Le regole del gioco

L’idea che il funzionamento del mercato debba essere affidato alle cure di organismi pubblici indipendenti dal potere politico e, in particolare, posti al riparo da interventi e condizionamenti del potere esecutivo ha radici profonde nella cultura politica e giuridica del continente europeo. Essa si colloca sullo sfondo di una scelta di rango costituzionale che matura in Germania nel periodo fra le due guerre e che pone a fondamento della vita economica una sistema di mercati interdipendenti governati dalla concorrenza.

La scelta di radicare il funzionamento dell’economia in un sistema di mercati soggetti alla disciplina della concorrenza, quale è depositata nella versione originale del Trattato istitutivo della Comunità europea e quale è riproposta da ultimo nella Costituzione europea, ha certamente una valenza costituzionale. Essa pone, infatti, il fondamento su cui deve poggiare la vita economica, dettando le regole cui si devono conformare i soggetti economici. In tale scelta confluiscono sia una concezione del ruolo dello Stato sia una visione del sistema economico e del suo funzionamento in un sistema politico democratico. L’elaborazione di queste idee affonda le sue radici nelle esperienze traumatiche che hanno segnato il secolo scorso portando per due volte la guerra sul suolo europeo e sottoponendo alcuni dei principali paesi del continente al giogo di regimi politici non democratici.

Dal punto di vista economico, dunque, l’Europa è, prima di tutto, un quadro di regole. In primo luogo, quella della concorrenza, cui è affidato il compito di assicurare il benessere dei cittadini consumatori, mantenendo sotto controllo la formazione di concentrazioni esorbitanti di potere economico e impedendo che esse possano condizionare la competizione economica ostacolando l’accesso al mercato di nuove imprese. Assoggettare alla disciplina della concorrenza tutti i mercati in cui si producono beni e servizi, indipendentemente dalla natura, pubblica o privata, delle imprese che vi operano, significa sottoporre al criterio dell’efficienza economica anche quel particolare e delicatissimo mercato in cui si trattano i diritti di proprietà. Nello spazio economico europeo non possono e non devono esistere eccezioni a questa regola fondamentale. Le imperfezioni e le difficoltà che ancora incontra la sua applicazione devono essere tenacemente contrastate. O si procede verso il completamento del mercato unico o si torna indietro, come recenti vicende hanno evidenziato, all’età dei nazionalismi: tertium non datur.

In secondo luogo, vi è la regola della stabilità monetaria, che ha il compito di impedire che il meccanismo dei prezzi sia manipolato con l’attribuzione di funzioni redistributive che gli sono estranee in radice e sia piegato a occultare le condizioni reali del sistema economico. La principale implicazione della stabilità monetaria è l’impegno a perseguire il pareggio del bilancio statale. Per paesi, come il nostro, abituati a usare la politica monetaria come sostituto dell’efficienza produttiva, la rinuncia a questa leva è particolarmente dura e costosa. Anche qui, non vi sono alternative. La stabilità della moneta europea potrà un giorno perdere il crisma del dogma e tornare a essere l’oggetto di scelte politiche. Oggi, in assenza di un vero e proprio governo politico europeo e nella difficile transizione verso un mercato unico degno di questo nome, rinunciarvi, anche solo provvisoriamente e limitatamente, significherebbe infliggere un colpo mortale al processo di unificazione europea.

Si tratta di regole severe, che sottopongono le imprese e i governi a una disciplina stringente, togliendo spazio all’intervento politico nell’economia e riducendo le occasioni di collusione fra potere politico e potere economico da cui trae origine e su cui prospera il regime delle rendite (rent seeking).

Si tratta di regole particolarmente severe per un paese come l’Italia, la cui economia ha sempre cercato, per la gran parte, seppure con notevoli eccezioni, di sottrarsi al duro confronto della competizione sul mercato, sia all’interno che all’esterno. Da sempre, sospinte da una cronica carenza di capitali, le imprese hanno cercato il sostegno e la protezione dello Stato, spesso ottenendolo. Ne è sorto un intreccio fra politica ed economia, per lunghi anni cementato dalla presenza di un settore bancario pressoché interamente pubblico, che ha costituito una peculiarità del capitalismo italiano e che è all’origine di una parte rilevante dei problemi che oggi l’economia italiana incontra nella competizione globale.

Abbiamo vissuto un quinquennio sotto la guida di un governo e di una coalizione politica che dello scempio delle regole ha fatto una delle proprie, se non la principale, ragione di vita, dando espressione a quella parte, certo non trascurabile, del mondo economico e sociale del nostro paese che è da sempre protesa a coprire le proprie debolezze, la propria incapacità e, talora, il proprio rifiuto di competere, dietro la richiesta di una sospensione delle regole del gioco e che non di rado appare primariamente impegnata nell’aggiramento di quelle regole che non riesce a far sospendere o attenuare.

Il rispetto delle regole è quasi sempre stato, in Italia, il risultato di un vincolo posto dall’esterno. Si pensi al ruolo esercitato negli anni sessanta e settanta dal Fondo Monetario Internazionale. Negli ultimi decenni è stata l’Europa il soggetto che ha dettato regole e ha imposto di rispettarle. Quando, sotto la pressione dell’unificazione europea, ci si è resi conto che l’economia andava sottratta, in misura sostanziale, agli arbitri della politica e sottoposta a regole oggettive, fissate una volta per tutte e non contrattabili, e che la loro tutela richiedeva la presenza di organismi indipendenti dal potere politico e governativo, si è dato vita a una stagione di innovazioni istituzionali che hanno portato alla nascita delle cosiddette Autorità amministrative indipendenti. Ma, anche perché i poteri non erano spesso chiaramente definiti – si pensi alle banche e al ruolo ufficiale della Banca d’Italia e ufficioso dell’ ABI – gli antichi vizi non sono stati cancellati. Sotto il nome, apparentemente nobile, di primato della politica, che è stato inteso da taluni come primato dei politici al potere, è risorta la mai sopita ambizione di rendere le regole aggirabili, trattabili, in una ragnatela di interessi collusi, del tutto insensibili ai criteri del merito e dell’efficienza. L’indipendenza delle autorità di regolazione e di controllo si è rivelata un piatto indigeribile per la maggioranza – ma a volte anche di lobbies trasversali – e, in primo luogo, ovviamente, per il governo. Non potendo agire dal lato delle norme che ne fissavano la natura e le competenze, si è agito sul versante delle nomine, al fine di garantire l’omogeneità delle Autorità di controllo con gli assetti del potere politico.

La stagione delle autorità indipendenti, ovvero di un mondo economico affidato a regole oggettive e alla tutela di organismi indipendenti, in assenza di penetranti interventi, rischia di avviarsi verso un lento tramonto insieme con la speranza di vedere finalmente ridimensionato il potere di lobby, corporazioni, monopoli, che continuano a succhiare rendite dalla linfa del sistema economico, erodendone la competitività e condannandolo al declino. In assenza di una decisa svolta, che rompa commistioni tra interessi economici e poteri politici, sarebbe inevitabilmente così, con buona pace di coloro che esaltano il mercato, ma che dimenticano o fingono di dimenticare che non esiste mercato senza regole o nel quale alle regole del gioco si preferisce il gioco delle regole.

E’ su una decisa svolta in favore delle regole – regole che non cadano dall’alto ma che siano percepite dalla collettività come garanzia per tutti – che oggi possono realizzarsi alleanze o convergenze importanti.

Lapo Berti

Schede e storico autori