Le molte ombre della proposta di decontribuzione strutturale

Michele Raitano discute la proposta di ridurre in modo strutturale il cuneo contributivo di 6 punti percentuali, pensata per incentivare le assunzioni con contratti a tempo indeterminato, per sostenere i consumi dei lavoratori e la previdenza integrativa, sottolineandone gli aspetti critici per la tutela dei futuri pensionati, per i costi a carico del bilancio pubblico e per gli effetti sulle scelte delle imprese. Secondo Raitano, così configurata, la decontribuzione potrebbe risolversi unicamente in una redistribuzione a favore delle imprese.

Gli sgravi contributivi per i neo-assunti con contratto a tempo indeterminato introdotti dalla Legge di Stabilità per il 2015 e confermati, anche se in misura ridotta, da quella per il 2016 hanno, come noto, carattere temporaneo. In base alla normativa vigente, non è, infatti, previsto alcun tipo di sgravio per chi verrà assunto a tempo indeterminato (ovvero a tutele crescenti) a partire dal 1° gennaio 2018. Molte voci hanno di recente espresso preoccupazione su quello che potrà accadere al mercato del lavoro quando la “droga” delle decontribuzioni sarà esaurita del tutto. In quest’ottica alcuni autorevoli esponenti dell’attuale maggioranza, primo fra tutti il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini, hanno manifestato la necessità di introdurre una riduzione strutturale del costo del lavoro.

L’idea più spesso presente nel dibattito prevede una riduzione permanente di 6 punti percentuali dell’aliquota di contribuzione per la previdenza, da dividersi in parti uguali fra datori e lavoratori: in questo modo, da una parte, le imprese beneficerebbero di un taglio netto di 3 punti di costo del lavoro, dall’altra, i lavoratori potrebbero scegliere di incrementare del 3% la loro busta paga (dovrebbero però pagare l’aliquota marginale Irpef su tale incremento) oppure di devolvere la stessa somma alla previdenza integrativa (deducendola dall’imponibile Irpef). A differenza di quanto accade con gli attuali sgravi, la riduzione dell’aliquota non verrebbe “fiscalizzata” – ovvero il suo finanziamento non sarebbe posto a carico del bilancio pubblico per mantenere immutati i versamenti di contributi validi a fini pensionistici –, ma determinerebbe una riduzione effettiva dei versamenti contributivi e, dunque, nello schema contributivo, una pensione di importo proporzionalmente ridotto.

Negli obiettivi dei proponenti, la misura potrebbe arrecare diversi benefici. Favorirebbe la crescita di “buona occupazione”, dato che incentiverebbe le imprese a assumere tutele crescenti anziché a termine. Inoltre, almeno nel breve, favorirebbe la crescita dei consumi qualora i lavoratori scegliessero di versare lo sgravio in busta paga o, in alternativa, aiuterebbe lo sviluppo della previdenza integrativa, qualora ad essa si indirizzasse lo sgravio. Al tempo stesso, gli oneri sarebbero limitati per il bilancio pubblico, poiché lo sgravio non sarebbe a carico della fiscalità generale.

Nonostante tutti i buoni propositi che, agli occhi dei suoi fautori, una sola misura potrebbe arrecare, una lettura attenta della proposta porta a segnalare rilevanti criticità. Di seguito ci concentriamo su tre aspetti relativi a: i) le tutele pensionistiche dei lavoratori; ii) gli oneri per il bilancio pubblico; iii) l’efficacia nel favorire la preferenza delle imprese verso contratti stabili.

Per le imprese, come si è detto, il costo del lavoro si ridurrebbe di 3 punti percentuali. Per i lavoratori la misura rappresenterebbe, invece, una riduzione certa della copertura pensionistica pubblica (l’aliquota di contribuzione scenderebbe dal 33% al 27%), ovvero del loro salario differito (in un sistema contributivo i versamenti sono considerabili alla stregua di un risparmio obbligatorio). I lavoratori potrebbero compensare, parzialmente, tale perdita spostando in busta paga o a fondi pensione i 3 punti di aliquota a loro carico che verrebbero devoluti dal sistema pubblico. Facendo un esempio, un lavoratore con una retribuzione lorda annua di 32.500 euro (2.500 al mese) perderebbe 150 euro di contributi previdenziali; a fonte di questa perdita netta potrebbe scegliere di versarne 75 alla previdenza integrativa o, considerando l’aliquota marginale Irpef del 38%, riceverne 46,5 in busta paga (i contributi previdenziali sono fiscalmente deducibili e tassati, generalmente con aliquote minori, al momento dell’erogazione della prestazione).

La misura ridurrebbe, dunque, le pensioni future che, peraltro, già con l’aliquota del 33% rischiano di non essere particolarmente generose per chi avesse parte delle carriere caratterizzata da basse retribuzioni o frequenti periodi di non lavoro. D’altro canto, a causa del sistema di imposizione progressiva, spostare lo sgravio in busta paga potrebbe convenire soprattutto ai lavoratori a minor salario che sono, però, anche coloro che più necessitano di copertura pensionistica futura. In altri termini, la misura incentiverebbe la miopia rispetto a un bene considerato meritorio – risparmiare per il futuro anziché consumare oggi – proprio di quei lavoratori che avrebbero bisogno di accrescere le pensioni future. Va peraltro osservato che l’idea di spostare in busta il salario differito per incrementare i consumi non sembra piacere ai lavoratori italiani, come dimostrato dalla quota ridottissima (circa lo 0,8%) dei lavoratori del settore privato che ha scelto di trasferire in busta paga il TFR in seguito alla possibilità introdotta dalla legge di Stabilità per il 2015.

In alternativa i lavoratori potrebbero destinare a risparmio previdenziale i 3 punti di aliquota, ma sarebbero obbligati a versarli alla previdenza integrativa. La preferenza, mostrata dalla proposta, verso il sistema privato appare discendere da una visione ideologica che considera la previdenza integrativa più efficiente di quella pubblica, soprattutto in virtù dei suoi presunti maggiori rendimenti, che sono però chiaramente smentiti dall’evidenza empirica dei primi 15 anni di funzionamento della previdenza integrativa in Italia. Va altresì evidenziato che, in un sistema a ripartizione, come quello italiano, ogni forma di opting out dalla previdenza pubblica comporta l’insorgere di un immediato “costo di transizione”, ovvero la necessità di reperire risorse per finanziare parte della spesa pensionistica corrente, non potendo più utilizzare a questo scopo la quota di contributi devoluti ai fondi privati.

Più in generale, e qui veniamo alla seconda delle criticità segnalate, in un sistema a ripartizione la riduzione dell’aliquota versata allo schema pubblico (pari a 6 punti nella proposta qui discussa) comporta un costo netto per il bilancio pubblico crescente nel tempo man mano che aumenterà la quota di neo-assunti ad aliquota ridotta. Ad esempio, laddove nel primo anno di applicazione della misura 1 milione di lavoratori venisse assunto con l’aliquota al 27%, in base alla distribuzione delle retribuzioni dei nuovi contratti rilevata dall’INPS nel 2015, il costo netto per il bilancio pubblico in termini di mancati contributi ammonterebbe a un miliardo di euro, che, assumendo un altro milione di nuovi entrati, diverrebbe pari a 2 miliardi l’anno successivo e così via. Il costo andrebbe a ridursi fino a scomparire solo nel (molto) lungo periodo, quando l’intero stock di pensioni in pagamento si riferirà a chi ha versato il 27% allo schema pubblico.

Chi ritiene che una riduzione strutturale dell’aliquota versata al sistema pensionistico pubblico non comporti oneri per il bilancio pubblico e riduca il debito previdenziale ignora, quindi, il funzionamento dei sistemi a ripartizione e dello stesso schema contributivo: una riduzione di aliquota comporta sì nel contributivo una riduzione della spesa futura, ma a fronte di una corrispondente caduta dei contributi, senza alterare il debito previdenziale.

Appurato che la misura in discussione ridurrebbe il “reddito permanente” dei lavoratori e comporterebbe oneri per il bilancio pubblico, bisogna ragionare, allora, sulla possibilità che la riduzione del costo del lavoro modifichi significativamente i comportamenti delle imprese, così inducendo effetti positivi tali da migliorare la qualità dell’occupazione offerta e, via effetti moltiplicativi, non comportare aggravi sulle finanze pubbliche. Affinché un simile roseo scenario possa avverarsi bisogna fideisticamente assumere che basti ridurre di 3 punti l’aliquota a carico delle imprese per modificare profondamente le loro scelte occupazionali e di investimento. In alternativa, se le scelte delle imprese non dovessero modificarsi, la decontribuzione si concreterebbe in un mera redistribuzione dalla fiscalità generale e dai lavoratori a vantaggio delle imprese.

Ovviamente, non si è qui in grado di misurare la sensibilità delle scelte delle imprese a una riduzione del costo del lavoro di questa entità. L’esperienza recente ci porta però a dubitare fortemente della possibilità di modificare nel profondo il funzionamento del nostro sistema produttivo. La riforma del mercato del lavoro del 2012, ad esempio, incrementò di 1,4 punti percentuali il costo dei contratti a termine in modo da favorire la “buona occupazione”, ma nessuna evidenza empirica dimostra che tale misura fu sufficiente a modificare le forme contrattuali offerte e incentivare gli investimenti delle imprese. Allo stesso tempo, non c’è evidenza che parte della decontribuzione a vantaggio delle imprese del 2015 si sia tradotta in più elevate retribuzione. Anzi, c’è da chiedersi in quale misura i contratti a fronte dei quali si ottiene la riduzione del costo del lavoro siano effettivamente “a tempo indeterminato” e migliorino le prospettive di carriera dei lavoratori, applicandosi ora le norme più flessibili previste dal Jobs Act. Analogamente, bisognerebbe interrogarsi sulla possibilità che la creazione di “lavoratori d’annata” caratterizzati da costo del lavoro diverso possa indurre comportamenti opportunistici da parte delle imprese che, per mero risparmio di costo, potrebbero effettuare una sostituzione fra lavoratori più e meno costosi.

Per concludere, continuare a perseguire una strategia di sviluppo del sistema produttivo italiano e della qualità dell’occupazione offerta sulla base delle sole riduzioni di costo “acondizionali” – senza cioè legare gli sgravi a comportamenti “virtuosi” da parte delle imprese – appare discutibile sia dal punto di vista dell’equità – verrebbero penalizzati, in primo luogo, i lavoratori più deboli e potrebbe favorire una redistribuzione dai salari ai profitti – che dell’efficienza, dato che si utilizzerebbero ingenti risorse pubbliche senza generare, presumibilmente, significative ricadute aggregate. La riduzione del costo del lavoro andrebbe perseguita, eventualmente, attraverso riduzioni del carico fiscale, che non vadano ad incidere sulle future coperture pensionistiche. E, soprattutto, per incentivare comportamenti virtuosi da parte delle imprese servirebbero politiche industriali che, sebbene senz’altro più difficili da definire ed attuare, potrebbero essere caratterizzate da un rapporto fra costo della misura ed efficacia del raggiungimento degli obiettivi ben più favorevole di un nuovo sgravio contributivo “a pioggia”.

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