Le pandemie come fallimento istituzionale

Maurizio Franzini esamina il problema della pandemia da corona virus in una prospettiva istituzionale chiedendosi, in particolare, se le modalità con le quali vengono assunte le decisioni in tema di prevenzione delle pandemie siano idonee per affrontare i problemi di rischio, incertezza e ignoranza che inevitabilmente esse comportano. Franzini sostiene, sulla base anche di quanto emerge dalla letteratura, che siamo di fronte a gravissime carenze istituzionali che sarebbe urgente correggere, anche a beneficio delle generazioni future.

“Molti dei più grandi mali del nostro tempo sono il frutto del rischio, dell’incertezza e dell’ignoranza.” Così scriveva, quasi un secolo fa, nel 1926, Keynes nel suo The End of Laissez-Faire. Queste sue parole sembrano appropriate per riflettere sul grande male di questi giorni, la pandemia da corona virus, ed è così anche considerando quelle che immediatamente le precedono: “la cosa importante per il governo non è fare le cose che gli individui già fanno, né è farle un po’ meglio o un po’ peggio; ma è fare le cose che nessuno fa…”. Proviamo a vedere cosa c’entra tutto questo con la pandemia da corona virus, iniziando da qualche riferimento storico.

È stato osservato da G. Yamey et al. su The Lancet che rispetto alle pandemie si susseguono cicli di panico e cicli di indifferenza, se non proprio – aggiungo io – di serena incoscienza. Il riferimento non è ai singoli individui ma ai governi e, più in generale, alle istituzioni che in vario modo sono collegate alle pandemie. Restando su un orizzonte temporale breve, rispetto alla storia secolare delle pandemie, si può ricordare che, stando a quanto riporta F. M. Snowden nel suo libro Epidemics and Society (Yale University Press, 2019, p. 23) alla fine degli anni ’60 il clima di euforia, a livello globale, rispetto alla capacità di combattere le epidemie era tale che le Università di Yale e Harvard chiusero i dipartimenti universitari sulle malattie infettive. Da allora, come è noto, non sono affatto mancate epidemie e pandemie e, soprattutto, non sono mancati veri e propri gridi di allarme provenienti da diversi ambiti scientifici.

Ma il ciclo dell’indifferenza ha continuato, largamente indisturbato. Il grido di allarme forse più rilevante per noi è quello lanciato solo pochi mesi fa da un organismo indipendente, il Global Preparedness Monitoring Board (GPMB) presieduto da Gro Harlem Brundtland, il cui nome è associato al rapporto delle Nazioni Unite del 1987 da cui è praticamente nato ‘lo sviluppo sostenibile’. In un Rapporto redatto su richiesta del segretario delle Nazioni Unite, e dal titolo significativo di A World at Risk,  il GPMB sostiene la terrificante tesi che è ‘molto reale’ il rischio di una pandemia, dovuta a un agente patogeno mortale diffuso nell’atmosfera, in grado di uccidere 80 milioni di persone nel mondo e di provocare enormi danni economici dell’ordine del 5% del Pil mondiale. Di fronte a questo rischio, il Rapporto rileva una perdurante assenza di “volontà politica a tutti i livelli” e molto puntualmente aggiunge: “sebbene i leader nazionali rispondano alle crisi sanitarie quando la paura e il panico crescono molto, la maggior parte dei Paesi non dedica l’energia e le risorse necessarie per evitare che le epidemie si trasformino in disastri”.

Richiami significativi alla serietà del problema, provenienti anche da organizzazioni internazionali, non sono mancati anche negli anni precedenti. Ad esempio, nel 2011, nell’ambito del progetto ‘Future Global Shocks’, l’OCSE ha pubblicato in collaborazione con International Futures Programme il rapporto ‘Future global shocks: pandemics curato da H. Rubin in cui fin dalla introduzione spiega che le malattie infettive sono una ‘minacce esistenziali’ alla sicurezza umana, come definita dalle Nazioni Unite già nel 1994, e perciò si invocano misure straordinarie, in grado di superare i limiti delle ordinarie procedure.

Gli ambiti in cui intervenire, delineati in quel Rapporto ma presenti anche in altri studi, sono essenzialmente i seguenti:

1) disponibilità in tempo reale di sufficienti informazioni interoperabili e condivise a livello globale sui rischi pandemici;

2) programmare la creazione e, successivamente, la distribuzione di contromisure mediche, compresi i farmaci, i vaccini;

3) armonizzazione internazionale delle normative riguardanti tutti gli aspetti delle pandemie;

4) creare e finanziare un’attività di ricerca di base riguardante tutte le fasi di una possibile pandemia, dalla prevenzione, al contenimento, alla ‘ricostruzione’.

Sembra di poter dire, pur con le mie limitate competenze, che vi sono istituzioni nominalmente dedicate a svolgere almeno qualcuna delle funzioni indicate. Ad esempio, presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità sono istituiti diversi programmi rilevanti a quei fini: la Joint External Evaluation, gli Health Emergencies e Health Systems preparedness programmes. Ma, come osservano tra gli altri M. Schaferhoff et al. su The Lancet  nel 2015 le risorse finanziarie di cui dispongono sono limitate e, si può aggiungere, del tutto sproporzionate rispetto alle conseguenze che possono derivare dall’insufficiente finanziamento di quelle attività, come vedremo meglio tra breve. Eppure si tratterebbe, secondo B. Oppenheim, di somme che equivalgono a un arrotondamento nel bilancio delle spese militari.

Il problema non è soltanto quello delle risorse finanziarie, ma è certamente importante chiedersi perché vi sia questo problema. In termini più generali la domanda è: come decidono gli stati nazionali il contributo da dare ad attività come quelle indicate? L’indifferenza – di cui quelle limitate risorse sembrano essere testimonianza – nasce, per riprendere Keynes, da una devastante combinazione di incapacità di stimare il rischio, di affrontare l’incertezza e di superare l’ignoranza? O forse c’è anche altro?

Per meglio inquadrare la rilevanza della questione è opportuno riportare qualche altro dato, reperibile nella competente letteratura scientifica.

I costi delle epidemie, una volta che si manifestano, sono altissimi, e in generale molto più alti di quelli che normalmente vengono considerati. In uno studio pubblicato nel 2018 sul Bulletin of World Health Organization Fan et al. hanno, ad esempio, stimato che i costi complessivi – dunque anche quelli che non si riflettono nel Pil – sono stati, nel caso dei virus Ebola e SARS  2 o 3 volte superiori a quelli che consistono, appunto, nella perdita di Pil. L’influenza del 1918 avrebbe generato costi 5 volte superiori. E le stime dei costi per una prevista prossima pandemia influenzale sono simili a quelli previsti per il cambiamento climatico. Anche il tragico costo in termini di vite umane indotto dalle pandemie rischia di essere elevatissimo. In un articolo pubblicato nel 2006 su The Lancet da C.J.L. Murray et al. si sostiene che estrapolando al 2004 i morti della pandemia del 1918-20 nel mondo vi sarebbero 62 milioni di decessi, con una forte concentrazione nei paesi in via di sviluppo.

Questi dati non sono sufficienti per giustificare risorse ‘abbondanti’ (uso un’espressione inevitabilmente generica) destinate alle attività indicate in precedenza, in grado di prevenire o contenere tempestivamente le pandemie? Se sottoponessimo una simile decisione a un ipotetico referendum mondiale, che preveda – logicamente – anche l’impegno individuale a contribuire, cosa ne potrebbe venire fuori?

Un aiuto per rispondere a questa domanda possono darcelo alcuni studi sulla ‘disponibilità a pagare’ per i vaccini e per altre misure di prevenzione di rischi pandemici, espressa in condizioni di consapevolezza dei rischi che si corrono in assenza di adeguate misure di prevenzione. Stimare quella disponibilità, partendo dalle risposte alla domanda: ‘quanto saresti disposto a pagare per prevenire una nuova pericolosa epidemia come la SARS?’ data dal personale ospedaliero di Taiwan, è il compito che si sono dati alcuni anni fa Zui-Shen Yen et al. ed i risultati sono pubblicati sull’ American Journal of Infection Control, 2007.  Il contributo mediano sommava a 1762 dollari e quello medio a 720. Se si trattasse di valori anche soltanto lontanamente indicativi di quello che la popolazione dei paesi avanzati sarebbe disposta a pagare, si tratterebbe di valori eccezionalmente elevati. Una conferma che in questa materia la popolazione informata è disposta a pagare non poco viene da altri studi, ad esempio quello di Hae-Chun Rhee del 2013.

Facendo questi riferimenti non intendo sostenere che queste sole informazioni siano sufficienti per decidere quanto contribuire a quei programmi di prevenzione e contenimento, ma di certo qualche dubbio sulla corrispondenza tra le decisioni dei governi e le preferenze dei loro cittadini questi dati lo fanno nascere. E, in più, resta senza risposta la domanda su quale criterio capace di tenere adeguatamente conto del rischio e dell’incertezza e di non soffrire di ignoranza possa giustificare quelle decisioni.

Si può, dunque, affermare che emerge una deficienza istituzionale a livello globale che riguarda proprio il metodo adottato per prendere decisioni di questa straordinaria importanza. Prevale l’oscurità decisionale o la vuota enunciazione di principi appropriati ed impegnativi, come a livello europeo è quello di precauzione, ai quali però non segue alcun serio tentativo di definire le modalità della loro attuazione e di farlo in modo informato e trasparente.

Non ho competenze per esprimere un giudizio completo ed informato su cosa faccia l’Europa, al di là dei problemi finanziari, nelle materie indicate in precedenza. Ho però consultato il sito del Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo (ECDC) e in un comunicato dell’inizio di marzo sul COVID-19 si leggono cose di una genericità tale da indurre a chiedersi se non sarebbe stato meglio evitare quel comunicato. Ecco un esempio: “Un ulteriore aumento della trasmissione potrebbe comportare un significativo aumento dei ricoveri ospedalieri in un momento in cui i sistemi sanitari potrebbero essere già sotto pressione a causa dell’attuale stagione influenzale. Questa situazione si aggraverebbe ulteriormente se un numero considerevole di operatori sanitari venisse contagiato. Potrebbero anche emergere colli di bottiglia in termini di capacità diagnostica.” Con 290 dipendenti, tanti ne risultano in capo al Centro, forse si può fare qualcosa di meglio.

Al di là della questione delle risorse vi sono altri problemi istituzionali che in vario modo incidono sull’efficacia nella prevenzione e nel contenimento delle pandemie. Uno estremamente rilevante riguarda la ricerca nei vaccini, il ruolo del privato e i benefici della cooperazione.

Sappiamo che il motivo del profitto non è l’ideale per avviare tempestivamente ricerche dagli esiti straordinariamente rischiosi, soprattutto, ma non soltanto, per la difficoltà a ‘prevenire’ il virus epidemico.

Affidarsi, dunque, a questo motivo per dare risposta al nostro problema non può essere sufficiente. Anche per questo sono sorte iniziative come quella della Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI)con sede in Norvegia che, con il contributo di importanti filantropi, si propone di contribuire alla ricerca di vaccini contro le malattie infettive. Ma al di là del solito problema finanziario emerge anche un’ulteriore difficoltà connessa all’attuale sistema dei diritti di proprietà intellettuale e, dunque, anch’essa di carattere istituzionale: l’impossibilità per tutti di accedere ai progressi compiuti nelle varie fasi della sperimentazione, che limita e rallenta le possibilità di successo.

In questa materia una strategia che sembra del tutto coerente con il principio di precauzione sembra essere quella indicata da B. Graham vice direttore del Vaccine Research Center at the National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), che nella mia incompetenza, mi limito a riportare: come minimo, i ricercatori e le aziende farmaceutiche dovrebbero “sviluppare un prototipo [di vaccino] all’interno di ogni gruppo [virale] per tutto il percorso attraverso uno studio clinico. E poi o lo si mette sullo scaffale o lo si registra in letteratura, in modo da avere a disposizione queste informazioni quando accadono cose come questa”. Naturalmente, questa strategia richiede istituzioni appropriate. Che oggi non abbiamo.

In conclusione, sembra proprio, parafrasando Keynes, di poter sostenere che una serie di deficienze istituzionali impediscano al governo (o, meglio, ai governi) di fare quello che c’è bisogno di fare. E cioè dotarsi di appropriati criteri decisionali e istituzioni per affrontare il rischio e le incertezze impedendo, altresì, all’ignoranza di aggravare i difetti che quegli inappropriati criteri decisionali comportano. Tutto ciò richiede anche, probabilmente, di ridefinire alcuni concetti che guidano le politiche e che appaiono poco idonei per affrontare le sfide che si hanno davanti. Il primo che viene in mente è quello di ‘spreco’: talvolta ciò che sembra essere uno spreco non lo è affatto; di fronte al rischio o all’incertezza, un fallimento può essere un costo necessario per un successo, non uno spreco. Non riconoscerlo, potrebbe essere dimostrazione di ignoranza, anche dei danni che possiamo fare alle generazioni future, di cui sarebbe bene preoccuparsi non solo a proposito del debito pubblico.

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