Le politiche anticrisi di UE e Stati Uniti: differenze e probabili impatti futuri

Mattia De Crescenzo e Bianca Giannini descrivono e quantificano le grandi aree di policy in cui si sono concentrati gli interventi economici di contrasto della crisi pandemica dei Paesi europei e degli Stati Uniti mettendo in evidenza le numerose similitudini ma anche la principale differenza che riguarda il diverso approccio alla tutela dei lavoratori. De Crescenzo e Giannini discutono brevemente la filosofia di fondo dei due approcci illustrandone i rispettivi aspetti positivi e limiti e sottolineano che i loro effetti sulla ripresa sono ancora da vedere.

 

La pandemia non ha cambiato solo il nostro modo di vivere, di lavorare, di rapportarci con gli altri, ma ha modificato anche i rapporti tra Stato ed economia. La crisi pandemica ha imposto uno sforzo notevole ai governi di tutti i paesi per provare ad arginare l’impatto economico delle necessarie misure di contenimento.

È interessante dunque descrivere, a grandi linee, le analogie e le differenze nelle strategie di intervento dei vari governi. Generalmente le politiche anticrisi si sono concentrate, oltre che sul rafforzamento dei sistemi sanitari, sul sostegno, dal lato della domanda, al reddito delle famiglie, con posticipo dei pagamenti delle rate del mutuo e degli oneri fiscali, e sostegni all’occupazione con schemi di lavoro a orario ridotto; dal lato dell’offerta, sul supporto alla liquidità delle imprese – tramite dilazione dei termini di pagamento degli oneri fiscali e delle rate dei prestiti oppure tramite prestiti a tasso agevolato con garanzie statali e persino trasferimenti a fondo perduto e interventi pubblici nel capitale delle aziende. Uno dei dati fondamentali è che tali politiche sono state finanziate in deficit, di fatto riconoscendo la necessità di ricorrere al debito pubblico per mitigare, per quanto possibile, la crisi economica e sostenere la ripresa. L’espansione di bilancio è, però, di dimensioni diverse nei vari Paesi e non necessariamente correlata all’intensità con cui in essi si è manifestata la pandemia. Le differenze nell’entità delle misure adottate, nella tipologia delle stesse e nei tempi di implementazione, rispetto all’intensità della crisi, comportano una diversa capacità e rapidità di uscita dalla crisi stessa, con ovvie ripercussioni sui livelli di crescita, che anche per questo tenderanno a divergere (a riguardo si veda Carapella et al.).

In linea di massima, seguendo il dataset elaborato da Bruegel, le diverse misure nazionali si possono suddividere in tre macrocategorie: stimolo fiscale immediato, differimento di imposte e ulteriori misure di supporto alla liquidità. Dalla tabella sottostante si evince quanto sia stato importante l’impulso fiscale di Germania, Stati Uniti e Regno Unito, oltre l’8% del PIL, mentre in Italia sono risultate relativamente più importanti le misure di differimento delle imposte e di aiuto alla liquidità delle imprese.

La risposta dei principali Paesi europei nelle primissime fasi emergenziali si è dunque articolata in modo omogeneo secondo le linee di intervento summenzionate lasciando gradualmente spazio a misure per la ripresa anche in chiave verde e digitale. L’esecutivo tedesco, ad esempio, ha varato nella prima metà dell’anno due manovre in deficit, in deroga al principio costituzionale dello schwarze null che impone all’indebitamento il tetto dello 0,35% del PIL. L’intervento si è caratterizzato per un’ampia possibilità di ricorso a schemi di lavoro a orario ridotto e di supporto del reddito dei cittadini. Non sono mancate misure a favore del sistema sanitario e a sostegno della liquidità delle imprese con prestiti illimitati da parte della banca di sviluppo pubblica KfW (Kreditanstalt für Wiederaufbau) e interventi nel capitale delle aziende, sfruttando il nuovo quadro temporaneo europeo sugli aiuti di Stato. L’azione del Governo è proseguita a giugno attraverso misure di politica fiscale non convenzionali – tra cui la riduzione temporanea delle aliquote IVA – e anche con i primi investimenti e incentivi (soprattutto verdi) per la ripartenza. L’intenzione di proseguire con una politica fiscale espansiva senza precedenti è stata confermata dal governo federale con il varo della manovra autunnale che prevede un indebitamento complessivo di circa 96 miliardi nel 2021 per la ripresa.

Anche il Governo francese non si è discostato da queste direttrici. Sul fronte occupazione e politiche sociali, i principali interventi hanno riguardato incentivi al lavoro da casa, sostegno al reddito dei lavoratori con figli oltre all’estensione dei sussidi di disoccupazione accompagnati dal rafforzamento dei controlli sul licenziamento economico. L’azione a sostegno delle imprese si è focalizzata sull’estensione degli schemi di lavoro ad orario ridotto e della relativa integrazione al salario, con lo strumento dello “chomage partiel” (un equivalente della cassa integrazione). L’esecutivo francese non ha esitato a concedere proroghe sui pagamenti di contributi e imposte e, in alcuni casi, di canoni di locazione e bollette. Le imprese hanno potuto beneficiare, inoltre, di garanzie statali per l’accesso al credito, dell’estensione della “Cap Francexport” – lo schema di riassicurazione pubblico per l’export -, e in alcuni casi dell’aumento della quota di proprietà statale.

In Spagna, in marzo, il Governo ha mobilitato circa 200 miliardi, di cui più della metà pubblici, con l’obiettivo di proteggere il tessuto produttivo e dare sostegno alle fasce più vulnerabili colpite dalla pandemia. Le misure per il lavoro hanno, anche in questo caso, privilegiato la riduzione dell’orario di lavoro attraverso gli Expedientes Temporales de Regulación de Empleo (ERTES), come misura contro il licenziamento dei lavoratori. Con riguardo alle imprese, l’attenzione principale è stata rivolta alla liquidità con uno stanziamento ingente per le garanzie pubbliche. Sono state riformate le normative sugli investimenti esteri per impedire alle società di paesi al di fuori dell’Unione europea di assumere il controllo delle entità spagnole in settori strategici, sfruttando il calo congiunturale del valore delle loro azioni. Le rimanenti risorse sono state destinate a interventi per le famiglie, con particolare attenzione all’assistenza domiciliare per anziani e familiari a carico, al diritto alla casa. Nei mesi successivi l’esecutivo ha posto l’attenzione sulle esigenze dei livelli inferiori di governo con la creazione di un fondo destinato alle regioni per la gestione della pandemia e con il rilassamento dei vincoli di finanza pubblica per i comuni. A partire dall’estate, anche in Spagna le misure emergenziali hanno iniziato a lasciare il passo alle prime iniziative in un’ottica di ripresa, con particolare attenzione alla catena del valore nell’industria automobilistica, alla mobilità sostenibile e all’adattamento al cambiamento tecnologico nell’industria.

Giova qui ricordare che molte delle suddette misure di sostegno all’occupazione saranno finanziate – nei Paesi europei che ne hanno fatto richiesta, tra cui Spagna e Italia -attraverso l’apposito strumento europeo SURE (Support mitigating Unemployment Risks in Emergencygià oggetto di un precedente articolo. 

Da quanto fin qui descritto, emerge come i Paesi europei abbiano seguito linee comuni di risposta alla crisi. Può, quindi, essere interessante confrontare i diversi approcci a tutela dell’economia e della domanda aggregata seguiti in Europa e negli Stati Uniti. Il Governo federale ha adottato in marzo il Coronavirus Aid, Relief, and Economic Security Act (CARES Act), un pacchetto emergenziale di 2,3 trilioni di dollari (pari all’11% del PIL), il più ampio della storia americana. Di questi, 290 miliardi sono stati destinati ad assegni da $1.200 per adulto (fino a $75.000 di reddito), con $500 aggiuntivi per i bambini, e circa 260 miliardi volti a estendere durata, generosità e platea del sistema di assicurazione in caso di disoccupazione (Unemployment Insurance, UI), per sostenere la capacità di spesa delle famiglie anche in caso uno o più componenti abbiano perso il lavoro a causa della crisi. I restanti vanno a finanziare per lo più misure di sostegno alle imprese molto simili a quelle attuate in Europa, con circa 860 miliardi tra prestiti, garanzie e sovvenzioni. 

Proprio sulle misure di tutela dei lavoratori si possono cogliere le maggiori differenze negli interventi anti-crisi (come sottolineato, tra gli altri, da De Arcangelis-Franzini e Labartino-Mazzolari). In maniera esemplificativa, si può mettere a confronto il CARES Act con il programma SURE della Commissione europea che fornisce complessivamente prestiti fino a 100 miliardi a condizioni agevolate agli Stati membri per finanziare i maggiori oneri fiscali per le misure a sostegno dell’occupazione, quali il potenziamento di programmi di integrazione salariale in caso di riduzione degli orari di lavoro, come la Cassa Integrazione Guadagni in Italia.

Tali misure si differenziano innanzitutto per la filosofia di fondo, la quale a sua volta è spiegata dalle diverse dinamiche dei mercati del lavoro statunitense ed europeo e dalle diverse legislazioni a tutela del lavoratore. La risposta degli Stati Uniti pare fondarsi sul presupposto che la disoccupazione sia destinata ad aumentare. Al contrario, gli sforzi dell’Unione europea si concentrano sull’obiettivo di scongiurare aumenti eccessivi della disoccupazione, per favorire una ripartenza più rapida dell’economia una volta terminato il lockdown. Lo sforzo europeo per preservare posti di lavoro, appare, infatti, come una strategia efficiente in una fase transitoria di sospensione forzata delle attività lavorative. Evitando gli esuberi, infatti, si preservano anche la capacità produttiva e il capitale umano delle imprese e dell’economia nel suo complesso, rendendo il sistema più pronto a cogliere i primi segnali di ripartenza. Ulteriori analisi OCSEgiudizi di economisti quali Pissarides evidenziano la bontà degli schemi di lavoro a orario ridotto nell’appiattire la curva di disoccupazione durante le crisi e l’importanza della loro estensione anche ai lavoratori a tempo determinato o part-time. Questo vale soprattutto se la crisi deriva da fattori esogeni all’economia, come in questo caso, e non necessita di un’importante riallocazione di lavoratori tra settori produttivi, che potrebbe essere incentivata da misure di assicurazione sulla disoccupazione in stile statunitense. Tuttavia, una maggiore enfasi dal lato dell’offerta sulla protezione dei lavoratori rispetto alla riallocazione dovrà misurarsi con i possibili mutamenti strutturali dal lato della domanda (su questo aspetto rimandiamo all’approfondita analisi di De Arcangelis e Franzini).

Se non vi è dubbio che a fronte di una crisi finanziaria come quella del 2009 un’economia più flessibile, come quella degli Stati Uniti è stata in grado di reagire efficacemente, a fronte di una pandemia le dinamiche sembrerebbero diverse. Le misure di confinamento rendono meno efficace una strategia basata sui licenziamenti e sul rapido riassorbimento dei lavoratori. Infatti, le chiusure non sono strettamente legate all’andamento dei consumi e dell’economia, bensì all’evoluzione dei dati epidemiologici, in cui gioca anche un ruolo cruciale il sistema sanitario e quindi misure di welfare e politiche tese a preservare l’occupazione potrebbero rivelarsi la strategia vincente. Le misure europee sembrano dunque più coerenti con questo scenario di crisi economico-sanitaria e sembrerebbero essersi rivelate più efficaci nel contenere, nel breve periodo, gli impatti sociali della pandemia: resterà da vedere quale approccio permetterà una ripresa più rapida e duratura.

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