Le politiche migratorie in Gran Bretagna e Stati Uniti: linee di tendenza e insegnamenti della storia

Rama Dasi Mariani, prendendo spunto dalla bozza del governo inglese sulle misure post-Brexit, si occupa di politiche migratorie, con lo sguardo rivolto non solo al presente ma anche al futuro e al passato. Mariani riflette sugli effetti economici dello spostamento delle persone tra i paesi, analizzando le complessità dei mercati e dei loro meccanismi di aggiustamento. Dopo aver esaminato tre diverse esperienze di politiche di controllo dei flussi, Mariani giunge alla conclusione che la storia non si ripete quasi mai.

Post-Brexit: l’immigrazione che sarà.  Dopo la ratifica dell’uscita dall’Unione Europea, avvenuta il 31 gennaio 2020, a tre anni e mezzo di distanza dal Referendum popolare, il governo del Regno Unito sta ripensando le politiche migratorie da applicare ai cittadini stranieri, europei compresi.

Il punto di partenza è il vecchio points-based system, ossia un sistema di regole che attribuisce ad ogni lavoratore un punteggio in base al livello di qualifica. A coloro che raggiungono o superano la soglia dei 50 punti è concesso l’ingresso. In particolare, il migrante che fa richiesta di permesso di soggiorno a scopo lavorativo deve possedere, come requisiti minimi, una certificazione di conoscenza della lingua inglese (livello A della classificazione europea) e un contratto di importo superiore a 25.600 sterline annue. A questa regola fanno eccezione i lavoratori che possiedono un titolo di dottorato o che possono coprire le occupazioni incluse nella Shortage Occupation List (SOL), cioè architetti, ingegneri, biologi, fisici, programmatori, data scientists, ballerini (solo di danza classica e contemporanea) e chef (solo se altamente qualificati), nonché addetti alle varie professioni sanitarie, la cui offerta nativa è storicamente bassa.

Nell’ articolo da cui prendono spunto le presenti riflessioni, The Economist presenta l’esempio di un lavoratore straniero che possiede la necessaria certificazione d’inglese ma il suo contratto di lavoro è di sole 21.000 sterline. Egli totalizzerebbe meno di 50 punti. Se, però, la sua professione rientrasse nella SOL, allora arriverebbe a 70 punti. Il sistema, ancora in fase di bozza, rischia di diventare burocraticamente complesso, ma non è questo l’unico problema.

L’Institute for Public Policy Research (IPPR), un think tank inglese espressamente schierato a sinistra, ha manifestato preoccupazioni per i lavoratori europei già presenti sul territorio che non riusciranno a soddisfare i requisiti standard del nuovo testo normativo; è questo il caso dell’85% dei cittadini UE occupati nel settore dell’accoglienza e della ristorazione. L’istituto, al contrario del governo, non crede che la scarsità di manodopera straniera sarà compensata da quella nativa.

Stesso allarme è stato espresso, inoltre, per una riorganizzazione della produzione come conseguenza della nuova composizione dell’immigrazione. In altre parole, facendo una diversa selezione della forza lavoro straniera si modifica la composizione dell’offerta e si inducono meccanismi di aggiustamento dal lato della domanda. Ad esempio, sempre l’IPPR, ritiene che l’agricoltura verrà seriamente danneggiata a beneficio di settori tecnologicamente più avanzati, quelli dove viene impiegata la nuova forza lavoro qualificata.

Inoltre, possono verificarsi degli aggiustamenti anche tra le imprese all’interno dello stesso settore. Infatti, il salario medio del settore manifatturiero nel nord e nella zona del Midland è inferiore alla soglia delle 25.600 sterline, mentre nel sud è superiore. Pertanto, disponendo di un’offerta di lavoro più ampia, al sud sarà più semplice espandere la produzione. Ecco perché le imprese, in questa fase preliminare, stanno facendo lobbying per aumentare le professioni incluse nella lista e non rimanere escluse dai benefici dell’immigrazione.

Tuttavia, viene da chiedersi perché contingentare i flussi di lavoratori se le imprese si stanno già facendo concorrenza al fine di assicurarsene una parte? Tra le motivazioni economiche che avanza il governo c’è quella della produttività. Il Migratory Advisory Commettee (MAC) stima che le nuove politiche migratorie, limitando soltanto gli ingressi solamente dei lavoratori poco qualificati, porteranno ad una riduzione del PIL aggregato; allo stesso tempo, però, indurranno un aumento del PIL pro capite. In altre parole, si ridurrà la torta, ma questa sarà divisa tra un numero proporzionalmente minore di commensali. Una forza lavoro più qualificata, infatti, dovrebbe assicurare una produttività media maggiore.

Quanto di tutto ciò sarà realizzato dipenderà dal processo democratico, dalle diverse forze elettorali e dal loro grado di avversione alle sperequazioni.

L’immigrazione durante l’amministrazione Trump. Considerazioni simili a quelle appena fatte possono essere estese anche all’attuale situazione statunitense, così come fa The Economist in un altro articolo sul tema. I dati relativi al 2019 dicono che l’immigrazione di lavoratori poco qualificati si è ridotta rispetto agli anni precedenti, che il tasso di disoccupazione è a livelli eccezionalmente bassi (3,6%) e che i salari dei lavoratori senza un titolo di istruzione secondaria sono aumentati del 10%.

Tutto questo non è indipendente dalle politiche di salario minimo adottate da alcuni Stati americani, ma la letteratura sugli effetti economici dell’immigrazione può aiutare a chiarire alcune questioni.

Uno dei lavori più noti è quello di Ottaviano e Peri pubblicato nel 2012 (“Rethinking the effect of immigration on wages” in Journal of the European Economic Association), nel quale i due ricercatori spiegano perché l’aumento della forza lavoro straniera tra il 1960 e il 2006 non ha generato negli Stati Uniti una riduzione del salario medio dei lavoratori nativi nello stesso periodo: nativi e immigrati non sarebbero perfettamente sostituibili sul mercato del lavoro, così come non lo sono lavoratori con qualifiche diverse. Infatti, principalmente a causa della barriera linguistica, i lavoratori stranieri tendono a specializzarsi in occupazioni manuali, mentre i nativi si orientano verso occupazioni caratterizzate da mansioni più complesse, come quelle interattive che sfruttano la conoscenza linguistica e delle norme socio-culturali. Questo fa sì che i nativi non soffrano la concorrenza straniera. Anzi, dal momento che esiste una complementarietà tra le diverse mansioni all’interno del processo produttivo, una crescita della forza lavoro straniera porta ad un aumento della domanda di lavoratori nativi e del loro salario.

Ma allora perché i salari dei lavoratori poco qualificati sono aumentati se l’immigrazione si è ridotta? Va detto, innanzitutto, che le ipotesi di Ottaviano e Peri sono verificate se la scala produttiva cresce (diminuisce) proporzionalmente all’aumento (riduzione) dell’immigrazione, in modo da mantenere l’equilibrio tra domanda e offerta di lavoro. Questo avviene nel lungo periodo e soprattutto nei settori che producono beni commerciabili internazionalmente, ossia quelli caratterizzati da una maggiore concorrenza. Al contrario, come fa notare Gordon Hanson dell’Università di Harvard, la diminuzione dei lavoratori immigrati ha riguardato soprattutto i settori dei servizi alle famiglie e delle costruzioni; settori nei quali, almeno nel breve periodo, l’aggiustamento avviene attraverso i salari.

Questo riflette anche le disparità territoriali che da sempre sono associate ai flussi migratori. I nuovi lavoratori tendono a risiedere nelle grandi città, dove il settore dei servizi è più sviluppato di quello manifatturiero, e il calo dell’immigrazione ha di fatti riguardato principalmente i centri urbani.

Uno sguardo al passato: l’immigrazione in Usa nell’800.  Può essere interessante, in margine a queste riflessioni, ricordare una delle prime esperienze statunitensi di chiusura delle frontiere. Nel 1882 il Chinese Exclusion Act limitò l’ingresso nel mercato americano solamente ai lavoratori provenienti dalla Cina. La misura fu confermata ed estesa negli anni con successivi provvedimenti. La motivazione era principalmente politica. Infatti, si voleva andare incontro ai sentimenti razzisti che si erano diffusi durante il precedente periodo di recessione. Allo stesso tempo i salari dei lavoratori nativi subirono una riduzione.

Secondo una recente analisi (Abramitzky et al., “The Effects of Immigration on the Economy: Lessons from the 1920s Border Closure”, NBER Working Paper 2019) questo risultato fu dovuto a diversi meccanismi. Nelle grandi città la diminuzione dei lavoratori asiatici fu completamente compensata dall’aumento dei lavoratori provenienti da Paesi non soggetti a quote, principalmente Canada e Messico.  Essendo relativamente più qualificati dei lavoratori cinesi e, dunque, più simili ai lavoratori nativi, questi ultimi esercitarono una maggiore concorrenza sul mercato del lavoro che portò alla riduzione dei salari. Nelle aree rurali, invece, la mancanza di manodopera spinse i proprietari terrieri ad investire in tecnologie a più alta intensità di capitale, scoraggiando lo spostamento dei lavoratori americani al di fuori dalle città.

Nel tentare una sintesi, dunque, si può dire che gli effetti dell’immigrazione e i meccanismi di aggiustamento dei mercati sono molteplici e difficili da prevedere a priori. Il compito di fare pronostici diventa predominante, però, se le scelte dei governi sono guidate da ragioni economiche e non politiche. Tuttavia, quasi mai è questo il caso.

Schede e storico autori