Le sliding doors della governance macroeconomica: dalla sostenibilità del debito pubblico alla sostenibilità della crescita

Francesco Farina partendo dall’osservazione che tre eccellenti economisti, Olivier Blanchard, Thomas Piketty, Joe Stiglitz, sembrano avere idee alquanto diverse su temi molto scottanti come il debito pubblico, la bassa crescita e la crescente diseguaglianza, si chiede se la teoria economica sia giunta ad un punto di svolta, nelle sliding doors della governance macroeconomica, e se la preoccupazione per la sostenibilità del debito pubblico stia lasciando il posto alla preoccupazione per la crescita.

Sembra sia stato Winston Churchill a dire, con la sua nota, tagliente, arguzia: “Mettete in una stanza due economisti a studiare un problema: ne usciranno con tre teorie diverse”. Non c’è dunque da stupirsi se tre eccellenti economisti – Olivier Blanchard, Thomas Piketty, Joe Stiglitz –.abbiano idee alquanto diverse fra loro su temi molto scottanti come il debito pubblico, la bassa crescita e la crescente diseguaglianza. L’impressione è che la teoria economica sia giunta ad un punto di svolta. Il problema del debito pubblico, che ha monopolizzato l’attenzione dei macroeconomisti negli ultimi decenni, lungi dall’abbandonare il centro della scena, deve però condividerla con un nuovo protagonista, l’impatto della diseguaglianza sulla crescita economica.

Nel suo speech alla American Economic Association, Blanchard (“Public Debt and Low Interest Rates” Working Paper Series WP19-4, Peterson Institute for International Economics, Washington 2019) ha mantenuto un alto profilo. Ha voluto mostrarsi alieno da idee preconcette. Non ha chiamato in causa nessuno dei suoi eccellenti colleghi in platea, alcuni dei quali con idee meno moderate delle sue. E’ parso invitare tutti ad una fredda analisi economica dei dati statistici. Blanchard ha di nuovo preso le distanze dalla politica dell’austerità, l’idea anti-keynesiana sostenuta da tanti economisti, convinti che una politica fiscale restrittiva (tagliare le tasse e la spesa pubblica) spinga la crescita, in quanto dà respiro al mercato e attiva il trickle-down, lo “sgocciolamento” secondo il quale meno tasse ai ricchi incentivano gli investimenti e promuovono una crescita da cui tutti, anche i ceti a basso reddito, traggono vantaggio. Con il tono di voce volutamente monocorde di chi bada solo al rigore analitico, egli ha inquadrato in un asciutto modello teorico la previsione per l’anno in corso di una differenza negativa fra tasso di interesse e tasso di crescita: -1,3%, negli Stati Uniti, -2,2% nel Regno Unito, -1,8% nell’Eurozona.

La conclusione è evidente: la crescita del PIL dovrebbe garantire sufficienti risorse fiscali per il finanziamento della spesa pubblica e del servizio del debito; se poi le vacche ingrasseranno (se la ripresa della crescita continuerà) sarà anche possibile mettere mano alla riduzione degli ingenti stock di debito pubblico. Il tasso di interesse, come anche la teoria della “stagnazione secolare” prevede, sembra destinato a rimanere a lungo basso. Anche se sorgessero aspettative di un suo aumento in futuro, non sarebbe necessario ricorrere a più tasse. I governi potrebbero anzi trarre profitto dagli attuali bassi tassi con emissioni di debito pubblico a lungo termine. La perdita di benessere connessa al debito pubblico, benché sia probabile in punto di teoria, dovrebbe essere tutt’altro che ingente.

Blanchard ha dunque inteso comunicare un messaggio rassicurante. Non c’è motivo di continuare con l’austerità, una medicina che egli ammette oggi di avere sbagliato a suggerire ai governi quando era Chief Economist dell’IMF. Essa di certo riduce la formazione di debito nel breve termine, ma attiva anche un moltiplicatore negativo che deprime la crescita del reddito. Poiché la sostenibilità finanziaria dei paesi avanzati non desta preoccupazioni esagerate, gli economisti dovrebbero abbandonare le armi della contesa ideologica. Tuttavia, con buona pace di Churchill, Blanchard non ha potuto fare a meno di porre sulla scacchiera un’altra tessera da tenere d’occhio. Si tratta della misura del tasso di interesse che contiene il “premio per il rischio”, l’indicatore dell’opinione dei mercati sulla sostenibilità del debito pubblico di un paese, che tanti problemi ha creato all’inizio del decennio, con il “contagio” dello spread che si estese dalla Grecia all’Italia ed alla Spagna, fino a far sorgere nei mercati l’aspettativa di estinzione dell’euro.

Se è vero che Blanchard prende le distanze dall’austerità, la prudenza lo induce a non esprimere giudizi sull’evoluzione del debito pubblico nei paesi dell’Eurozona. Egli sembra quasi voler ripristinare una visione globale – non “eurocentrica” – del nesso fra i due tassi. Il differenziale fra i tassi di interesse, del resto, è una funzione del tasso di cambio atteso fra le monete delle varie aree valutarie – in primis, quelle del dollaro e dell’euro – prima ancora che la misura delle divergenze reali all’interno dell’Eurozona, espresse dallo spread rispetto alla Germania.

Resta però il tarlo del dubbio. Perché non tenere conto del tasso di interesse “così com’è”, e cioè comprensivo del “premio per il rischio”? Per non indulgere a dietrologie, è utile confrontare la posizione di Blanchard, come detto all’inizio, con quelle di Piketty e di Stiglitz. E’ subito chiaro che il palcoscenico sul quale Piketty pone in scena la sua “versione” del nesso fra tasso di interesse e tasso di crescita è tutt’affatto diverso. Con eguale esprit de géométrie del suo connazionale, ma con il piglio da giovane economista engagé, Piketty (Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, 2014) ha corredato con una vasta messe di stime il suo fortunatissimo volume di ricostruzione storica delle statistiche sulla diseguaglianza nei maggiori paesi. Diversamente da Blanchard, per calcolare la differenza fra i due tassi, non ritiene di dover scorporare lo spread, il “premio per il rischio” inglobato nel tasso di interesse. Nella sua prospettiva di lungo periodo è il livello effettivo del tasso di interesse quello che conta.

Della questione del debito pubblico, d’altro canto, ha una visione alquanto drastica: al giudizio negativo sulla “cura prolungata di austerità” (p.862, ed.it.) con cui si è preteso in Europa di combattere il debito pubblico Piketty accompagna la richiesta di una tassa patrimoniale internazionale per abbatterlo. Non sorprende, quindi, che il suo computo della differenza di lungo periodo fra tasso di interesse e tasso di crescita nei paesi avanzati mostri un segno negativo soltanto dal 1950 al 1980. Fu durante la forte espansione del PIL e dell’occupazione dei Trente Gloriouses – ma mai più dopo – che il tasso di crescita superò il tasso di interesse. In quell’”età dell’oro”, l’aumento della quota dei salari (a scapito di quella del capitale), favorita da un’impetuosa crescita dell’occupazione, consentì sia di ridurre la diseguaglianza di reddito sia di frenare la continua salita della quota della ricchezza posseduta dai più ricchi. E l’evoluzione meno diseguale del reddito e della ricchezza si riflesse nell’evoluzione in senso democratico della società. Il rovesciamento dei rapporti di potere non durò però a lungo. La globalizzazione cominciata negli anni ’80 ha segnato il punto di svolta.

Qual è allora il messaggio – molto meno rassicurante di quello di Blanchard, come si intuisce – che Piketty vuole lanciare? Per usare una metafora, egli sembra pensare all’accumulazione capitalistica come ad una macchina che – una volta messa in moto – è sempre più difficile bloccare prima che faccia danni alla società. Piketty concentra l’attenzione sull’eguaglianza fra il rapporto capitale/ reddito e la propensione al risparmio (s) divisa per il tasso di crescita del PIL (g): K/Y = s/g. Alla base della visione di Piketty sull’attuale fase del capitalismo c’è quindi un’intuizione: il tasso di crescita (g) è molto basso, dal momento che l’accumulazione capitalistica (l’incremento del rapporto K/Y) procede dagli anni ’80 in poi in base ad un progresso tecnico labour-saving, che riduce l’impiego di lavoro (tendenza che oggi viene ulteriormente accelerata dall’automazione e dall’intelligenza artificiale).

In termini formali, poiché la funzione di produzione presenta un tasso di sostituzione fra capitale e lavoro maggiore di uno, la legge dei rendimenti decrescenti dei fattori non funziona: il rendimento del capitale (il tasso di profitto o di interesse r) scende quindi meno di quanto non aumenti (a causa della bassa crescita) il rapporto K/Y. La conseguenza è che la quota del profitto sul reddito (il prodotto fra il rendimento di un’unità di capitale (r) e lo stock di capitale sul reddito (K/Y) cresce. Nelle parole di Piketty, “la tecnologia moderna impiega sempre molto capitale o, meglio, l’impiego differenziato del capitale fa sì che si possa accumulare un capitale enorme senza che il suo rendimento cali in modo sostanziale” (Piketty, 2014, p.343). Da un lato, vengono così distribuiti meno redditi da lavoro e la quota del salario sul reddito scende. Dall’altro, la concentrazione della ricchezza finanziaria ed immobiliare nelle mani dei ricchi è oggi più che mai elevata. I dividendi azionari e gli interessi sulle attività finanziarie saranno quindi in grande misura appannaggio di ristretti ceti privilegiati; mentre saranno invece poco presenti fra i redditi dei lavoratori. Nella plausibile ipotesi che tali rendimenti finanziari vengano per la gran parte reinvestiti, la concentrazione della ricchezza aumenterà; all’aumentare dei rendimenti finanziari dei ricchi si accrescerà però anche la distanza fra i redditi dei ricchi e quelli della classe media e dei poveri.

Con l’aiuto di Piketty, il tarlo del dubbio sorto con la scelta di Blanchard del tasso “neutrale al rischio” approda ad una possibile spiegazione. I due tassi non sono mutualmente indipendenti: il tasso di interesse, aumentando la diseguaglianza di reddito, finisce per contribuire alla lenta crescita. Nella lettura di Piketty, l’austerità ha finito per spostare ancora più sulla crescita economica il fardello delle risorse con le quali finanziare le politiche di Welfare. Ed è quindi sulla formazione di entrate fiscali permessa dalla dinamica del PIL – sulla “capacità fiscale” dei governi e non sull’emissione di debito – che sempre più si fa conto. Proprio per questo motivo, Piketty è convinto che questa fase evolutiva del capitalismo non debba lasciarci tranquilli. I vincoli che “la cura prolungata di austerità” ha imposto alle politiche fiscali non hanno risolto il problema del debito pubblico ed hanno aggravato quello della crescita. Il fuoco dell’analisi viene così a slittare dalla sostenibilità del debito pubblico alla sostenibilità della crescita. Mentre l’accento di Blanchard cade sui vantaggi assicurati da un livello storicamente molto basso del tasso di interesse “neutrale”, l’accento di Piketty cade sulla pericolosità dell’intreccio fra un tasso di interesse costantemente esposto in Europa al rischio di improvvise impennate verso l’alto ed una crescita del PIL estremamente bassa.

La visione che Stiglitz (The Price of Inequality, W.W. Norton, 2013) ha maturato sulle diseguaglianze si pone sulla sua stessa lunghezza d’onda. La sua analisi economica si differenzia però da quella di Piketty in un punto importante. Quella che Piketty definisce una “legge fondamentale” del capitalismo, il prodotto fra K/Y ed r, secondo Stiglitz (“New Theoretical Perspectives on the Distribution of Income and Wealth among Individuals: Part I. The Wealth Residual”, NBER Working Paper No. 21189, 2015) è mal concepita. Il rapporto K/Y non sarebbe a suo parere valutabile in modo indipendente dal tasso di interesse r. L’aumento della quota del capitale sul reddito sarebbe infatti troppo ampio per trovare spiegazione soltanto nell’andamento del progresso tecnico, e cioé nella circostanza che il tasso di interesse scende meno di quanto il rapporto K/Y non aumenti. Stiglitz utilizza perciò la sua visione delle imperfezioni di mercato per arricchire il quadro interpretativo. Se il rapporto fra valore del capitale e reddito sale molto più di quanto sarebbe giustificato dalla sua accumulazione, è perché ad alimentare il valore del capitale interviene la manipolazione della distribuzione del reddito e della ricchezza da parte di CEO ed operatori finanziari. Ne sono testimonianza il potere di mercato esercitato dalle grandi corporations nella politica dei prezzi; e l’interesse personale perseguito dai managers nel controllare le remunerazioni e nel massimizzare il valore di borsa sul breve periodo, accrescendo così il rischio di bolle” nei mercati finanziari. Ne deriva che il tasso di interesse, più che dalle “oggettive” leggi economiche del progresso tecnico, viene ad essere determinato in modo endogeno al sistema economico. L’eccedenza dell’aumento del rapporto ricchezza-reddito rispetto alla formazione di risparmio rifletterebbe l’ampliamento registrato dalle rendite legate al capitale ed alla proprietà intellettuale, che sono all’origine sia dell’impennata dalle retribuzioni nella porzione alta della distribuzione sia dell’asfitticità della crescita.

Cosa suggerisce, in definitiva, questo confronto fra tre economisti su tasso di interesse e tasso di crescita? Le posizioni divergono in funzione delle variabili teoriche privilegiate da ciascuno di essi e del problema di governance macroeconomica che maggiormente li preoccupa. Blanchard non sembra ritenere utile considerare un tasso di interesse comprensivo del “premio per il rischio”, e neppure sembra credere ad un nesso particolarmente stretto fra il tasso di interesse “neutrale al rischio” ed il tasso di crescita (se c’è un problema di sostenibilità del debito pubblico, la sua origine e la sua cura risiedono nel paese che ne soffre). All’opposto, Piketty e Stiglitz, seppure in base a schemi analitici diversi, sottolineano come sia il rendimento del capitale sia la crescita economica siano tutt’altro che estranei all’innalzamento della diseguaglianza: è proprio nel causare tale innalzamento che i due tassi entrano in relazione.

In sintesi. Secondo Blanchard, il debito pubblico non rappresenta un problema (se non per i paesi che soffrono di uno spread alto) perché il tasso di interesse si manterrà a lungo vicino allo zero; semmai il problema è accelerare la ripresa della crescita. Secondo Piketty e Stiglitz, il problema del debito pubblico viene creato dalla scarsa volontà dei governi di abbatterlo con una tassa patrimoniale; ambedue ritengono che il vero problema è la crescita, che stenta a riprendere una volta che la diseguaglianza di reddito non incontra ostacoli nella sua salita. La preoccupazione per la sostenibilità del debito pubblico sta forse lasciando il posto alla preoccupazione per la crescita. Siamo finalmente giunti al punto di svolta, nelle sliding doors della governance macroeconomica, nel capire quale sia la vera priorità?

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