Le disuguaglianze economiche in Italia durante il regime fascista

Giacomo Gabbuti, dopo avere osservato che con l’avvicinarsi del centenario della Marcia su Roma, si torna a parlare di fascismo non solo nei convegni di storia, sostiene che è particolarmente utile studiare il Ventennio anche dal punto di vista di un fenomeno al quale si sta cominciando a dare l’attenzione che merita: la disuguaglianza economica. Gabbuti presenta, al riguardo, nuove stime della quota dei salari sul reddito nazionale e dell’andamento dei redditi più elevati dai quali emerge la tendenza della disuguaglianza a peggiorare durante il Ventennio.

Negli ultimi anni è cresciuta l’attenzione per lo studio delle disuguaglianze nell’analisi economica. Ponendo i riflettori non solo sulla formazione e l’andamento di reddito, ricchezza, consumi, ma anche sul modo in cui tali variabili si distribuiscono tra la popolazione, gli economisti contribuiscono a far crescere la sensibilità della società rispetto alla necessità di una più equa ripartizione delle risorse economiche e, al tempo stesso, forniscono risposte alla curiosità che nasce da quella sensibilità. Inevitabilmente tutto ciò si proietta anche sulla ricerca storica: se economisti come Thomas Piketty cercano indicazioni per interpretare il presente dalla storia economica, gli storici adottano gli strumenti affinati dagli studiosi delle disuguaglianze, per valutare con lenti nuove lo sviluppo economico del passato.

Nel caso del regime fascista, gli aspetti distributivi hanno caratterizzato, fin dal principio, la riflessione politologica e storiografica: dalle lezioni togliattiane sul fascismo, ai “padroni del vapore” di Ernesto Rossi, fino al dibattito sul consenso, le spiegazioni sulle origini del fascismo, e sulla sua presunta capacità di godere del favore di una parte consistente della popolazione, hanno più o meno implicitamente poggiato su dati, o assunzioni, di tipo distributivo. Già in quegli stessi anni, gli economisti e statistici italiani che erano alla frontiera della misurazione delle disuguaglianze si occuparono dell’impatto di guerra e inflazione sui ceti medi. Ancora oggi resta, invece, da appurare il ruolo che le politiche pubbliche hanno avuto nel proteggere quelle stesse classi sociali dalle conseguenze della Grande Depressione. Al riguardo è utile ricordare che, almeno sulla carta, le istituzioni corporative si promettevano di conciliare gli interessi di lavoratori e capitalisti – e ciò valse al regime anche il plauso di osservatori internazionali – e, inoltre, che lo stesso Mussolini incluse l’equità (in diversi aspetti) nella propaganda del regime, soprattutto quando la crisi del ’29 lo spinse ad assumere toni anti-capitalistici. In un discorso dell’ottobre 1934 agli operai di Milano, giunse ad affermare:

(…) Il Fascismo stabilisce l’uguaglianza verace e profonda di tutti gli individui di fronte al lavoro e di fronte alla Nazione. (…) l’obiettivo del Regime nel campo economico è la realizzazione di una più alta giustizia sociale per tutto il Popolo italiano. (…) Io vi dico che la scienza moderna è riuscita a moltiplicare le possibilità della ricchezza; la scienza, controllata e pungolata dalla volontà dello Stato, deve risolvere l’altro problema: il problema della distribuzione della ricchezza in modo che non si verifichi più l’evento illogico, paradossale ed al tempo stesso crudele, della miseria in mezzo all’abbondanza. (…)

Nel centenario della fondazione del Partito Nazionale Fascista, mentre il fascismo viene evocato più o meno a sproposito nell’arena politica, sembra quanto mai necessario che gli storici economici contribuiscano (nei limiti imposti dalla disponibilità delle informazioni, e dalla natura delle “scienze” storiche ed economiche) a una conoscenza il più possibile accurata delle reali conseguenze del regime fascista sulle condizioni di vita degli italiani, e sulle disuguaglianze tra persone, classi sociali, aree del paese, uomini e donne. Questa è la motivazione alla base del mio articolo – A Noi! Income Inequality and Italian Fascism: Evidence from Labour and Top Income Shares – premiato dall’Associazione Marcello De Cecco, nel quale, oltre a ricostruire l’importanza della questione alla luce del dibattito storiografico sul fascismo, ho riassunto l’evidenza resa disponibile dagli storici economici negli ultimi anni e ho presentato nuovi indicatori sulla distribuzione del reddito.

Se, come ha scritto Alessio Gagliardi, la storia economica ha perso centralità nel dibattito sul fascismo, i risultati delle ricerche degli ultimi decenni permettono uno sguardo ben più informato sull’andamento dell’economia nel periodo tra le due guerre. Mentre la revisione della contabilità nazionale, sintetizzata nel volume di Alberto Baffigi, restituisce un’immagine più veritiera dell’impatto della grande depressione – con il Pil che tornerà solo nel 1937 ai livelli pre-crisi – ricerche come quelle di Emanuele Felice sui divari regionali, e soprattutto quelle di Giovanni Vecchi e coautori sul benessere economico, ci permettono di cogliere il grande aumento non soltanto delle disuguaglianze tra regioni (che proprio in questi anni esplosero, raggiungendo il picco con la seconda guerra mondale), ma anche dell’incidenza della povertà, della malnutrizione e del lavoro minorile, che erano invece andati migliorando nei decenni precedenti, a partire dall’Unità. Dunque, nonostante gli incrementi di longevità, largamente attribuibili ai miglioramenti igienico-sanitari – e del resto comuni agli altri paesi – è difficile sostenere che “si stesse meglio quando si stava peggio”, almeno per la maggioranza degli italiani.

A questo quadro, il mio lavoro contribuisce verificando se sia peggiorata anche la distribuzione del reddito. Quella della ricchezza – di grande interesse, soprattutto in relazione a sconvolgimenti di natura politica – non possiamo purtroppo indagarla, per la mancanza di statistiche ufficiali: l’imposta di successione (le cui tabulazioni sono tra le fonti ancora oggi più utilizzate per lo studio della concentrazione della ricchezza) venne abolita dal regime nel 1923, proprio mentre, come hanno ricostruito i politologi David Stasavage e Kenneth Scheve, raggiungeva livelli confiscatori nel resto del mondo, per compensare le sofferenze imposte dalla Guerra ai lavoratori con la “coscrizione del capitale”.

È invece possibile, grazie anche alle nuove serie di contabilità nazionale, stimare un indicatore “classico” della distribuzione del reddito come la quota dei salari su reddito nazionale, la cosiddetta distribuzione funzionale. Grazie alle serie da me ricostruite, e discusse in maggior dettaglio in un altro articolo, è possibile fornire una stima migliore rispetto al passato di questo indicatore che, però, non è ancora quella ideale, come avviene quasi sempre quando si tratta di dati storici e non raggiunge gli standard cui oggi sono abituati gli economisti. Ciò rende necessaria ulteriore ricerca. Dai risultati raggiunti, e riportati nella Fig. 1 a confronto con la serie che appena dieci anni fa l’economista britannico Andrew Glyn poteva ricostruire sulla base dei dati allora disponibili, è comunque possibile ricavare alcune interessanti indicazioni.

Anzitutto, la prima guerra mondiale ebbe un impatto molto negativo sulla quota salari; il biennio rosso, che seguì, sostanzialmente consentì il “recupero” delle posizioni perse con la guerra, poiché il miglioramento rispetto al periodo pre-bellico fu minimo. In ogni caso, successivamente alla Marcia su Roma, la quota dei salari declina costantemente, perdendo circa 15 punti. Il suo “rimbalzo” durante la Grande Depressione, come mostra la comparazione con gli altri paesi (e anche l’esperienza della crisi del 2008), è “fisiologico”, per la maggiore elasticità dei profitti; presto, la quota tornerà a scendere, e sembra difficile che le politiche di moderazione salariale imposte dal regime – e più in generale la natura regressiva delle politiche di contrasto alla crisi, già discusse da Paolo Sylos Labini – siano estranee a questo andamento.

Nel frattempo, però, è aumentata la quota di reddito dei più ricchi, in particolare del top 1 e 0.1%. Come mostra la fig. 2, tali quote risultano in aumento a partire dal 1925 (quando divennero disponibili i primi dati sull’Imposta Complementare Progressiva) e fino ad almeno il 1936 – quindi anche durante la crisi. In questo caso l’evidenza – peraltro mai utilizzata prima e ricostruita a partire proprio dai contributi degli studiosi che, sulla scia di Pareto e Gini, discutevano della distribuzione dei redditi – è da prendere con cautela anche maggiore, trattandosi di dati fiscali. Infatti, come spiego più dettagliatamente nel mio lavoro, nonostante l’introduzione della prima forma di imposta progressiva sui redditi personali e la “guerra agli evasori” dichiarata dal ministro De’ Stefani, vi è motivo di credere che l’evasione sia stata forte soprattutto tra i più ricchi e, quindi, l’aumento della disuguaglianza effettiva sia superiore a quelle che emerge dai dati fiscali; allo stesso tempo, i dati per il 1914 e del 1952 sono di difficile comparabilità, mentre non è chiaro quanto il “crollo” successivo al 1936 sia dovuto alla gestione assai lasca delle finanze pubbliche negli anni di guerra.

 

Anche in questo caso, è necessaria ulteriore ricerca, per “dissotterrare” dati meno aggregati, più continui e di origine diversa, che ci permettano non solo di sopperire ai limiti delle fonti, ma di cogliere in tutta la sua complessità un fenomeno variegato come la disuguaglianza economica. Dati più dettagliati potranno forse aiutarci a distinguere l’impatto di fattori esogeni – come la crisi internazionale, o i divieti all’emigrazione posti dagli altri paesi – da quelli direttamente attribuibili alle politiche economiche e sociali del regime. In ogni caso, l’evidenza al momento disponibile sembra indicare che il fascismo rappresentò un importante passo indietro nella riduzione della disuguaglianza – una significativa inversione di tendenza rispetto a uno sviluppo economico fino ad allora tutto sommato “benevolo”, come discuteva Gianni Toniolo; e se la “miseria in mezzo all’abbondanza” è ancora tra noi, sarà solo la Repubblica, soprattutto con le riforme degli anni ’70, a portare un po’ di quella “giustizia sociale” vaneggiata da Mussolini. In un’ottica più generale, in un periodo come quello tra le due guerre in cui, secondo Piketty, la disuguaglianza tendeva a ridursi un po’ ovunque, l’esperienza del fascismo italiano (e quella del nazismo tedesco) ci ricorda come questa rimanga il prodotto di storia, istituzioni, politiche: quelle messe in campo dal fascismo sicuramente contribuirono a fare dell’Italia un paese meno equo e giusto. In tempi in cui il fascismo viene evocato sempre più spesso e a sproposito, può essere utile ricordarlo (e quantificarlo).

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