Le pari opportunità di genere: una prospettiva ‘orizzontale’

Francesca Subioli, in relazione all’obiettivo della parità di condizioni competitive tra i generi presente nelle linee guida del Piano di Ripresa e Resilienza dell’Italia e ribadito da Draghi nel suo discorso al Senato, propone una riflessione sul significato delle pari opportunità di genere e sugli strumenti per conseguirla. L’autrice suggerisce di adottare una prospettiva “orizzontale” della questione di genere e di agire sinergicamente su welfare e mercato del lavoro per promuovere la conciliazione tra vita pubblica e privata.

La crescente attenzione del dibattito pubblico e politico per la parità di genere sembra incentrata sull’obiettivo di chiudere il divario uomo-donna in termini di retribuzione e occupazione, e liberare le donne dall’eterna scelta tra lavoro e cura. Tuttavia, come recentemente sottolineato dal neopresidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi nel suo discorso di insediamento al Senato, “Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi. Intendiamo lavorare in questo senso, puntando a un riequilibrio del gap salariale e un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro”.

È certamente condivisibile che la parità di condizioni competitive sia un traguardo ben più meritevole di attenzione rispetto alla mera “parità di genere”, emblematicamente rappresentata dalle quote rosa come esempio di eguaglianza nei risultati, che può anche prescindere dall’eguaglianza di opportunità. La parità di condizioni competitive tra i generi è piuttosto una realtà (per il momento, un progetto) in cui uomini e donne, allo stesso modo, sono nelle condizioni di realizzare ciò che più risponde ai loro desideri, alle loro aspettative, alle loro vocazioni di vita e professionali. “Pari opportunità di genere” è il modo più intuitivo di chiamare questo progetto, ma forse meno intuitiva è la strada per realizzarlo.

Dal dibattito pubblico e politico, infatti, così come dalle parole del Presidente, emerge la necessità di aiutare le donne a raggiungere gli uomini in termini retributivi e occupazionali consentendo loro di superare la scelta tra famiglia e lavoro. Come sottolineato da Francesca Bettio nel suo commento al discorso del Presidente, l’Italia ha in realtà un paradossale vantaggio in termini di gender pay gap: le donne italiane nel 2018 guadagnavano in media il 5% in meno degli uomini per ogni ora di lavoro, a fronte di una media europea del 14,8%. Ciò che pesa nel nostro Paese è piuttosto la scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro, soprattutto nel caso delle donne con bassa istruzione, fenomeno che mantiene alto il salario medio femminile per un mero effetto di composizione. Lo squilibrio di genere delle responsabilità di cura della famiglia, nonché diverse forme di discriminazione nel mercato del lavoro, incidono profondamente sulla scelta delle donne sul se e quanto lavorare. Tuttavia, anche guardare al divario di genere in termini di partecipazione femminile al mercato del lavoro fornisce una visione solo parziale della realtà.

Immaginiamo un contesto ipotetico in cui tutti, uomini e donne, siano perfettamente liberi di scegliere, in assenza di condizionamenti personali e sociali, avendo avuto tutti la possibilità di studiare e formarsi, e in assenza di meccanismi discriminatori e frizioni di qualsiasi genere nel mercato del lavoro. In questo contesto ideale, l’esito finale della distribuzione in base al genere non dovrebbe preoccupare: se il risultato è, per esempio, che ci sono più infermieri uomini che donne, vuol dire che o i maschi sono più bravi a fare gli infermieri e quindi vengono assunti più facilmente (questione di meriti), o i maschi preferiscono fare gli infermieri rispetto ad altre professioni (questione di preferenze), oppure entrambe le cose. Imporre quote di genere, in questo caso, genererebbe ingiustizia e cattiva allocazione delle risorse; ci sarebbe infatti una parte delle donne infermiere insoddisfatta del lavoro perché non rispondente alle proprie preferenze, e/o meno brava nella sua professione di un potenziale collega uomo, e una parte degli uomini tagliati fuori dal lavoro che sanno e che desiderano fare. Passare dalla prospettiva della parità di genere negli esiti lavorativi a quella delle pari opportunità consente di provare ad agire sulle cause e non sugli effetti, ed evitare così di aggiungere ulteriori distorsioni a quelle già presenti. Nel passato la divisione dei compiti – la scissione di genere tra la vita pubblica e quella privata – è stata predominante. Una parte del mondo ha scelto di tentare un’altra strada e fare lo straordinario esperimento di lasciar scegliere liberamente a uomini e donne come contribuire allo sviluppo della società; trattandosi di un esperimento ancora aperto, non c’è ragione di stabilire a priori quale sarà il risultato, che potrebbe anche sorprenderci.

Chiarito che, quindi, l’obiettivo sono le pari opportunità e non i pari esiti, occorre fare una riflessione sugli strumenti. Nel sopracitato discorso di Draghi, la ricerca della parità competitiva tra i generi si traduce per il Governo nell’obiettivo concreto di dotare il paese di un sistema di welfare che permetta alle donne di superare la scelta tra famiglia o lavoro. Si legge nell’ultima bozza del Piano di Ripresa e Resilienza per l’Italia (par. 1.3): “Condizione essenziale per progredire sul piano di una effettiva e sostanziale parità di genere è innalzare l’occupazione femminile […] perseguito prioritariamente attraverso le politiche attive del lavoro e il miglioramento delle infrastrutture sociali, come il potenziamento dei servizi di asili nido e per la prima infanzia, delle scuole per l’infanzia e del tempo scuola.” Credo che il miglioramento del sistema di welfare pubblico, tramite il potenziamento degli strumenti citati nel Piano e dal Presidente, sia di primario interesse e di assoluta necessità, ma non sia sufficiente. Desiderare che le donne possano dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini presuppone che gli uomini siano già liberi dalla scelta tra famiglia e lavoro, e che resti solo da aiutare le donne a “salire” nella scala del benessere, in cui si trovano più in basso perché partite più tardi e spesso ostacolate.

La mia proposta è di provare, invece, a leggere il gender gap in senso orizzontale, senza stabilire gerarchie: immaginiamo di porre agli estremi di una retta orizzontale la vita pubblica e la vita privata e di posizionare i due generi in base alla percentuale del proprio tempo speso per l’una o per l’altra. Al di là di significative differenze interne, in media le donne sarebbero più vicine al polo della vita privata (in cui includiamo il lavoro domestico, la cura dei figli e dei familiari non autosufficienti) e gli uomini a quello della vita pubblica (in cui includiamo il lavoro remunerato, ma anche la partecipazione alle decisioni più rilevanti per la comunità). Colmare il divario in senso verticale significa agire affinché anche le donne si muovano verso il polo della vita pubblica, allontanandosi (necessariamente, perché il tempo a disposizione rimane costante), da quella privata per raggiungere l’attuale posizionamento degli uomini. Tuttavia, interpretando in questo senso l’obiettivo delle pari opportunità di genere staremmo dimenticando un pezzo del nostro esperimento sociale: provare a mettere entrambi i generi nella condizione di scegliere in base alle proprie preferenze. Se decidiamo solo di portare le donne verso la posizione degli uomini, e lasciare che siano Stato e mercato a occuparsi in toto dei servizi di cura, stiamo assumendo che gli uomini si trovino in media a ridosso del polo della vita pubblica per scelta libera da condizionamenti materiali e sociali. Manca, però, lo scenario controfattuale.

Cosa succede se invece proviamo a portare fino in fondo l’esperimento, e decidiamo di considerare la sfida delle pari opportunità di genere non solo come una questione femminile, ma anche come una questione maschile, e quindi come una questione della società intera? Potremmo allora pensare che, come le donne hanno bisogno di una spinta dalla vita privata a quella pubblica, così gli uomini hanno bisogno di un’altra, uguale e contraria, dalla vita pubblica a quella privata; e magari potremmo pensarli insieme in un punto di equilibrio – la famosa conciliazione tra lavoro e vita privata.

Questa prospettiva orizzontale di lettura delle pari opportunità di genere si rifà a un concetto di eguaglianza sostanziale, quella che l’articolo terzo della nostra Costituzione chiama pari dignità sociale, che si sostanzia nel pieno sviluppo della persona umana – uomo o donna che sia – e nell’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Una visione alternativa delle pari opportunità, che sposta il punto focale dall’ascesa delle donne al ricongiungimento dei generi sulla base delle loro reali preferenze, a volte invisibili o persino inconsce perché sopite dalle abitudini e dai condizionamenti sociali. Sogniamo davvero una società dove anche le donne possano finalmente lavorare senza orari e senza tempo per i propri figli e i propri anziani, o desideriamo piuttosto una società dove tutti, uomini e donne, dedichino, ognuno secondo le proprie capacità e i propri desideri, tempo, energie e creatività all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese?

C’è quindi ragione, e anche urgenza, di adoperarsi affinché uomini e donne si avvicinino sempre di più alla vita dignitosa che più di settanta anni fa la Costituzione ha promesso loro, quando ha dato inizio all’esperimento delle pari opportunità. Si tratta di un percorso complesso che merita un posto di primo piano nell’asse strategico dell’inclusione sociale del Piano di Ripresa e Resilienza, e che investe trasversalmente il mercato del lavoro e le politiche di welfare, ma anche il sistema educativo e scolastico. Gli strumenti per raggiungere questo meritevole obiettivo, infatti, non sono “soltanto” – parliamo comunque di riforme e investimenti di grande portata e rilevanza – quelli legati alle politiche di welfare. È soprattutto sul mercato del lavoro che bisogna intervenire, con uno sforzo comune del Parlamento, del Governo, delle parti sociali e di chi conosce da vicino questi temi, per rivedere le regole, gli obiettivi, gli orari, le tutele, affinché il carico di cura non sia semplicemente spostato dalle donne allo Stato, ma condiviso tra le donne, gli uomini e la società intera.

C’è, infine, uno strumento in particolare su cui vorrei spendere qualche parola, perché mi sembra sottovalutato nelle sue potenzialità di facilitare il percorso verso le pari opportunità nella visione orizzontale proposta: il congedo di paternità obbligatorio. Dare ai padri la stessa dignità riservata alle madri tramite un congedo di paternità che sia paragonabile a quello cui hanno diritto le donne (oggi 7 giorni contro 5 mesi in Italia, con passaggio a 10 giorni entro il 2022 previsto dal Family Act) ha un duplice obiettivo: da un lato consentirebbe di restituire spazio alle esigenze di cura nella vita dei neo papà, attualmente tagliati fuori perché impossibilitati a conciliare lavoro e famiglia; dall’altro, l’obbligatorietà del congedo renderebbe uomini e donne molto più “simili” agli occhi dei datori di lavoro al momento dell’assunzione o della decisione di proroga del contratto di lavoro, correggendo almeno in parte le discriminazioni di genere sul lavoro. Da questi due obiettivi si evince chiaramente che la caratteristica dell’obbligatorietà è imprescindibile; strumenti come il congedo “di coppia”, ripartibile tra madre e padre a seconda delle necessità, nasconderebbero nella loro flessibilità il pericolo di non essere efficaci proprio per lo spazio lasciato al perpetuarsi di meccanismi distorsivi consolidati.

In conclusione, la strada maestra per raggiungere le pari opportunità – per uomini e donne – consiste nel combinare specifiche misure di welfare con interventi mirati alla sostenibilità del lavoro, affinché non sia mai un ostacolo al pieno sviluppo della persona umana, uomo o donna che sia, ma, al contrario, lo promuova attivamente. Particolare attenzione andrebbe rivolta in questo senso alle sfide poste dal lavoro agile, perché non diventi l’ennesimo modo per fagocitare il tempo della vita privata, ma piuttosto uno strumento privilegiato per flessibilizzare l’orario di lavoro e consentire una più semplice conciliazione – e riconciliazione – del lavoro con le esigenze personali e familiari.

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