Le (grandi) infrastrutture di ricerca. Costi pubblici e benefici privati della produzione di conoscenza

Massimo Florio e Francesco Giffoni si occupano dell’impatto socioeconomico e delle ricadute distributive dell’attività delle (grandi) infrastrutture di ricerca (IR). Dopo aver definito le IR e rilevato che esse generano un beneficio sociale netto, gli autori sostengono che sotto il profilo distributivo la possibilità per le imprese private di appropriarsi gratuitamente della conoscenza prodotta dalla ricerca pubblica (finanziata dai contribuenti) aggrava le disuguaglianze. Nelle conclusioni essi enunciano alcuni possibili rimedi.

Le moderne (grandi) infrastrutture di ricerca (IR) (articolo 2 (6) del Regolamento UE n. 1291/2013) sono esempi di Big science, ovvero progetti di ricerca su larga scala che richiedono: finanziamenti notevoli (spesso provenienti da più stati) e di lunga durata; gruppi numerosi e coordinati di scienziati e tecnici; laboratori grandi e complessi, con apparecchiature all’avanguardia spesso costruite appositamente per il progetto. Le IR sono infrastrutture nell’accezione più ampia, sono cioè uno strumento multi-utente e, inoltre, la loro attività di ricerca e di disseminazione dei risultati è aperta e senza censura in linea con la visione di open science, di cui è un esempio l’European Open Science Cloud. In Europa (UE, UK e Svizzera) le grandi IR sono forse trecento, considerando anche le minori si arriva probabilmente a mille.

L’attività delle IR ha importanti ricadute sociali, poiché la conoscenza assicura, attraverso vari meccanismi, benefici a diversi gruppi sociali (Florio e Sirtori, in Technological Forecasting and Social Change, 2016; Florio, Investing in Science. Cost-benefit analysis of research infrastructures, MIT Press, forthcoming).

Le IR sono produttori di dati sperimentali e di output utilizzati dagli stessi scienziati che, dunque, sono sia ‘produttori’ (attraverso le pubblicazioni scientifiche) sia ‘consumatori’ dell’output dell’attività di ricerca. Esse sono incubatori di capitale umano (e di capitale sociale tramite le reti di collaborazioni) per studenti e giovani ricercatori che trascorrono un periodo di studio e/o lavoro presso una IR e, inoltre, rappresentano spesso un ambiente di apprendimento per le imprese fornitrici, che mettono a disposizione delle IR tecnologia, beni e servizi strumentali all’attività di ricerca. Tali beni e servizi spesso non sono acquisibili nel mercato e sono utilizzati in condizioni estreme (ad esempio nello spazio o a bassissime temperature per ottenere la superconduttività).

Le interazioni e lo scambio di conoscenze tra IR e imprese (di norma private) fornitrici di tecnologia sono spesso fonte di innovazione e favoriscono il successo delle imprese sul mercato. In alcuni casi, le IR agiscono come ‘risk takers’, riducendo i rischi sopportati dalle imprese che intraprendono progetti alla frontiera della scienza (Florio et al., in Industrial and Corporate Change, 2018).

Le imprese e i consumatori di prodotti innovativi a valle delle IR fruiscono di benefici sotto forma di nuovi processi e prodotti o di servizi utilizzati in mercati secondari e/o in ambiti diversi dal campo di ricerca iniziale. Per esempio, il programma Europeo di osservazione della terra Copernicus integra ed elabora informazioni provenienti da molteplici fonti – satelliti e sensori di terra, di mare ed aviotrasportati – riguardanti suolo, mare, atmosfera, cambiamenti climatici, la gestione delle emergenze e la sicurezza e le fornisce a istituzioni ed imprese. Il suo impatto su vari settori a valle è stato oggetto di stima da parte della Commissione Europea (EC, DG GROW Report, 2016).

Per gli utenti di software e di databases i benefici consistono nella crescente disponibilità di dati e nella possibilità di fruire liberamente delle innovazioni relative all’ICT. Ad esempio, nel campo della biologia e della bioinformatica, è noto l’impatto dei dati liberamente accessibili del ‘Human Genome Project (HGP)’ (si veda oltre) e, peraltro, il World Wide Web è stato ideato al CERN. Attualmente, sono di pubblico dominio software inizialmente sviluppati nell’ambito della fisica delle alte energie ma di grande utilità anche in altri ambiti. Due esempi, tra gli altri: il ROOT (una libreria di strumenti per l’analisi e la visualizzazione dei dati) e il Geant4 (software per simulare gli effetti delle particelle che passano attraverso la materia, utilizzato in medicina per simulare il danno da radiazioni nel DNA, e in altri settori). Le IR generano, inoltre, un beneficio culturale per il pubblico e i non addetti ai lavori attraverso, ad esempio, mostre, visite guidate, workshops, conferenze, eventi di disseminazione e sensibilizzazione, webinars e messa a disposizione di risorse digitali per attività ricreative.

I cittadini sono coinvolti dalle IR da un lato come contribuenti e dall’altro come beneficiari di valori di non-uso. Tipicamente, nel caso delle IR la produzione di conoscenza- che può essere considerata un bene pubblico – è finanziata dagli Stati partecipanti, quindi, in ultima istanza dai contribuenti. Questi ultimi potrebbero anche essere disposti a pagare per la possibilità di fare nuove scoperte e per gli avanzamenti della conoscenza per se, indipendentemente dalla prospettiva di usufruirne direttamente. L’attività di ricerca potrebbe, quindi, avere anche un valore di ‘non uso’.

Tenendo conto di tutto ciò non sorprende che diversi studi empirici sia quantitativi sia qualitativi trovino che le IR generano benefici netti positivi per la società.

E’ però interessante chiedersi come si distribuiscano questi vantaggi. Cruciali sono, a questo riguardo, le modalità con cui le imprese private a valle si appropriano delle conoscenze prodotte dalle IR senza finalità di profitto. Il capitale produttivo è oggi largamente basato sulla conoscenza e, dunque, ha natura intangibile; per questo motivo l’appropriazione privata di conoscenze che nascono come bene pubblico e, in seguito, sono “intercettate” da investitori privati può essere causa di disuguaglianze. Il punto è che i contribuenti finanziano grandi progetti di ricerca pubblica i cui risultati sono disponibili gratuitamente per ulteriore R&S nelle (prevalentemente grandi) imprese e si tratta di contributi rilevanti. Nel 2015, nell’area OCSE il finanziamento pubblico della ricerca è stato di 315 miliardi di dollari (47% negli USA), in particolare nel settore spaziale e nella difesa nazionale (OECD, Science, Technology and Industry Scoreboard 2017: The digital transformation, 2017). Nel 2015, la popolazione dei paesi OCSE era di 1,281 miliardi, e quindi il contributo diretto annuo è stato in media di circa 246 dollari. Abbiamo quindi che i contribuenti, anche i meno abbienti, di fatto finanziano indirettamente i profitti delle grandi imprese.

Per note ragioni (il costo medio di produzione è indefinitamente decrescente con la quantità prodotta) la conoscenza è causa di monopolio naturale ma la situazione si aggrava perché al monopolio naturale nella produzione di conoscenza si aggiunge spesso un monopolio o un equilibrio di oligopolio sui mercati dei beni e dei servizi. La ricerca pubblica crea i mercati (Mazzucato, in EC DG Research and Innovation, 2018), ma spesso si tratta di mercati monopolistici o oligopolistici. La concentrazione della ricchezza, e quindi la diseguaglianza, sono causate anche da questo meccanismo.

Per molti decenni le società petrolifere (le famose “sette sorelle”) hanno realizzato i massimi profitti e ottenuto le più alte valutazioni in Borsa. Ciò è dipeso in larga misura dall’appropriazione privata di risorse del sottosuolo, che la legislazione talvolta considera intrinsecamente pubbliche, ma che poi a vario titolo ‘concede’ ai privati. Il petrolio dei nostri tempi è la conoscenza e di essa, come ha scritto l’Economist (The world’s most valuable resource is no longer oil, but data, May, 2017) si sono impadronite “sette (nuove) sorelle” (cfr. Tab. 1).

Tab.1. Le prime dieci società del mondo per valore di mercato nel 2018

Quanta parte dei profitti delle imprese, soprattutto di quelle tecnologicamente avanzate (sia manifatturiere sia di servizi) deriva dall’appropriazione di conoscenza generata a monte dalle IR e per la quale le imprese non hanno pagato nulla? Non abbiamo individuato alcuna valida ricerca empirica in grado di rispondere a questa domanda, ma disponiamo di alcuni studi di caso (Block e Keller, State of innovation. The US government’s role in technology development, 2011).

Il progetto HGP è stato completato nel 2003 dopo dodici anni di sviluppo ed è costato circa 3 miliardi di dollari, interamente a carico dei bilanci pubblici di diversi Paesi (principalmente USA). Oggi, grazie alle tecnologie sviluppate con quell’iniziale investimento pubblico, sequenziare interamente un genoma umano richiede meno di mille dollari e meno di un’ora. Nel giro di qualche anno sarà possibile sequenziare il genoma di milioni di esseri umani e utilizzare l’informazione per una medicina mirata a gruppi geneticamente affini. Già adesso, oltre 350 prodotti biotech derivanti da queste conoscenze sono in fase di sperimentazione. Migliaia di brevetti sono stati depositati da società private. L’offerta di farmaci, test diagnostici, apparecchiature mediche è saldamente nelle mani di imprese oligopolistiche private, le quali hanno ottenuto gratuitamente le conoscenze genetiche e tecnologiche con cui potranno riformulare le loro strategie. Nel prezzo dei nuovi farmaci molecolari vi è certamente la spesa di R&S in-house da parte delle imprese, ma i pazienti pagheranno anche una rendita su questi nuovi farmaci (come consumatori) che in ultima analisi sono stati resi possibili dal loro stesso finanziamento come contribuenti del HGP (Cleary et al., in Proceedings of the National Academy of Sciences, 2018).

Altri esempi riguardano l’archiviazione e distribuzione di informazione digitale. EMBL-EBI, l’istituto di bioinformatica dell’European Molecular Biology Laboratory permette l’accesso online ai propri dati, inerenti le scienze naturali, gratuitamente e, generalmente, senza neppure richiedere che l’utente si registri. Nel gennaio 2017, EMBL-EBI ha registrato in media circa 40 milioni di accessi al giorno, da 3,2 milioni di diversi indirizzi IP, per scaricare i dati. Le imprese rappresentano il 20% degli accessi, ma molti altri utenti, come università e istituti di ricerca, lavorano con imprese biotech e farmaceutiche. Secondo un rapporto sull’uso di questi dati (EMBL-EBI, Impact Report, 2016) sono frequenti anche gli accessi di piccole e medie imprese di altri settori. Un’analisi sulle citazioni dei brevetti (Bousfield et al., in F1000Research, 2016) relativi alla rete di biodati ELIXIR (comprendente oltre 200 istituti) mostra che dal 2014 sono oltre 8.000 i brevetti depositati che citano dati ottenuti da tale infrastruttura.

Un altro esempio è il programma Copernicus dell’European Space Agency che gestisce i satelliti Sentinels per l’osservazione terrestre. Come già accennato, l’utilizzo a valle di questi dati è talmente variegato che è difficile persino mappare gli utenti; lo scorso anno quelli registrati erano circa 160.000, di cui forse 500 imprese. E’ noto ad esempio che la navigazione commerciale nel Mar Baltico si avvale dell’osservazione dei ghiacci per dirigere i rompighiaccio e la flotta mercantile, con notevoli risparmi di costi e tempi non solo per le società armatrici delle navi ma anche per i supermercati finlandesi che possono gestire in modo più flessibile le scorte grazie alla maggiore regolarità degli approvvigionamenti.

L’appropriazione di conoscenze, come si è detto, è oggi forse più importante della proprietà di capitali tangibili nel determinare la distribuzione dei redditi. Quello che non sappiamo è quanto ogni cittadino paga a valle per “ricomprare” le innovazioni e come si distribuiscono le rendite che ne derivano.

Occorre, quindi, chiedersi come si potrebbe contrastare l’appropriazione privata, inevitabilmente oligopolistica, dei risultati della ricerca. Data la difficoltà di tassare i profitti delle società multinazionali, la nostra proposta (che non sarà sviluppata in questa sede) è che coalizioni di governi lungimiranti, se ne esistessero, dovrebbero promuovere hub tecnologici sovranazionali di imprese (pubbliche, miste o forse anche private) fra loro consorziate e orientate a missioni pubbliche di ampio respiro sul modello delle moderne grandi IR. Occorre quindi chiedersi se, per contrastare l’appropriazione oligopolistica privata della scienza come bene pubblico, non sia il caso di affidare la produzione di beni direttamente derivati dalla ricerca, come ad esempio i farmaci di nuova generazione, ad un nuovo tipo di imprese pubbliche basate sulla conoscenza.

* Questo articolo si basa su un più ampio contributo presentato a L’Aquila il 15 Novembre 2018 presso il Gran Sasso Science Institute in occasione del seminario “Verso un Programma Atkinson per l’Italia. Cambiamento tecnologico e impatto sociale: strumenti per riprenderne il governo”

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