Le tasse e la fuga dei ricchi

Maurizio Franzini esamina la diffusa opinione secondo cui i ricchi reagiscono all’aumento delle tasse trasferendo la propria residenza. Dopo avere ricordato, quali siano le conoscenze non aneddotiche di cui disponiamo sull’influenza che le tasse esercitano sulle decisioni dei ricchi di trasferirsi, Franzini si chiede se le migrazioni dei ricchi indotte da inasprimenti fiscali, anche quando avessero luogo, sono in grado di produrre conseguenze negative come la riduzione del gettito fiscale o il rallentamento della crescita economica.

*Pubblichiamo nuovamente, per la sua attualità, questa scheda originariamente comparsa sul Menabò del 1 luglio 2014.

“Signore e signori, se li tassate, loro se ne vanno”. Loro, sono i ricchi o i super-ricchi, e chi parla è Chris Christie, Governatore repubblicano del New Jersey. Di sicuro molti altri la pensano come lui e la causa più probabile di questa diffusa convinzione sono alcuni casi di superstar in fuga all’estero per sottrarsi alle tasse, resi più vividi da immagini che restano impresse, come quella di Gerard Depardieu che, alla fine del 2012, lasciò la Francia per abbracciare la Russia, anzi per abbracciare Putin, che in quell’abbraccio nascondeva il regalo più gradito a Depardieu: una riduzione di circa 50 punti percentuali dell’aliquota marginale di imposta.
Ma la fuga dei ricchi per ragioni di “efficienza (per loro) fiscale” è un fenomeno davvero così diffuso da lasciare chiare tracce nelle statistiche o, viceversa, è sopravvalutato a causa della forza persuasiva di alcuni aneddoti che bene si sposano con argomenti di apparente buon senso? E, soprattutto, quali conseguenze negative possiamo attenderci dalle eventuali migrazioni fiscali dei ricchi?
I ricchi, non c’è dubbio, migrano. Di questi tempi, sembra che quelli occidentali si sentano attratti soprattutto da Londra e quelli orientali da Singapore. Ma non abbiamo prove convincenti che si muovano in gran numero, e piuttosto omogeneamente, verso le mete fiscalmente più attraenti per loro. Uno studio di UBS e Wealth-X condotto negli Stati Uniti mostra che non vi è alcuna correlazione tra l’altezza delle tasse fissate da uno stato e la concentrazione dei ricchi in quello stato. I ricchi che vivono nella “severa” California non sono meno numerosi di quelli che vivono nella “tollerante” Florida.
Le scelte dei ricchi dipendono da molti fattori oltre che dalle loro caratteristiche. I più sensibili alle ragioni fiscali sono gli anziani e le superstar dello sport e dello spettacolo, perché per loro l’ancoraggio territoriale al business non è una variabile di rilievo. Non sorprende, allora, che Charles Varner della Princeton University, in uno studio accurato e documentato, abbia trovato che ben poco accadde quando il New Jersey, nel 2004, aumentò l’aliquota di imposta sui redditi superiori a 500.000 dollari. Più precisamente egli trovò che i flussi di emigrazione erano praticamente identici tra coloro che avevano redditi al di sopra e appena al di sotto di quella soglia. Chissà se Chris Christie conosce questo studio che riguarda proprio lo stato di cui è Governatore.
Alla conclusione che i ricchi fuggono in massa per motivi fiscali spesso si giunge sulla base di un’induzione spuria: si guarda il numero dei ricchi che pagano imposte e se questo diminuisce dopo l’innalzamento delle aliquote marginali se ne deduce che la causa è la fuga fiscale. Lo si è detto, ad esempio, nel 2010-11 in occasione dell’aumento dell’aliquota marginale in Gran Bretagna e per lo stato americano del Maryland dove il numero dei milionari nel 2009 cadde di 1/3 e la responsabilità fu addossata con tale convinzione all’aumento delle aliquote introdotto l’anno precedente che la conseguenza fu la revoca di quell’aumento. Ma proprio rispetto al Maryland possiamo ora dire come sono andate effettivamente le cose, grazie a uno studio dell’ Institute on Taxation and Economic Policy. La caduta del numero dei ricchi fu dovuta soprattutto alla riduzione dei loro redditi indotta dalla crisi (e sicuramente qualcosa del genere è accaduto anche in Gran Bretagna). Le migrazioni c’entrano ben poco: nel Maryland i ricchi che emigrarono nel 2009 furono 364, più o meno gli stessi del 2007. Inoltre, circa 1500 persone fecero il loro ingresso, in quello stesso anno, nei ranghi dei ricchi; si tratta in parte di immigrati e in parte di residenti arricchitisi nel frattempo.
Queste complesse dinamiche aiutano anche a comprendere perché sia difficile – secondo alcuni impossibile – che all’aumentare delle aliquote il gettito fiscale complessivo, anche soltanto quello provieniente dai ricchi, si riduca. Sarebbe questa, una conseguenza negativa delle tasse sui ricchi di cui tenere adeguatamente conto. Se essa si manifestasse risulterebbe confermata la predizione contenuta nella famosa curva di Laffer, secondo la quale, appunto, all’aumento delle aliquote seguirà una riduzione del gettito. Si narra che l’inventore di quella curva lasciò la California, quando questo stato aumentò le tasse, per trasferirsi in Tennessee: questo potrebbe essere inteso come un tentativo, chissà quanto consapevole, di contribuire all’inverarsi della sua predizione. Ma Cristobal Young, della Stanford University, nel suo studio sul New Jersey (una specie di persecuzione per Christie..) trova che chi si comporta come Laffer è minoranza e comunque non è in grado di determinare una contrazione del gettito fiscale complessivo. Secondo la sua stima l’aumento delle tasse del 2004, di cui ho già detto, ebbe l’effetto di far crescere il gettito di circa 1 miliardo di dollari all’anno. Insomma, coloro che scelsero la fuga non furono molti e quelli che restarono pagarono di più.
Il criterio ultimo per valutare quanto sia desiderabile l’aumento delle aliquote marginali è, probabilmente, quello delle sue conseguenze sulla crescita economica. In fondo se i ricchi fuggono ma la crescita procede non c’è gran motivo per preoccuparsi. La questione è complessa, ma un accurato studio recente di Berg, Ostry e Tsigarides pubblicato dal FMI, mostra che la redistribuzione, se non è troppo estesa, non è affatto contraria alla crescita. Al contrario, sembra sostenerla. Insomma, contro i timori – se così vogliamo chiamarli – di molti, questo studio non trova nel rischio di un rallentamento della crescita una convincente controndicazione alle tasse sui ricchi.
Questa sintetica esposizione di alcune delle cose più importanti che conosciamo sulla fuga dei ricchi e sulle sue conseguenze, forse potrà aiutare il lettore neutrale a decidere da che parte stare: se da quella del fantasioso sindaco di Londra, Boris Johnson (che non è senza interessi in questa partita per quello che si è detto sulla recente migrazione dei ricchi verso la sua città), il quale considera eroi i ricchi che pagano le tasse e giammai si sognerrebbe di gravarli di nuove tasse, al contrario vorrebbe nominare cavalieri i 10 più facoltosi di essi; oppure da quella dell’assai meno noto John Shure, il quale lavora nel Center on Budget and Policies Priorities, ed è autore di questa asciutta affermazione: “I ricchi sono costantemente alla ricerca di modi per indurre la classe media a sostenere le loro ragioni”.
Ma c’è una piccola coda: quale che sia l’idea sulla fuga dei ricchi, se si vogliono ridurre le disuguaglianze, tassare i ricchi non è l’unica soluzione, né necessariamente la migliore. I ricchi sono tali grazie ai redditi che percepiscono in mercati che spesso funzionano in modo ben poco concorrenziale. Correggere queste modalità di funzionamento dei mercati è la forma più efficace per impedire che si formino redditi non soltanto poco meritati ma anche, molto probabilmente, dotati di un discreto potere di condizionamento delle politiche redistributive.

Questo testo si basa sul mio intervento al Convegno “Ripensare la cultura politica della sinistra” tenutosi a Roma il 26 e 27 giugno 2014.

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