Le retribuzioni nel pubblico impiego: super-redditi o disuguaglianze pervasive?

Michele Raitano torna sul tema delle retribuzioni nel pubblico impiego e mostra come l’anomalia italiana, rispetto ai paesi dell’area OCSE, consista non soltanto nelle alte retribuzioni di chi si trova al vertice della piramide ma anche nelle basse retribuzioni di chi si trova alla base di quella stessa piramide. Pertanto, se l’obiettivo fosse di ristabilire l’equità distributiva, e non invece soltanto quello di ridurre la spesa pubblica, la politica non dovrebbe consistere soltanto nell’imporre tetti.

l dibattito sulle retribuzioni apicali nel settore pubblico si è nuovamente acceso nelle scorse settimane, in seguito alla riduzione del tetto massimo delle retribuzioni consentite e all’annuncio che il Governo intende introdurre una serie di fasce retributive predefinite per dirigenti e manager pubblici.

Sull’accettabilità delle alte retribuzioni e l’opportunità di introdurre “tetti” all’interno del pubblico impiego si è recentemente espressa sul Menabò Elena Granaglia. L’obiettivo di questo articolo è, invece, presentare alcune evidenze empiriche che consentano di dare una risposta più consapevole ad una serie di domande relative all’altezza dei super-redditi e dei divari retributivi nel settore pubblico in Italia.

In primo luogo, bisogna chiedersi se le retribuzioni di chi raggiunge le posizioni apicali nel pubblico impiego siano in Italia più elevate che altrove. A tale domanda, apparentemente semplice, si fatica a dare risposta a causa dei limiti dei dati a disposizione. Le indagini campionarie (ad esempio EU-SILC) hanno difficoltà a rappresentare adeguatamente gli individui ad alto reddito e, d’altro canto, le tipologie di occupazione pubblica non sono omogenee fra paesi [1. A tale proposito, si noti che alcuni paesi (fra cui l’Italia) non forniscono informazioni sulle retribuzioni degli occupati della P.A. nell’ambito della Structure of Earnings Survey condotta periodicamente da Eurostat]. Per superare tali limiti, l’OCSE ha recentemente costruito un data base delle retribuzioni medie lorde annue di alcune specifiche figure professionali occupate in sei ministeri (Interni, Economia, Giustizia, Istruzione, Sanità e Ambiente) [2. Il database dell’OCSE non rileva, dunque, chi lavora negli enti locali, negli istituti di sicurezza sociale e nelle aziende pubbliche o partecipate].Per esigenze di comparazione internazionale le retribuzioni lorde (che includono gli oneri contributivi a carico del lavoratore e sono corrette per tenere conto del numero di giornate di ferie previste in ogni paese) sono espresse in dollari a parità di potere d’acquisto.

Dai dati dell’OCSE – riportati anche nella pubblicazione periodica Government at a Glance – emerge chiaramente come le retribuzioni dei dirigenti pubblici italiani, di prima e seconda fascia, siano ben più elevate di quelle rilevate nella media dei paesi OCSE e nei principali paesi occidentali (figura 1). I dirigenti italiani di prima fascia guadagnano in media più del doppio (il 112% in più) dei loro omologhi colleghi dei paesi OCSE, mentre fra i dirigenti di seconda fascia il divario si attenua, ma è comunque sostanziale (+32%) [3. Similmente, Perotti e Teoldi su lavoce.info, prendendo in esame quattro ministeri, mostrano che i dirigenti di prima fascia italiani guadagnano, in media, tra il 40 e il 90% in più dei loro omologhi britannici]

La comparazione delle strutture retributive non è però completa se ci si limita ad osservare unicamente la coda alta della distribuzione. Infatti, l’Italia è , sì, caratterizzata da retribuzioni apicali molto elevate, ma, è anche il paese, fra quelli presi in considerazione, in cui i funzionari ministeriali laureati percepiscono gli stipendi più bassi (il 23% in meno rispetto alla media OCSE; figura 1). Il nostro paese si caratterizza, quindi, non solo per l’altezza delle retribuzioni apicali, ma anche per la forte disuguaglianza retributiva fra chi occupa posizioni consecutive nella scala gerarchica (anche la distanza fra le retribuzioni fra dirigenti di prima e seconda fascia è massima in Italia).

Fig. 1 - Retribuzione annua lorda di dirigenti e funzionari dei ministeri in alcuni paesi OCSE nel 2012
Fig. 1: Retribuzione annua lorda di dirigenti e funzionari dei ministeri in alcuni paesi OCSE nel 2012 (valori espressi in dollari PPA). Fonte: elaborazioni su dati OCSE Government at a Glance 2013.

Veniamo, ora, alla seconda domanda: come si sono mosse nel tempo le disuguaglianze nei salari pubblici in Italia? La crescita delle disuguaglianze salariali all’interno del pubblico impiego è un fenomeno solitamente trascurato benché evidente nelle poche analisi empiriche che se ne sono occupate. Nel pubblico impiego, già ben prima dei provvedimenti di blocco degli scatti di anzianità e dei rinnovi contrattuali, sono cresciute, in termini reali, quasi esclusivamente le retribuzioni percepite al top; infatti, quelle mediane (o ancora più basse) nel migliore dei casi sono rimaste stabili, come è evidente guardando l’andamento nel periodo 1995-2010 delle retribuzioni nette (in termini reali) dei diversi percentili della distribuzione dei salari pubblici rilevate dalla Banca d’Italia (figura 2, in cui si considerano i soli dipendenti full time) [4. I percentili della distribuzione dei redditi rappresentano il valore detenuto da chi occupa una determinata posizione sulla scala crescente dei redditi]. In particolare, la crescita delle retribuzioni dei percentili più elevati sembra essere stata accelerata dall’allentamento della regolamentazione dei parametri in base a cui sono stabiliti i salari pubblici, introdotto dalla riforma della contrattazione del 1998, che prevedeva anche lo spoil system.

Fig. 2 - Andamento delle retribuzioni annue nette nei principali percentili della distribuzione nel settore pubblico
Fig. 2: Andamento delle retribuzioni annue nette nei principali percentili della distribuzione nel settore pubblico (valori in euro a prezzi costanti 2010). Dipendenti full-time. Fonte: elaborazioni su dati Banca d’Italia Indagine sui Bilanci delle Famiglie Italiane .

La chiara crescita delle disuguaglianze retributive nel pubblico impiego – presumibilmente sottostimata anche perché le indagini campionarie tendono a sottorappresentare i top incomes e nei dati è escluso chi lavora nella P.A. con collaborazioni parasubordinate, spesso intermittenti e poco retribuite – è confermata dall’osservazione della dinamica dei rapporti fra percentili, ovvero dal rapporto fra la retribuzione conseguita dal novantacinquesimo dipendente pubblico più ricco e dal dipendente mediano (P95/P50) o, alternativamente, da chi si situa al venticinquesimo posto (P95/P25) lungo la scala crescente dei redditi. Entrambi i rapporti sono cresciuti sensibilmente tra il 1998- e il 2004, per poi stabilizzarsi (o ridursi lievemente nel caso del P95/P50) nel periodo successivo (figura 3).

Fig. 3 - P95:P50 e P95:P25 delle retribuzioni annue nette nel settore pubblico. Dipendenti full-time
Fig. 3: P95/P50 e P95/P25 delle retribuzioni annue nette nel settore pubblico. Dipendenti full-time. Fonte: elaborazioni su dati Banca d’Italia Indagine sui Bilanci delle Famiglie Italiane.

Dai dati finora mostrati sembra quindi evidente che il problema del pubblico impiego in Italia non riguarda unicamente l’altezza delle retribuzioni apicali, ma attiene, più in generale, alla crescente disuguaglianza fra dipendenti pubblici, che si sta presumibilmente acuendo in seguito agli effetti regressivi del blocco degli scatti e dei rinnovi contrattuali iniziato nel 2010.

Nel dibattito corrente sembra invece prevalere l’idea che il problema emerga unicamente al top della distribuzione e che, anzi, adeguare le retribuzioni dei dirigenti pubblici italiani al livello di quelle pagate altrove rappresenterebbe un facile modo per conseguire risparmi di spesa non irrilevanti. Ma, se il riferimento deve essere rappresentato dagli standard internazionali, perché omogeneizzare soltanto le retribuzioni apicali e non anche quelle dei funzionari pubblici? E se i livelli retributivi italiani fossero più simili a quelli dei principali paesi occidentali la spesa pubblica per retribuzioni si ridurrebbe sensibilmente?

Un semplice calcolo svela la ragione principale dell’asimmetria di tali proposte e chiarisce come l’attenzione ai divari retributivi sia motivata dall’obiettivo di contenere la spesa e non di migliorare in modo sostanziale l’equità distributiva. Poiché il numero di coloro che si collocano alla base della piramide (i funzionari) è ben più elevato di quello di chi sta al vertice (i dirigenti), l’aumento della spesa per le retribuzioni dei primi più che compenserebbe la minor spesa per le retribuzioni apicali. Tenendo conto dei dati dell’OCSE sulla dimensione degli organici ministeriali nelle diverse mansioni , se i livelli retributivi dei dirigenti e funzionari laureati italiani fossero eguagliati a quelli medi OCSE la spesa italiana per stipendi crescerebbe del 22%. L’aumento sarebbe inevitabile anche se si prendesse uno qualunque dei paesi OCSE come termine di riferimento; esso sarebbe minimo, restando nell’ambito dei paesi UE, se le retribuzioni fossero omogeneizzate a quelle di Regno Unito e Svezia (dell’ordine del 10%) e massimo se come punti di riferimento si considerassero Francia (+34%) e Germania (+42%).

In conclusione, la riduzione delle retribuzioni più elevate nel pubblico impiego, oltre che di per sé senz’altro condivisibile, determinerà una riduzione della spesa pubblica e raccoglierà anche il favore dell’opinione pubblica. Essa non dovrebbe, però, essere presentata come una misura ispirata a puri ideali di giustizia distributiva. Questi ultimi richiederebbero di guardare anche alla parte più bassa della distribuzione, dove emerge, nella comparazione internazionale (e guardando ai trend di crescita dei diversi percentili), un’anomalia italiana opposta a quella che si manifesta rispetto ai redditi più alti.

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