società primitiva, informale e rurale. Questa è una realtà che i libertari di oggi non hanno afferrato, specialmente negli Stati Uniti.

Durante la seconda metà del XIX secolo, non caso chiamata dagli storici l’”era della riforma”, sono state sperimentate molte riforme, frutto delle rivendicazioni dei lavoratori manifatturieri nei confronti dei proprietari delle imprese, che spesso esercitavano un potere di monopolio.

La maggior parte delle riforme del XIX secolo mirava a modificare i rapporti tra proprietari, datori di lavoro, e lavoratori dipendenti, migliorando le condizioni di lavoro; aumentando i salari e riducendo l’orario di lavoro; concedendo le ferie; innalzando l’età a cui i bambini potevano lavorare; permettendo ai lavoratori di organizzarsi e scioperare; cercando di ridurre gli incidenti sul lavoro. I governi subivano anche pressioni per estendere il diritto di voto. Ma la maggior parte delle riforme del XIX secolo riguardavano non lo Stato, come nel XX secolo, ma i datori di lavoro privati.

Nel XIX secolo, il vero laissez-faire non è mai esistito, almeno come scelta libera e consapevole da parte dei governi e degli stati. Gli economisti classici, che a quel tempo avevano poca fiducia nei governi, lo sostenevano come male minore rispetto al mercantilismo, seguendo un atteggiamento che portò alcuni, fra cui il drammaturgo svedese August Strindberg a sostenere che “l’economia [era diventata] la scienza che permetteva all’élite economica di rimanere tale”.

Nel 1853, il più importante economista italiano dell’epoca, fiero avversario dell’interventismo statale (Francesco Ferrara), scriveva che l’uso dei dazi all’importazione da parte del Governo degli Stati Uniti era un peccato grande come la schiavitù. Gli Stati Uniti si macchiarono di questo peccato per gran parte dell’età del laissez-faire, e così fecero molti altri paesi che in questo periodo applicarono dazi all’importazione, come forma di protezione o come strumento di sviluppo o semplicemente per accrescere le entrate fiscali. Inoltre, i governi intervennero con politiche a sostegno d’industrie specifiche (cotone, coca cola, petrolio). Il laissez-faire era spesso una scusa per non intervenire in alcune aree ma non era necessariamente una politica desiderabile, almeno per alcuni governi.

Dalla Grande Depressione alla rivoluzione delle Politiche dal lato dell’offerta. La situazione iniziò a cambiare verso la fine del XIX secolo, quando la rivoluzione industriale trasformò radicalmente le condizioni sociali ed economiche e rese necessarie nuove politiche. I veri cambiamenti sarebbero arrivati ​​di lì a poco, principalmente negli anni ’30.

In quei decenni: Bismarck riformò il welfare in Germania, introducendo le pensioni minime per i lavoratori; l’influente economista tedesco Adolph Wagner scrisse che spettava ai governi migliorare la distribuzione del reddito; venne pubblicata la Rerum Novarun; crebbero le preoccupazioni per la disuguaglianza nei redditi e nel 1912, uno statistico italiano, Corrado Gini, propose un indice statistico (il ben noto coefficiente di Gini) per misurarla; negli USA venne introdotta, nel 1913, l’imposta sul reddito; si affermarono i sindacati e iniziarono i grandi scioperi; la rivoluzione bolscevica si affermò in Russia, influenzando economisti di vari paesi orientati a sinistra.

Tutto ciò favorì la nascita di un mondo nuovo nel quale il laissez- faire rappresentò un’ideologia meno attraente per alcuni decenni e per un numero crescente di economisti e politici. Keynes lo riconobbe in un saggio divulgativo, pubblicato nel 1926, dal titolo appropriato: “La Fine del Laissez-faire”. E anche Roosevelt lo riconobbe con le politiche del New Deal.

La Grande Depressione accelerò il cambiamento e alcuni economisti presero a interrogarsi sulla saggezza del laissez-faire mentre la disoccupazione raggiungeva il 25% e la produzione crollava in molti paesi. Nonostante le forti opposizioni, Roosevelt introdusse le politiche radicali del New Deal e la ricetta fiscale anticiclica keynesiana cominciò a essere applicata anche negli Stati Uniti.

La redistribuzione e la stabilizzazione del reddito divennero parte integrante delle operazioni del governo, come Musgrave scrisse nel suo influente trattato di economia pubblica del 1959. Le due guerre mondiali contribuirono a questi cambiamenti, insegnando ai paesi come aumentare le imposte e creando obblighi, in capo ai governi, nei confronti di coloro che avevano combattuto le due guerre e delle loro famiglie (.cfr. A. Peacock, J. Wiseman, The Growth of Public Expenditure in the United Kingdom, Princeton University Press , 1961).

Con la fine della Seconda guerra mondiale si iniziò a riconoscere il ruolo potenzialmente benefico per il benessere dei cittadini che governi dotati di più risorse e di apparati burocratici migliori avrebbero potuto svolgere. Questo punto di vista continuò ad essere contrastato dagli economisti conservatori, specialmente da quelli che appartenevano alla Scuola Austriaca e, negli anni successivi, alla Scuola di Chicago e della Public Choice.

La riforma proposta da Beveridge nel 1942 nel Regno Unito, un “discorso del caminetto” di Roosevelt nel 1944 e il discorso di accettazione presidenziale di Eisenhower nel 1950 (con i molti riferimenti al ruolo del governo), furono altrettante indicazioni del cambiamento ideologico in atto, riconosciute anche nei circoli conservatori. Cominciò così l’era keynesiana, delle riforme del welfare e degli stati sociali a pieno titolo.

Tra gli anni ’40 e gli anni ’70, i livelli di tassazione e di spesa pubblica crebbero in modo significativo nella maggior parte dei paesi avanzati. Le imposte passarono da circa il 13% del PIL, all’inizio del secolo, fino a oltre il 30, o addirittura il 40% (cfr. V. Tanzi e R. Schuknecht, Public Spending in the 20th Century: A Global Perspective, Cambridge University Press, 2000). Anche il debito pubblico aumentò, perché l’economia keynesiana aveva fatto apparire l’indebitamento pubblico, anche se contratto in tempo di pace, meno dannoso di quanto non fosse stato considerato in precedenza.

La regolamentazione si estese, non solo per controllare i profitti dei monopoli ma anche per far fronte a nuove esternalità: la crescita di grandi città, in un contesto sempre più industrializzati, rendeva più evidenti esternalità negative come l’inquinamento, la congestione del traffico, la mancanza di igiene.

La Grande Depressione aveva lasciato cicatrici profonde: molti lavoratori e le loro famiglie avevano subito forti perdite di reddito in un contesto di assenza di reti di sicurezza formali. Aumentò il sostegno popolare ai programmi sociali e alla tassazione progressiva. L’imposta sul reddito era considerata l’”imposta ideale” secondo alcune indagini del dopoguerra. I nuovi programmi sociali, finanziati da sistemi fiscali sempre più avanzati, hanno determinato, fino agli anni ’80, un significativo miglioramento nella distribuzione del reddito.

Negli stessi anni si palesò una biforcazione tra i governi dei paesi avanzati. Alcuni scelsero d’innalzare la tassazione per finanziare programmi governativi accessibili (gratuitamente o quasi) a tutti i cittadini, indipendentemente dal livello di reddito. Diversi paesi europei (in particolare quelli scandinavi) imboccarono questa via “universalistica”. Altri, tra cui gli Stati Uniti, scelsero un percorso diverso, basato sull’accertamento dei mezzi economici dei potenziali beneficiari dei programmi di welfare (means-test) e la limitazione dell’accesso a questi ultimi solo a chi avesse soddisfatto determinati criteri.

I programmi universali si sono rivelati più semplici da amministrare, ma più costosi e perciò hanno richiesto livelli di tassazione più elevati. I programmi means tested, dal canto loro, erano meno costosi, ma più complessi – anche a causa della necessità di verificare la sussistenza dei criteri di accesso – e quindi più impegnativi in termini di risorse amministrative.

Nei paesi con programmi universalistici i sistemi fiscali erano meno complessi e più estesi, e l’obiettivo principale della tassazione era la “produzione” di entrate fiscali, nel rispetto di alcuni criteri di equità verticale. I paesi che, invece, hanno adottato programmi means tested hanno fatto più affidamento sulle imposte sul reddito e maggior uso di “esenzioni fiscali”, “incentivi fiscali”, “deduzioni speciali” e altre strategie per raggiungere i propri obiettivi sociali direttamente attraverso i sistemi tributari; il risultato inevitabile è stata una maggiore complessità fiscale. In generale, quest’ultima tende a crescere nel tempo. Negli Stati Uniti il ​​codice fiscale e le relative normative ammontano oggi a circa 90 mila pagine, rispetto alle 500 del periodo precedente la Seconda Guerra Mondiale. Inevitabilmente i “costi di conformità” e i reclami dei contribuenti sono aumentati in modo significativo. I contribuenti statunitensi hanno percepito un aggravio dell’imposizione fiscale, anche se il livello della tassazione negli Stati Uniti (e in altri paesi anglosassoni) negli ultimi cinquant’anni è aumentato decisamente meno che in molti paesi avanzati dell’Europa continentale.

Altrove ho parlato di una “Legge fondamentale di aumento della spesa pubblica” (cfr. V. Tanzi, Dollars, Euros, and Debt: How We Got into the Fiscal Crisis and How We Get Out of It, Palgrave Macmillan, 2013, cap. 14) secondo cui l’accesso a programmi basati sull’accertamento del possesso dei mezzi economici tende a crescere col tempo, per effetto di pressioni politiche, manovre burocratiche finalizzate a rendere i programmi più accessibili, e aumento degli abusi e della corruzione (un esempio è l’esperienza negli Stati Uniti con Medicaid, i buoni pasto e altri programmi means-tested).

Questi programmi tendono anche a creare “trappole della povertà” perché si rischia di perdere il sussidio accettando un posto di lavoro e guadagnando un reddito più elevato. La situazione è simile a quella sperimentata da individui soggetti ad aliquote marginali elevate nella tassazione sul reddito. Le trappole della povertà possono creare dipendenza dai programmi pubblici e ridurre l’efficienza del sistema.

Negli anni ’70 le imposte divennero più pesanti, più progressive e in generale più complesse, con effetti disincentivanti per i contribuenti che avevano un lavoro. Ciò ha preoccupato alcuni economisti e alimentato l’opposizione sia a aliquote fiscali elevate e progressive sia a programmi sociali il cui finanziamento richiedesse un’alta tassazione. Queste reazioni sono state particolarmente forti nei paesi anglosassoni, dove – come abbiamo detto – tradizionalmente prevalevano i programmi sociali basati sull’accertamento dei mezzi.

Nella seconda metà degli anni ’70, i potenziali effetti disincentivanti di una pressione fiscale elevata e dei programmi di assistenza sociale, le preoccupazioni crescenti per l’inefficienza dei governi, per gli abusi nei programmi means-tested e per gli ostacoli che i sindacati del settore pubblico ponevano al licenziamento di lavoratori inefficienti o corrotti, vennero ampiamente pubblicizzati. L’opinione pubblica ne fu influenzata e ciò favorì, in molti paesi, l’ascesa al potere di leader molto conservatori.

* Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo la prima parte dell’Introduzione al volume di V. Tanzi, Termites of the State. Why Comlexity leads to Inequality, Cambridge University Press, 2018, tradotta e leggermente adattata dall’originale inglese. La seconda parte sarà pubblicata sul prossimo numero del Menabò.

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