Le disuguaglianze economiche non sono un’illusione

Salvatore Morelli mette in discussione un articolo recente di The Economist, secondo cui la crescita delle disuguaglianze economiche sarebbe un’illusione. Pur riconoscendo l’importanza di tenere conto dell’incertezza che circonda le stime delle disuguaglianze economiche, Morelli, esaminando i diversi argomenti proposti dal settimanale e i dati citati, giunge alla conclusione che, paradossalmente, proprio da questi ultimi danno sostegno alla tesi che le disuguaglianze economiche siano cresciute.

The Economist, settimanale leader d’informazione politica ed economica internazionale, afferma, dalla copertina del suo ultimo numero e senza mezzi termini che le disuguaglianze non sono ciò che sembrano (e di cui tutti parlano), sono “illusions“. Secondo la rivista britannica, negli Stati Uniti le stime di disuguaglianza di noti studiosi come Thomas Piketty, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman sarebbero esagerate e verrebbero contraddette da studi più recenti. In Europa, invece, i dati non permetterebbero di individuare alcuna tendenza certa delle misure di disuguaglianza economica. Da queste evidenze, la rivista estrae il segnale di una grande “incertezza” su come stanno davvero le cose. Ma a ben guardare, e paradossalmente, proprio quei diversi dati e quegli stessi studi citati ci regalano anche una “certezza”: che dagli anni ’80 le disuguaglianze economiche sono cresciute sia in USA che in larga parte dell’Europa, Italia inclusa.

Il merito dell’editoriale di The Economist è aver messo alla luce, in maniera eloquente e autorevole, un dibattito accademico in corso sulla natura incerta delle stime di disuguaglianza di reddito (tutto ciò che guadagnamo ogni anno dal lavoro, dall’attività d’impresa o come rendimento degli investimenti finanziari) e di ricchezza (il valore totale dei patrimoni immobiliari e finanziari al netto di tutti debiti). La rivista si focalizza in particolare sulle misure, assai usate di recente, che confrontano quanto reddito e quanta ricchezza si concentrano nelle mani delle elites, ovvero dei segmenti più ricchi della popolazione (ad esempio, l’1% più ricco), portando l’attenzione sulla molteplicità di fattori alla base delle differenze di stima. Lo sguardo è rivolto soprattutto agli Stati Uniti e a una ricerca di due studiosi del Tesoro e del Congresso americano, Gerald Auten e David Splinter, che evidenza come la concentrazione di reddito sia aumentata molto di meno di quanto stimato da Piketty, Saez e Zucman in un altro studio, e addirittura potrebbe non essere aumentata per nulla se si considera l’effetto redistributivo totale dell’intervento dello Stato attraverso le imposte, i trasferimenti e la fornitura di servizi e di beni pubblici. A rendere la diatriba fra i due gruppi di studiosi più interessante è aver utilizzato in larga misura le stesse banche dati.

È importante capire come questi studi si differenzino dalla letteratura esistente sulle disuguaglianze di reddito. L’oggetto delle analisi è la distribuzione di tutto il reddito nazionale, molto vicino, per intendersi, alla definizione di prodotto interno lordo. Le stime utilizzano tutte le informazioni dichiarate o comunicate automaticamente al fisco come base per raggiungere una definizione molto più ampia di reddito stimata nella contabilità nazionale. Le analisi partono dal presupposto che i dati di origine fiscale sono parziali perché molti redditi sono evasi e altri non sono dichiarati in quanto esenti da tassazione. Ad esempio, quasi tutte le plusvalenze sul valore del patrimonio immobiliare o finanziario non vengono mai tassate se non al momento della vendita. Altri redditi, invece, non sono distribuiti direttamente ai lavoratori ma sono pagati dai datori di lavoro (si pensi ad alcuni contributi pensionistici). Altri redditi ancora sono direttamente imputati, come l’affitto che si dovrebbe pagare se non si fosse proprietari di casa; anche i profitti di impresa non distribuiti agli azionisti, reinvestiti in azienda oppure confluiti nel pagamento di imposte sui profitti di impresa, sono considerati redditi individuali ai fini di questo esercizio.

La serie di assunzioni necessarie per attribuire tutti questi redditi non direttamente osservabili crea la prima forbice nelle stime sui livelli di concentrazione di reddito messe in evidenza negli articoli di The Economist. L’incertezza aumenta se si cerca di misurare l’effetto redistributivo dello Stato, ripartendo fra le persone tutte le imposte e tasse dovute (anche quelle locali, sui consumi o patrimoniali), tutti i trasferimenti monetari di sostegno alle famiglie e quelli non monetari (come l’assistenza sanitaria pubblica) o addirittura la spesa per i beni pubblici di consumo collettivo (difesa, sistema giudiziario, istruzione etc.). È soprattutto quest’ultimo, importante ma complesso, esercizio a suggerire, secondo alcune stime, che le disuguaglianze di reddito non sarebbero cresciute.

A prescindere dalle incertezze nelle stime, esistono, tuttavia, obiezioni concettuali all’opportunità di considerare trasferimenti non monetari e la fornitura di beni pubblici alla stregua di reddito individuale vero e proprio, pur riconoscendo – e questo è un aspetto molto rilevante – che le nuove stime basate sul reddito nazionale permetterebbero di analizzare la crescita economica e la distribuzione dei redditi in maniera coerente e che le imputazioni tengono conto di servizi e beni pubblici che aumentano chiaramente il benessere degli individui. In breve, le imputazioni del valore dei servizi e dei beni pubblici allontanano sempre di più la definizione di reddito da quella generalmente comprensibile ai più, la quale concerne semplicemente quanto si trova “all’interno del proprio portafoglio”. Inoltre, l’assegnazione di un valore monetario individuale alla fornitura di servizi pubblici collettivi e non monetari potrebbe apparire un controsenso, essendo i beni pubblici per definizione non rivali e non escludibili. Infine, a parità di altre condizioni, questa tipologia di reddito sarebbe più alta al crescere dei costi per la fornitura dei servizi (ad esempio, il costo dei servizi sanitari è particolarmente elevato negli Stati Uniti).

Rispetto alle incertezze, poi, ciò che è molto meno evidente nella narrazione complessiva di The Economist è che i dati pubblicati e le fonti citate non offrono solo incertezze, ma anche chiarezza su alcuni punti che vale la pena ribadire, perché non secondari. Ad esempio, a partire dagli anni ’80 negli Stati Uniti, l’operare del mercato restituisce, secondo tutte le stime, una distribuzione dei redditi sempre più disuguale, a monte di ogni intervento governativo. Del resto, decenni di studi istituzionali e accademici rivelano chiaramente un aumento marcato delle disuguaglianze dei redditi di mercato, facendo uso di fonti diverse come le indagini campionarie sui redditi delle famiglie e di indicatori di disuguaglianza più “classici” e ampi (come l’indice di Gini, che copre tutta la popolazione e non solo i segmenti più ricchi). Anche per buona parte dei paesi europei, gli stessi dati e studi citati da The Economist suggeriscono un aumento sostanziale della disuguaglianza di reddito (anche tenendo conto della definizione di reddito nazionale) a partire dagli anni 80, mentre la crescita appare molto debile o nulla solo a partire dagli anni 90 o 2000.

Passando agli indicatori di concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi, per gli Stati Uniti, The Economist cita un ulteriore lavoro di Zucman e Saez mettendolo a confronto con un nuovo studio di Matthew Smith, Owen Zidar, e Eric Zwick che mostrerebbero un aumento molto meno marcato della concentrazione della ricchezza netta. Entrambi gli studi confermano, tuttavia, che la concentrazione di ricchezza è inconfutabilmente accresciuta, anche se il livello potrebbe essere più basso di quello che si potrebbe intendere.

In Europa, anche le stime più conservative per il Regno Unito (ottenute senza imputazioni di ricchezza non riportata nei dati fiscali perché evasa o perché esente da tassazione) segnano un aumento della concentrazione della ricchezza di circa il 25% a partire dagli anni 80. L’aumento di medio-lungo periodo appare evidente anche in Danimarca e Francia, anche se la dinamica di medio periodo appare più incerta. L’Italia non viene menzionata nell’analisi perché non esistono ancora nel dominio pubblico analisi confrontabili con quelle di altri paesi. Ma le stime preliminari prudenziali esistenti ci dicono che la quota di ricchezza totale dell’1% più ricco risulta cresciuta di circa 6 punti percentuali dalla metà degli anni ‘90. La conferma di un’accresciuta disuguaglianza di ricchezza che implicitamente viene proprio dalla rivista britannica è un segnale importante per l’azione delle politiche, visti i forti effetti che tale disuguaglianza ha su tutte le altre disuguaglianze e la sua tendenza ad amplificarsi e cristallizzarsi nel tempo.

L’incertezza sul livello esatto della concentrazione della ricchezza non è irrilevante perché ha implicazioni importanti sulle stime dei potenziali introiti fiscali provenienti dal diverso disegno di imposte sulla ricchezza, come proposto negli Stati Uniti nel corso della campagna presidenziale del 2020. Ciò nonostante, l’incertezza non è tale da mettere in discussione la crescita della disuguaglianza anche di ricchezza.

Secondo gli studiosi più attenti alle dinamiche delle disuguaglianze economiche, come l’economista britannico Anthony Atkinson morto nel 2017, l’aumento delle disuguaglianze economiche non è un caso, ma il frutto di un inversione delle politiche pubbliche attuate nel corso degli ultimi decenni. “La causa dell’accresciuta disuguaglianza è spesso rintracciabile nei cambiamenti della bilancia del potere” (A. Atkinson, Inequality. What can be done?  Harvard University Press, 2015, p. 83). È la considerazione che ha indotto molti, e fra questi il Forum Disuguaglianze e Diversità in Italia, a proporre l’adozione urgente di misure re-distributive che facciano leva sul regime fiscale per favorire la creazione di pari opportunità e, soprattutto, di misure pre-distributive che affrontino le disuguaglianze “all’interno del mercato”, dove esse si formano, attraverso un ribilanciamento di poteri.

In conclusione, le “incertezze” delle stime portate alla luce dalla rivista devono essere un importante monito al disegno degli interventi re-distributivi e alla misura robusta dei loro effetti. Rappresentano, inoltre, un buon segnale di vitalità e diversità della disciplina che prenda sul serio misure fondamentali come quelle della distribuzione del reddito e della ricchezza. Le incertezze delle stime potrebbero essere di gran lunga ridotte con massicci investimenti istituzionali nelle basi statistiche e con una maggiore trasparenza e accessibilità di quelle esistenti per la ricerca. Queste incertezze fisiologiche non dovrebbero, tuttavia, costituire l’alibi per non agire con urgenza, ritardando l’implementazione di una seria agenda di avanzamento della giustizia sociale, e quindi di ribilanciamento dei meccanismi di creazione dei redditi e di ricchezza affiancati da un rafforzamento della progressività fiscale. Nonostante, tutto, è questa una linea d’intervento che trova conferma nelle “certezze” stesse implicite nei dati raccolti da The Economist.

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