La questione della riduzione del debito pubblico del nostro paese, senza penalizzare la crescita, anzi agevolandola, mette insieme, da un lato un debito tra i maggiori nel confronto internazionale e, dall’altro, una crescita tra le minori, sempre assumendo lo stesso confronto internazionale. E questi andamenti negativi non si riferiscono solo a questi ultimi anni, ma hanno una storia almeno di un paio di decenni. Se la questione ha una sua evidente complessità a maggior ragione la possibilità di dare una qualche risposta positiva passa da una precondizione: aver capito almeno quale è la malattia, quale è la causa di questi andamenti, – certamente in qualche misura collegati – che dovrebbero essere corretti. Il risultato di una simile ricerca del “colpevole” è, tuttavia, a dir poco deludente nel senso che una interpretazione convincente praticamente non esiste. Certamente si è fatto ricorso a varie spiegazioni: da un costo del lavoro relativamente elevato rispetto ai nostri concorrenti, ad una scarsa mobilità del lavoro, ecc. Queste interpretazioni non solo non spiegano nulla ma si basano su affermazioni paraideologiche del tutto inventate essendo il nostro costo del lavoro tra i più bassi nell’UE, mentre gli orari sono tra i più lunghi, e idem vale per la precarietà.
Poi si è fatto ricorso alla mancanza di riforme che – uscendo dalla genericità e dal conseguente equivoco – avrebbero dovuto riguardare varie privatizzazioni e varie eliminazioni di strutture corporative. Si tratta di motivazioni che tutt’ora vengono richiamate ma che al di là di specifiche situazioni, sembrano rispondere in molti casi a motivazioni ideologiche, o a interessi economici che nulla o ben poco hanno a che fare con le questioni indicate all’inizio.
Alcuni sembrano voler riandare alla filosofia delle svalutazioni competitive che hanno retto in questi vent’anni la nostra competitività, dimenticando tuttavia che quegli interventi correggevano le conseguenze e non le cause della nostra debolezza che come tali si ripresentavano puntualmente per cui le svalutazioni competitive erano diventate una scadenza obbligata della nostra vita economica. Poiché nel frattempo l’Unione e le società di rating premono, si è avviata una presunta pulizia di tutti i cassetti trovando certamente della polvere da eliminare e sperando così di superare la nottata. (Fuor di metafora: sperando di lasciare la patata bollente al governo successivo).
Ogni tanto, soprattutto più recentemente ma non in sedi ufficiali, compare tra le possibili cause del nostro debole sviluppo la dimensione della competitività tecnologica, che nel caso del nostro paese appare costantemente in difficoltà e che le ricorrenti svalutazioni competitive non hanno potuto, né potevano, correggere, anche se alcuni sembrano voler ancora ripercorrere strade simili. In effetti sul nostro bilancio e sugli andamenti del nostro Pil si accumula ogni anno un deficit commerciale relativo ai prodotti ad alta tecnologia. Questo deficit è non solo crescente nel tempo ma ha raggiunto e superato il punto percentuale di Pil. Proprio quello che ci avrebbe fatto comodo in questi anni.
Quando si pensa di correggere quello che comunque appare un difetto del nostro sistema produttivo, – nello specifico il minore valore aggiunto connesso con la diversa posizione tecnologica della produzione – si ricorre alla solita ricetta degli incentivi alle imprese per accrescerne la spesa in ricerca dal momento che questa appare sensibilmente inferiore a quella affrontata dai sistemi produttivi degli altri paesi. Il ragionamento non solo è semplicistico, ma è anche sbagliato dal momento che attribuisce una possibilità/capacità di spesa in ricerca eguale per tutte le imprese, qualunque sia la struttura dimensionale e la specializzazione produttiva. Poiché cosi non è – come è di tutta evidenza ma anche confermato dalle statistiche – quegli incentivi certamente vengono accolti positivamente dalle imprese ma da un punto di vista generale non inducono nessun cambiamento significativo dei vincoli strutturali in materia di competitività tecnologica. Poiché nel frattempo, all’insegna delle mode liberiste, in materia di produzione industriale si è ritenuto che era meglio lasciare fare alle imprese piuttosto che chiamare in causa una dimensione pubblica, si è ritenuto opportuno ridurre le risorse e le potenzialità della ricerca pubblica. Una specie di suicidio – anche, ma non solo, da parte delle imprese – dal momento che se e quando si vorrà affrontare la questione, il tanto sbandierato ricorso alla società della conoscenza, troverà non solo politicamente ma anche materialmente sguarnito uno degli attori fondamentali di quella società.
Nel frattempo quel problema irrisolto continuava a manifestare la sua nefasta esistenza per cui ora, oltre a dover cercare – per ora vanamente – una terapia, si dovrebbe anche recuperare un malloppo di circa 50 miliardi per coprire il buco pregresso.
Guardando le recenti sconfitte elettorali dell’attuale governo è del tutto plausibile un cambiamento dello scenario politico di governo per il prossimo futuro. Potrebbe toccare al centrosinistra affrontare le questioni sopraccennate. E poiché negli anni passati in materia non sono mancati anche da queste sponde politiche errori clamorosi, sarebbe opportuno prepararsi per tempo poiché, da un lato gli interventi sono necessariamente complessi, ma una seconda stagione di errori sarebbe senza ritorno anche per il Paese.