Le occupazioni a scopo abitativo tra criminalizzazione e pratica di welfare informale

Piero Vereni discute il ruolo sociale delle occupazioni a scopo abitativo, che hanno avuto in Italia una forte connotazione politica sin dagli anni ‘60. Vereni sottolinea che la rappresentazione del senso comune e le modifiche del sistema legislativo sembrano ridurre un complesso fenomeno sociale a una questione di ordine pubblico. Egli ritiene, invece, che, soprattutto se la pratica delle occupazioni si intreccia con la questione dell’immigrazione, come avviene oggi, è necessario tornare a riflettere su questa forma irregolare di welfare dal basso.

In quasi tutte le città italiane di dimensioni medio-grandi sono comuni i casi di occupazioni abusive di immobili. Si tratta di un fenomeno complesso, di cui si può però provare a fornire una prima tipologia in base alla proprietà dell’edificio (privata o pubblica), alla sua funzione originaria (abitazione o altro uso) e alla finalità principale dell’occupazione (centro sociale di servizi o uso abitativo). Questo sistema a tre variabili con due valori ciascuno genera una griglia di otto casi (ma sarebbe facile individuare ulteriori variabili o rendere più complesse le opzioni entro una variabile), ciascuno con qualità peculiari: ad esempio, fa eticamente differenza occupare appartamenti sfitti di proprietà pubblica per assegnarli informalmente a famiglie in emergenza abitativa, oppure occupare una ex scuola di proprietà privata per farci una palestra popolare o una galleria d’arte ad uso delle periferie.

Quali che siano i caratteri dell’edificio occupato e le finalità dell’occupazione, sembra essere sempre presente una qualche coloritura politica dell’atto stesso di occupare. Sono infatti rari i casi di occupazione giustificati da un esclusivo stato di necessità. Come e più che in altre parti dell’Europa occidentale (e diversamente da quel che avviene generalmente negli Stati Uniti), occupare è qualcosa di più che un’urgenza da emarginati sociali. Mentre in altri contesti occupare può essere correttamente interpretato come lo stigma finale dell’esclusione sociale, in Italia (e in modo evidente nelle metropoli storiche) occupare può essere quasi un demartiniano “ingresso nella storia”, la presa di coscienza delle classi strumentali e subalterne della loro condizione sociale.

La ragione di questa specificità politica (storicamente della sinistra extraparlamentare, oggi riconoscibile anche con un suo filone neo-fascista) risiede nella storia del “movimento delle occupazioni”, e risale alla politicizzazione del proletariato urbano nel secondo dopoguerra nello spirito dell’antifascismo. Intrecciando la politica edilizia democristiana, le condizioni oggettivamente disastrose dei molti baraccati delle periferie (soprattutto romane) e l’emergere della tematica “globale” dei diritti, fin dai primi anni Sessanta “la casa” viene discorsivamente riconosciuta come lo spazio di un diritto primario e le forme di lotta per la sua soddisfazione vengono presto identificate come atti politici, anche quando comportano pratiche illegali come effrazioni e occupazioni.

Questo riconoscimento fa il paio con il consolidarsi di una fitta rete di comitati, coordinamenti e associazioni che organizzano e gestiscono le occupazioni, e che sempre più si collocano, nella loro leadership, come portavoce di porzioni identificabili del corpo elettorale e interlocutori diretti dei rappresentanti ufficiali delle istituzioni.

In sintesi, fin dagli anni Sessanta il sistema delle occupazioni a scopo abitativo sembra connotarsi come una forma alternativa di servizio di welfare, e come tale viene sempre più riconosciuto. Con le modalità tipicamente italiane dell’interazione politica su piccola scala, questo reciproco riconoscimento tra istituzioni e comitati avviene in una zona grigia, dove i diritti e i doveri sono negoziati ben al di sotto della soglia dell’anonimato, e intessuti invece di competenze, conoscenze, amicizie e inimicizie fittamente personali. Opponendosi alla diade canonica stato-mercato, il sistema di welfare dal basso delle occupazioni interseca però ruoli e funzioni degli altri due spigoli del “diamante del welfare”, vale a dire l’associazionismo e la famiglia, posizioni che risulta difficile districare nelle effettive pratiche di occupazione, dato che la famiglia non rappresenta solo il ruolo soggetto privilegiato di consumo di questo welfare, ma anche uno degli attori prominenti della sua produzione.

Sono infatti “le famiglie” (dette “unità” dai portavoce dei comitati) che vengono attivate dai comitati, e si tratta spesso di coppie con prole in età scolare. Il vecchio (sotto)proletariato urbanizzato dalle provincie sottoposte alla pressione della crisi del settore primario è stato sempre più affiancato (e in buona parte rimpiazzato) dagli immigrati stranieri, africani, asiatici, sudamericani ed europei, che in misura crescente dagli anni Novanta fanno delle occupazioni metropolitane un sistema multinazionale e intenzionalmente multiculturale. A questa componente internazionale e alla tradizionale utenza sottoproletaria si affianca poi la nuova fascia della piccola borghesia impoverita dalla crisi: famiglie modeste che avevano spesso vissuto l’emergenza abitativa negli anni Sessanta e che attraverso le lotte e lo sviluppo economico e sociale del paese avevano faticosamente conquistato un certo agio abitativo, ma i cui figli sono stati sempre più spinti oltre la soglia dell’emergenza dai prezzi della bolla immobiliare e dalla conseguente crisi, prima finanziaria e poi direttamente economica. Nelle occupazioni attuali è quindi facile convivano sotto una dirigenza strettamente politica ceti medi e proletariato urbano, italiani e non italiani, mischiando lingue, religioni, prospettive sociali e posizionamenti politici.

Questa nuova configurazione di un fenomeno sociale storicamente radicato ha prodotto almeno tre conseguenze importanti nel modo in cui le occupazioni sono vissute, gestite o giudicate.

Per prima cosa, la leadership politica dei comitati (ancora composta in larga parte di soggetti di cittadinanza italiana) si trova ora a trattare un’utenza che è significativamente diversa da quella che caratterizzava le occupazioni del sottoproletariato appena urbanizzato degli anni Settanta, e vive con una certa ambiguità strutturale il confronto con la dimensione più visibilmente multiculturale e multietnica degli occupanti. È evidente che in molti casi le famiglie straniere costituiscono la massa critica dei comitati, un vero bacino rigoglioso che porta nuova linfa a una pratica altrimenti a rischio di estinzione per il duplice processo di riduzione oggettiva della sacche di miseria urbana e di progressivo “imborghesimento” ideologico del sottoproletariato. Insomma, gli stranieri, per il loro frequente posizionamento sociale, possono essere letti come i nuovi cittadini proletari, che rivendicano ora quel che gli italiani non pretendono più.

Proprio questa lettura necessariamente “di classe” della presenza straniera nelle occupazioni restituisce un’immagine ambigua della specificità culturale di cui quegli stranieri sono, comunque, portatori. Da un lato infatti lo specifico culturale è minimizzato in nome di una comune condizione sociale (l’essere senza casa è una forma di vita che attraversa qualunque credo, e occupare è un atto per forza politico, che si può fare parlando qualunque lingua); dall’altro la varietà culturale può essere rivendicata (e a volte esibita) in nome di una concezione post-nazionale della cittadinanza. La conseguenza immediata di questa ambiguità è che, quale che sia l’unità domestica da cui provengono, gli occupanti sono sempre conteggiati per “unità”, vale a dire secondo il canonico modello della “famiglia operaia”: una coppia con prole sedentarizzata in uno spazio abitativo delimitato, con lui che lavora e lei che prevalentemente si occupa della casa. Questo modello di famiglia legato a un modo di produzione tipicamente industriale necessariamente trascura chi è fuori dal canone per sistema produttivo o per condizione familiare, così che “zingari” e “barboni”, due categorie strutturalmente afflitte dall’emergenza abitativa ma anomale per tipo di famiglia e per tipo di lavoro, sono sottorappresentati in tutte le occupazioni organizzate.

La seconda conseguenza del nuovo tipo di utenza anche straniera delle occupazioni è l’alterizzazione della pratica nella rappresentazione mediatica. Sempre più spesso, infatti, le occupazioni abitative sono presentate nella stampa nazionale come azioni “dell’Altro”, e alcuni casi documentati di effrazione da parte del racket – per consegnare dietro compenso gli appartamenti a famiglie specifiche – vengono presentati come la norma, per cui “occupare” non significa una costellazione complessa di attività (edifici pubblici o privati? Per abitare o fornire servizi? Occupare case popolari o occupare caserme dismesse?), ma sempre e comunque significherebbe occupare alloggi pubblici a discapito dei legittimi assegnatari. In questa rappresentazione, l’occupante diventa poi un vero fantasma dell’alterità, secondo la triplice connotazione della differenza: è altro perché è Straniero; è altro perché è Criminale; è altro perché è Donna (con tanti bambini, ma proprio tanti; bambini che diventano non il segno di una necessità abitativa, ma il sintomo di una perversione sociale).

Questa alterizzazione radicale dell’occupante, attivata (o forse solo esasperata e sistematizzata) dai media, è il prodromo perfetto della terza conseguenza, vale a dire la rimozione politica della funzione sociale delle occupazioni. Se a occupare è l’Altro, la politica istituzionale agisce di conseguenza, e visto che, per definizione, l’Altro è escluso dalla cittadinanza e dai connessi diritti e doveri politici, si può derubricare il suo agire come non politico, e ridurlo a questione emergenziale da risolvere con il sostegno di tecnici appositi, o a problema di ordine pubblico, da demandare quindi alle forze dell’ordine. Immemore insomma del suo ruolo di interlocutore di soggetti che occupando hanno sempre assunto una postura politica, la politica istituzionale ha ridotto la complessità del nuovo quadro sociale delle occupazioni – stranieri in bilico sociale, giovani in incipiente fase di ri-proletarizzazione, sotto-occupati cronici, disoccupati di primo pelo, anziani espulsi dal welfare, immigrati alla disperata ricerca di qualcosa che somigli a una normalità abitativa, madri single di diversa estrazione nazionale – a un blocco compatto di para-criminali, da liquidare a muso duro con mezzi come l’articolo 5 del decreto legge 28 marzo 2014, n. 4731, recante Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015 che dichiara, senza fraintendimenti, che «Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi in relazione all’immobile medesimo…». Chiunque è “qualunque persona”, senza tener conto delle motivazioni, della storia, dell’urgenza, del tipo di immobile occupato, della proprietà dello stesso, del suo stato di conservazione; senza tener conto del grado di violenza con cui l’occupazione ha avuto luogo, se limita un diritto altrui o se l’occupazione, paradossalmente, sia di fatto un’azione di riqualificazione territoriale.

Una politica che nega il senso politico della azioni dei suoi interlocutori potenziali e li espelle dalla cittadinanza (senza una residenza, l’esercizio dei diritti base come sanità e istruzione diventa estremamente complicato) è una politica destinata all’insulsaggine. Dentro gli sgomberi condotti sul cieco principio che chiunque occupi è un criminale e non un cittadino si occulta il vuoto del rapporto odierno tra politica e polis.

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