Le sfide della democrazia rappresentativa tra “Costituzione economica” e “Costituzione finanziaria”

Francesco Saitto si occupa di “Costituzione economica” e sostiene che l’inserimento in Costituzione di norme che limitano la discrezionalità legislativa può costituzionalizzare una data dottrina economica ovvero sostenere il legislatore nell’attuazione del progetto assiologico di una Costituzione, con vantaggio per la democrazia rappresentativa. Dall’alternativa che prevale dipende, secondo Saitto, l’utilità di analizzare il concetto controverso di “Costituzione economica”, il cui studio critico, è tornato centrale dopo le riforme sulla disciplina costituzionale dell’indebitamento.

Nel contesto attuale, appare necessario ricominciare a maneggiare con cura il concetto di “Costituzione economica”. Attraverso di esso si può, infatti, cogliere l’occasione per decifrare una delle sfide cruciali per le liberal-democrazie nella fase storica odierna: individuare, nella prassi, una “giusta misura” di correlazione tra politica ed economia, in un’epoca in cui, in forme nuove, la faglia della conflittualità tra “nazionalismo politico” e “cosmopolitismo economico” è tornata ad essere particolarmente instabile.

A tal fine, occorre evitare di utilizzare tale concetto nella sua accezione meramente descrittiva. Esso, infatti, può avere una funzione utile a spiegare il modo in cui si rapportano politica ed economia, solo se inteso in una declinazione che ne indaga la valenza prescrittiva. In particolare, ciò che rileva è stabilire se l’inserimento in Costituzione di norme capaci di limitare la discrezionalità legislativa sia strumentale a costituzionalizzare una determinata dottrina economica o, piuttosto, se sia un mezzo per sostenere l’azione del legislatore nell’attuazione del progetto assiologico di una Costituzione. Nel primo caso, inevitabilmente, al legislatore rimarranno spazi minimi per poter rispondere agli eventi imprevisti che dovessero presentarglisi. Forte, in tale declinazione, si sente l’eco del celebre dissent del Justice Holmes, pronunciato nella sentenza Lochner del 1905, che stigmatizzava l’inserimento in Costituzione di una decisione fondamentale in materia economica. Corollario di tale scenario, peraltro, è che la responsabilità di una determinata politica economica e delle sue ricadute sulla forma-stato non può essere posta in capo al legislatore, che, nei Paesi in cui la Costituzione è rigida, è ad essa vincolato.

Nel secondo, invece, ciò che va studiato è il modo in cui una determinata “Costituzione economica” può contribuire a garantire, nel difendere un’ampia discrezionalità del decisore politico con riferimento al quomodo dell’attuazione, che ogni decisione sia, anche in ambito economico e soprattutto sul piano diacronico, pienamente associabile a un soggetto politico che ne è responsabile e al contempo sinergica a quei valori il cui inveramento è posto come obiettivo.

Coerentemente con questa premessa metodologica, va letto il rapporto tra “Costituzione economica” e “Costituzione finanziaria”. La nozione di “Costituzione economica”, infatti, prescindendo dal suo utilizzo meramente descrittivo, ha assunto storicamente diversi significati. Nei mesi in cui si discuteva alla Weimarer Nationalversammlung, in area socialdemocratica, sulla falsariga della elaborazione marxiana, se ne fece uso per sottolineare lo sforzo che la Costituzione avrebbe dovuto compiere di organizzare, in modo inedito, il confronto stato-società, puntando a esaltare quella funzione di autoregolazione societaria coerente con l’idea per cui il polo societario fosse il luogo per eccellenza dei rapporti di struttura. In questa chiave, il ruolo dei Consigli, previsti all’art. 165 della Costituzione di Weimar, è decisivo, in quanto attraverso di essi veniva promossa la costruzione di un dialogico confronto tra le forze produttive che avrebbe però dovuto contribuire prima di tutto a ricomporre il conflitto di classe. E alla Costituzione, che li disciplinava, era in tal modo affidata la regolazione del rapportarsi della “Costituzione economica” con il polo statuale e, pertanto, con la “Costituzione politica”.

Già in epoca weimariana, tuttavia, sotto la pressione di un contesto economico tutt’altro che favorevole, si comincia a osservare uno slittamento semantico del concetto di “Costituzione economica”, che viene misurato proprio in relazione al modo in cui un testo normativo rigido è capace di vincolare l’attività del legislatore. La posizione della cd. Scuola di Friburgo percepisce con chiarezza le implicazioni sul piano giuridico di un testo che, sovraordinato alla legge, è potenzialmente in grado di stabilire ex ante i termini di un determinato ordine economico le cui finalità sono quelle, primariamente, di ricreare quel sistema concorrenziale che era collassato con la fine dell’Ottocento e non era più in grado di sostenersi autonomamente nel mutato contesto della democrazia di massa. Questa posizione fa perno, traendovi nuovo sostegno, sulla tradizionale sfiducia verso il Parlamentarismus che caratterizzava il dibattito pubblico tedesco dell’epoca e che affondava le sue radici, sin dall’Ottocento, nel risalente conflitto sul detentore della sovranità che interessava Parlamento e Kaiser. Diversa, invece, la posizione di chi, come per esempio Neumann, puntava a difendere la discrezionalità del legislatore, il cui compito era di dare attuazione a un progetto costituzionale che aveva previsto delle norme di grande innovatività, seppur attraverso clausole generali (F. Neumann, Über die Voraussetzungen und den Rechtsbegriff einer Wirtschaftsverfassung, in Die Arbeit, 1931, 588 ss.). Si fa, solo a titolo di esempio, riferimento a disposizioni come l’art. 151, che stabiliva che l’ordinamento della vita economica dovesse tendere a garantire a tutti un’esistenza degna dell’uomo, o l’art. 153, che solennemente affermava che la proprietà obbliga, caricando così il soggetto proprietario, prima di tutto il borghese, di una forte responsabilità sul piano sociale.

È a partire da quegli anni che, pertanto, si sarebbe cominciato a declinare il concetto di “Costituzione economica” secondo una direttrice che, in Germania, avrebbe avuto particolare fortuna negli anni successivi all’entrata in vigore del Grundgesetz: l’idea che la “Costituzione economica” fosse deducibile dal catalogo dei Grundrechte che, nella loro interpretazione congiunta, davano vita a un sistema istituzionale capace di limitare in maniera decisiva gli spazi di manovra del legislatore, vincolandone l’azione e sottraendogli spazi di discrezionalità. Il Tribunale costituzionale avrebbe rifiutato, sin dagli anni Cinquanta, un approdo di questo tipo, senza tuttavia impedire, coerentemente, che una certa versione, per quanto “contaminata”, delle idee ordoliberali sull’economia sociale di mercato si affermasse nell’ordine materiale dell’economia (M. Foucault, Nascita della biopolitica, Milano, 2009). Ma ciò che era ammesso e si inverava politicamente negli anni del cd. “miracolo economico” sul piano materiale certo non era l’unico dei mondi possibili, come avrebbero in più occasioni ribadito i giudici di Karlsruhe.

Sul finire degli anni Sessanta e poi sempre più chiaramente negli anni Settanta, la crisi fiscale dello stato (J. O’Connor, La crisi fiscale dello Stato (1973), Torino, 1982) mette in discussione il rapporto tra un’economia di mercato fondata sui principi keynesiani e la capacità decisionale della democrazia rappresentativa (C. B. Macpherson, The Life and Times of Liberal-Democracy (1977), Don Mills, 2012). È in questa fase possibile individuare i segnali di una profonda trasformazione, certificata dall’affermazione del fiscal constitutionalism. Sferzanti critiche in merito agli spazi della discrezionalità politica vengono associate al ricorso al credito, collegando il superamento della crisi economica con la necessità di archiviare il pensiero di Keynes (J. M. Buchanan, R. E. Wagner, La democrazia in deficit (1977), Roma, 1997). Ma ciò che rileva in questa sede è sottolineare che, con questa corrente di pensiero, si rafforza l’idea per cui, rispetto allo sforzo interpretativo necessario per costruire a partire dai singoli diritti fondamentali un sistema istituzionale vincolante, ben più efficace appare operare direttamente su quella parte della Costituzione che regola la materia finanziaria e la disciplina del bilancio, introducendo regole dettagliate che, ancora una volta, hanno come effetto di “spoliticizzare” la decisione. Le implicazioni di tale scelta sono di grande rilievo, potendo potenzialmente cambiare in modo radicale il rapporto tra stato costituzionale ed economia e, di conseguenza, la forma-stato. Nelle pieghe di questo dibattito sulla “Costituzione finanziaria” come strumento per accogliere una determinata dottrina economica in Costituzione si rinviene pertanto traccia di quel vecchio confronto sulla “Costituzione economica”. Anzi, la “Costituzione finanziaria” si dimostra potenzialmente lo strumento più efficace per inverare una certa “Costituzione economica” che sottragga alla decisione politica la decisione economica.

Anche in questo caso è possibile, tuttavia, scovare un sentiero, più stretto, per scorgere nelle norme che disciplinano il ricorso al credito non uno strumento per espropriare il decisore politico della sua responsabilità, ma anzi per difenderne le prerogative. Nella giurisprudenza del Tribunale costituzionale tedesco, nel filone che a più riprese e a vario titolo ha avuto ad oggetto le misure adottate a livello europeo per contrastare la crisi economica, è emerso chiaramente come l’opzione di introdurre una disciplina dell’indebitamento, avvenuta nel Grundgesetz già nel 2009, sia proprio volta a garantire l’esistenza di una Verantwortungsverfassung (Costituzione della responsabilità), la cui primaria funzione è di consentire che il legame di imputabilità di una decisione con riguardo all’indebitamento non aggiri il profilo della sostenibilità sul piano intergenerazionale. Il ricorso al credito, in questa prospettiva, viene in qualche modo razionalizzato, ma non per disciplinarne in modo rigido e necessariamente antikeynesiano l’utilizzo, quanto piuttosto per sostenere il principio di responsabilità ed evitare che il ricorso al credito sia un modo per non sottoporsi al giudizio dell’elettorato nei casi in cui sarebbe più corretto ricorrere alla tassazione. Come dimostrato da Streeck in molti suoi lavori recenti, in particolare con la sua ricostruzione dello “stato debitore” e dello “stato consolidato”, del resto, proprio l’indebitamento è una delle principali leve che rischia, in assenza di una corretta gestione, di attentare al funzionamento della democrazia rappresentativa (W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano, 2013).

In conclusione, ricorrere alla nozione di “Costituzione economica” con l’obiettivo di indagare se essa sia volta a soffocare spazi di discrezionalità legislativa in favore di una specifica dottrina economica oppure sia strumentale a rafforzare il principio di responsabilità nello stato costituzionale, rendendo più trasparenti i circuiti dell’imputabilità della decisione politica, appare particolarmente utile sul piano dogmatico. Attraverso lo studio degli assetti costituzionali descritti, infatti, passa la possibilità di analizzare criticamente quella caratteristica che Carl Schmitt individuava nel liberalismo ottocentesco: quell’equilibrio tra «assenza politica» e «presenza economica» (C. Schmitt, Il Nomos della terra (1974), Milano, 1991) che oggi i vari sostenitori del fiscal constitutionalism, al di là delle diverse impostazioni e come altri in precedenza, vorrebbero in forme nuove riproporre.

Andrebbero studiate in questa chiave, pertanto, ed eventualmente sottoposte ad analisi critica, anche le norme in materia finanziaria vigenti a livello sovranazionale e, di conseguenza, la ricaduta sul piano nazionale del “vincolo” da esse generato qualora vengano costituzionalizzate, cessando così di operare solo su un piano che si può definire “esterno”. Ciò prima di tutto al fine di valutare se esse siano volte a edificare una “Costituzione economica” parziale, capace di sottrarre spazi di discrezionalità alla politica fino al punto da escluderne reali margini di azione nella cura di un determinato ordine materiale dell’economia o, piuttosto, a sostenere la democrazia rappresentativa, rafforzando così anche la statualità, dando nuova linfa alla capacità di ogni Parlamento di rispondere responsabilmente alle sfide di eventuali innovazioni che dovessero presentarsi, per ricostruire volta per volta nuove “concordanze pratiche”. È a questa altezza, del resto, che, insieme alla tradizionale funzione di organizzazione del rapporto stato-società, le costituzioni possono dimostrarsi oggi lo strumento privilegiato per strutturare l’apertura nazionale alla dimensione sovranazionale, affinché questa operi come un contrafforte della democraticità e della tutela dei diritti fondamentali, e non come un fattore di mera spoliticizzazione (P. Costa, Democrazia politica e stato costituzionale, Napoli, 2006; P. Ridola, Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Torino, 2010). Questa strada, tuttavia, è ancora in gran parte da percorrere.

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