Le pensioni nello Stato costituzionale

Stefano Giubboni esamina la recente sentenza della Corte costituzionale sull’illegittimità del blocco della perequazione automatica delle pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS. Giubboni espone le ragioni per le quali ritiene che la sentenza della Corte sia sostanzialmente coerente nelle motivazioni e giusta nelle conclusioni, oltre che in linea di continuità con la pregressa giurisprudenza. In particolare, Giubboni sostiene che una diversa tecnica decisoria avrebbe spinto la Corte sul terreno delle scelte politiche riservate al legislatore.

L’accesa polemica sulla sentenza n. 70 del 2015 della Corte costituzionale, che ha come noto dichiarato l’illegittimità del blocco integrale della perequazione automatica delle pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS nel biennio 2012-2013, come disposto dall’art. 24, comma 25, del decreto-legge n. 101 del 2011 (cd. «Salva Italia»), non può essere evidentemente spiegata solo in considerazione del notevole impatto sui già precari equilibri di finanza pubblica e della connessa, ovvia rilevanza politica e sociale della questione affrontata. Il dibattito suscitato dalla sentenza riveste, infatti, una valenza e una portata più ampia e generale, che potremmo dire di sistema, nella misura in cui investe questioni di cruciale rilevanza costituzionale che attengono, in pari tempo, al rapporto tra garanzia dei diritti fondamentali cd. costosi, quali sono tipicamente quelli connessi al rapporto previdenziale, e vincoli di bilancio, da un lato, ed alla dialettica tra discrezionalità politico-legislativa e ambiti di incidenza del controllo di costituzionalità affidato al giudice delle leggi, dall’altro. Si tratta peraltro di profili tra di loro strettamente intrecciati, sui quali non a caso si è appuntato – con toni talvolta inusitatamente polemici – il dibattito svoltosi sulla sentenza in particolare tra i costituzionalisti.

Da tale prospettiva di sistema, l’importanza della sentenza della Corte va colta essenzialmente nel fatto che essa riafferma con forza lo statuto costituzionale, con le connesse garanzie, dei diritti sociali di prestazione, ancorandolo ai principi di eguaglianza sostanziale e solidarietà (artt. 2 e 3, comma 2, Cost.), contro la tendenza ad assegnare, negli esercizi di bilanciamento, una sorta di pregiudiziale prevalenza gerarchica al principio dell’equilibrio di bilancio, che pure è stato certamente rafforzato dalla recente riforma dell’art. 81 Cost. Non a caso i critici di tale decisione ne sottolineano la incompatibilità con il percorso argomentativo che ha sorretto la non meno discussa sentenza n. 10 del 2015 sulla cd. «Robin Tax», nella quale il principio dell’equilibrio di bilancio, inteso rigorosamente come tendenziale pareggio strutturale tra entrate e spese dello Stato, ha addirittura indotto la Corte a derogare alla regola processuale della efficacia naturalmente retroattiva della pronuncia di incostituzionalità della legge, con conseguente integrale sacrificio, quantomeno per il pregresso, dei diritti patrimoniali dei contribuenti assoggettati alla imposta dichiarata illegittima, in quel caso per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost. Sennonché quella sentenza aveva discutibilmente finito per assolutizzare tale principio, pur rafforzato dalla novella dell’art. 81 Cost., accogliendo – come ha osservato Roberto Bin – «una visione organistica dello Stato», nella quale l’equilibrio di bilancio è estrapolato «dalle norme che presidiano il processo legislativo ed elevato ad un principio fondamentale che s’impone sempre e comunque come limite ai diritti fondamentali, anche senza l’interposizione del legislatore».  Ma questa visione, come ricorda ancora Bin, dimentica che i diritti fondamentali – anche quelli sociali di prestazione – non sorgono direttamente limitati dalle esigenze finanziarie se non per effetto delle scelte compiute dal legislatore, cui è affidato il compito di operare le opportune graduazioni imposte dalla limitatezza delle risorse disponibili. Assumere invece il principio del pareggio di bilancio come vincolo a priori che l’art. 81 impone direttamente al giudice costituzionale, consentendogli di modulare gli effetti temporali delle proprie pronunce in deroga all’art. 136 Cost., implica un sostanziale affievolimento della garanzia dei diritti fondamentali e – a ben vedere – una sorta di retrocessione allo status di meri diritti legali o legislativi in particolare dei diritti cd. costosi di natura previdenziale.

Sta dunque in ciò l’importanza della sentenza n. 70 del 2015: nella riaffermazione dello statuto costituzionale dei diritti sociali – proprio in forza della loro rilevanza abilitante allo svolgimento di una esistenza libera e dignitosa (art. 36, comma 1, Cost., qui in collegamento diretto con il primo comma dell’art. 3, prima ancora che con il principio di eguaglianza sostanziale di cui al comma 2) –, contro la strisciante tendenza ad una loro de-costituzionalizzazione. Ciò non significa – come pure è stato erroneamente argomentato dai molti detrattori della sentenza – che la Corte abbia ignorato il vincolo dell’art. 81 Cost., peraltro espressamente richiamato in un importante passaggio finale della motivazione. La Corte ha piuttosto ricollocato il principio dell’equilibrio di bilancio nella giusta prospettiva di un bilanciamento con i valori protetti dagli artt. 3, 36 e 38 Cost., i quali esigono che nelle scelte di graduazione della tutela previdenziale il legislatore non possa mai sottrarsi al rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, a maggior ragione quando è costretto a misure restrittive imposte da eccezionali contingenze economiche e finanziarie. Neppure in tali circostanze i diritti pensionistici possono uscire dal cono di luce dei principi costituzionali fondamentali, per essere abbandonati a scelte politiche che, in nome dell’emergenza finanziaria, pretendano appunto una sorta di immunità, quasi di sospensione del controllo sostanziale di legalità costituzionale.

Né evidentemente questo comporta – come pure è stato sostenuto – una indebita intrusione della Corte nella sfera riservata alle libere scelte redistributive del legislatore. La Corte non si intrude, in effetti, nel merito di quelle scelte, limitandosi ad esigere – nel rispetto dei principi iscritti negli artt. 3, 36 e 38 Cost. – che esse si conformino a criteri di ragionevolezza e proporzionalità nella modulazione della garanzia dei diritti previdenziali nel tempo e nel connesso contemperamento con le esigenze di consolidamento delle finanze pubbliche. Per questo appare corretta anche la scelta di una declatoria piena di illegittimità costituzionale del blocco della perequazione automatica, come previsto dalla norma di legge censurata, in luogo della opzione per una sentenza cd. additiva di principio, pur autorevolmente suggerita da Sabino Cassese. Una siffatta tecnica decisoria avrebbe infatti spinto la Corte dentro quel terreno di concreta graduazione della proporzionalità del meccanismo perequativo, che deve essere invece propriamente riservato alle scelte politiche del legislatore. La Corte si è correttamente limitata a indicare nella motivazione della sentenza, prelevandoli dalle stesse previsioni di legge via via succedutesi in materia, possibili modelli di graduazione della perequazione dei trattamenti pensionistici compatibili con i parametri costituzionali violati invece dall’art. 24, comma 25, del decreto «Salva Italia». Ed il Governo, con il decreto-legge n. 65 del 2015, si è espressamente rifatto a tali indicazioni della Corte, esercitando così la propria discrezionalità per rimodulare il meccanismo perequativo anche per il biennio di blocco dichiarato illegittimo dalla sentenza (ancorché con un congegno che non pare pienamente in linea con le indicazioni del giudice costituzionale, in particolare sotto il profilo della adeguatezza/proporzionalità ex art. 38, comma 2, Cost., visto che la perequazione opera, nuovamente, non con riferimento alle fasce di importo dei trattamenti pensionistici, bensì al loro complessivo ammontare).

Nel riaffermare la valenza sostantiva dei principi costituzionali relativi alla garanzia della adeguatezza/proporzionalità nel tempo dei trattamenti pensionistici (quale «espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost.»), la sentenza n. 70 si pone, del resto, in linea di continuità con la pregressa giurisprudenza della Corte in materia. Sicché, anche sotto questo profilo, non sembrano convincenti le critiche di quanti invece hanno ravvisato, sia nel percorso argomentativo sviluppato che nelle conclusioni cui la Corte è pervenuta, una cesura con la giurisprudenza stratificatasi, in particolare, in tema di meccanismi di adeguamento del valore delle pensioni ai mutamenti del costo della vita. La Corte si è in realtà dimostrata conseguente al monito – rimasto inascoltato – dalla stessa rivolto al legislatore con la precedente sentenza n. 316 del 2010, avente ad oggetto un meccanismo di parziale de-indicizzazione dei trattamenti pensionistici modulato in termini ben più graduali di quelli introdotti dalla legge n. 214 del 2011 e proprio per questo apparsi, in quell’occasione, coerenti con i parametri costituzionali.

Sotto tale profilo si potrebbe semmai rimproverare alla Corte di essere stata sin troppo prudente, e se si vuole conservatrice, in una linea di fedeltà finanche eccessiva alla propria ricostruzione giurisprudenziale dell’assetto costituzionale del sistema pensionistico, nella interpretazione del combinato disposto degli artt. 36, comma 1, e 38, comma 2, Cost. in collegamento con i principi di solidarietà ed eguaglianza sostanziale. È in tal senso discutibile, ad esempio, la tralatizia qualificazione – che la Corte preleva, senza un adeguato vaglio critico-sistematico, dalla propria giurisprudenza, pur anche recente, sui trattamenti di quiescenza del pubblico impiego – della pensione come forma di retribuzione differita, come tale ricadente direttamente nel raggio applicativo del primo comma dell’art. 36 Cost. in tema di proporzionalità. Si può obiettare, con la migliore dottrina previdenzialistica, che il parametro costituzionale pertinente è qui offerto dal solo secondo comma dell’art. 38 Cost., che certamente incorpora, nel canone della adeguatezza, un elemento di correlazione proporzionale della prestazione previdenziale ai trattamenti retributivi già goduti, il quale, tuttavia, non può attingere lo stesso grado di intensità della proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro svolto, che è richiesta – ma sul diverso piano del rapporto contrattuale – dall’art. 36. Sennonché tale richiamo alla vecchia categorizzazione delle prestazioni pensionistiche, certamente superata da tutta la più recente evoluzione dell’ordinamento, non inficia le conclusioni cui a nostro avviso correttamente perviene la Corte, ed alle quali la stessa sarebbe potuta comunque giungere anche facendo applicazione dei soli artt. 3 e 38, comma 2, Cost.

Per questo la sentenza n. 70 resta sostanzialmente coerente nelle motivazioni e giusta nelle conclusioni. Ma rimane da vedere – e solo il tempo ce lo potrà dire – se questa impostazione riuscirà a prevalere su quegli orientamenti, pure affermati come visto dalla più recente giurisprudenza della Corte, che, nelle ipotesi di bilanciamento con i diritti cd. costosi, assegnano un valore senz’altro prevalente e condizionante al principio dell’equilibrio di bilancio, anche in forza degli impegni assunti dalla Repubblica italiana in sede europea.

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