Le disuguaglianze che dividono il mondo e come ridurle

Eugenio Occorsio e Stefano Scarpetta sintetizzano i principali contenuti del loro recente libro "Un mondo diviso. Come l’Occidente ha perso crescita e coesione" (Laterza, 2022). I due autori presentano i dati sulle disuguaglianze di reddito e di ricchezza nei paesi Ocse e sottolineano il legame tra queste disuguaglianze e la mobilità sociale, nonché il loro impatto sulla classe media desumendone che occorrono non solo politiche redistributive ma anche con politiche per l’accesso a istruzione, salute e lavoro.

Il tema delle disuguaglianze è tornato con il Covid prepotentemente al centro del dibattito politico e sociale. Ne ha parlato il Presidente della Repubblica nel suo discorso d’insediamento. È un tema ricorrente nelle dichiarazioni dei Leader del G7 e del G20, ed è al centro dei programmi di rilancio di molti paesi. La pandemia ha rivelato con brutalità come le diseguaglianze che si sono accumulate negli ultimi decenni stiano non solo minando la coesione sociale, ma ci abbiano resi tutti più vulnerabili economicamente e socialmente. Ma quasi come un paradosso, la crisi pandemica offre anche un’opportunità forse unica: la possibilità concreta di ricostruire in fretta il tessuto sociale sfibrato da questa crisi epocale, e se possibile di ricostruirlo meglio. Sono questi i temi che discutiamo nel nostro libro Un Mondo Diviso. Come l’Occidente ha Perso Crescita e Coesione Sociale (Laterza, 2022).

I dati sull’aumento tendenziale delle disuguaglianze co­minciano solo ora a riflettere l’impatto della pandemia del Covid-19, ma molti segnali ci dicono che c’è un rischio reale che la crisi contribuisca ad ampliare ulteriormente il fossato tra chi sta in basso e chi sta in alto. A livello globale, la pandemia ha fatto saltare tutti i progetti di riduzione della povertà estrema: entro il 2030 do­veva essere ridotta al di sotto del 3% la quota di popolazione mondiale che vive con meno di 1,9 dollari al giorno. Le proiezioni più recenti ci dicono che difficilmente si potrà scendere sotto il 7%. Oggi, siamo al 9%, così la coorte dei “poveri estremi” si aggira di nuovo sugli 800 milioni di individui, un livello che si credeva abbandonato per sempre.

Ma non è un problema solo dei paesi in via di sviluppo. Anche nei paesi più avanzati con sistemi sanitari e di protezione sociale più adeguati a fronteggiare l’emergenza, i lavoratori più giovani, a bassa qualifica, le donne, i precari, sono stati particolarmente colpiti dalla recessione causata dalla pandemia. Le ingenti misure di sostegno alle famiglie e alle imprese hanno permesso in molti paesi di scongiurare un aumento delle disuguaglianze di reddito. Ma l’Istat ci ha ricordato che in Italia purtroppo lo sforzo seppur ingente non ha permesso di evitare un aumento del numero di persone in povertà assoluta: nel solo 2020, un milione di persone in più, per arrivare a 5,6 milioni in totale (9,4% della popolazione).

Le disuguaglianze di reddito e ricchezza non sono certo un fenomeno nuovo. Il fossato tra ricchi e poveri si è allargato da almeno quattro decenni nei Paesi Ocse, ed è ancora più grande in molti paesi emergenti. Nei Paesi Ocse, negli anni ’80 il reddito disponibile del 10% più ricco era in media 7 volte quello del 10% più povero, negli anni ’90 quel rapporto era di 8 a 1, negli anni 2000 di 9 a 1 e nell’ultimo decennio si è avvici­nato a 10 a 1.

Ma la cosa preoccupante che mettiamo in evidenza nel libro è che non vi è solo o soprattutto un problema di disuguaglianze di reddito e di ricchezza crescenti in ¾ dei paesi Ocse; crescono anche le disuguaglianze di accesso alle opportunità – istruzione, salute e lavoro – con la conseguenza che si riduce la possibilità per chi sta in basso di prendere il cosiddetto ascensore sociale. Secondo le stime dell’Ocse che citiamo nel libro (Ocse, The Broken Elevator, 2018), nei paesi industrializzati e emergenti, la relazione tra disuguaglianze e mobilità sociale è negativa: maggiori le disuguaglianze minore tende ad essere la mobilità di reddito da una generazione all’altra. In media nell’area Ocse, data l’elasticità del reddito tra padri e figli e date le disuguaglianze nel reddito disponibile, ci vogliono 4 generazioni e mezzo perché chi discende da una famiglia a basso reddito raggiunga il reddito medio (Fig. 1) – 135 anni! In Italia ne occorrono più di 150, come negli Stati Uniti, in Francia e Germania 180. Il meccanismo in atto è chiaro: nelle economie molto diseguali le persone a basso reddito non riescono ad investire sufficientemente nell’istruzione ed in alcuni casi nella salute dei loro figli (l’aspettativa di vita di una persona a basso livello d’istruzione e di 6,6 anni inferiore rispetto a quella di una persona ad alto livello d’istruzione) riducendo le possibilità di questi ultimi di salire sull’ascensore sociale e aspirare ad una vita da adulti migliore di quella dei loro genitori. Ma non è solo un problema per loro; il minore investimento in istruzione di una fascia importante della popolazione tende a ridurre il capitale umano del paese che, come sappiamo, gioca un ruolo sempre crescente come motore della crescita economica nelle società occidentali della conoscenza. In altre parole, elevate disuguaglianze non solo mettono a rischio la coesione sociale ma anche il potenziale di crescita economica.

 

Figura 1: Numero di generazioni attese per un discendente da una famiglia nel 10% più basso della distribuzione di reddito per raggiungere il reddito medioNota: Stime indicative basate sulla persistenza dei redditi tra generazioni (elasticità tra i redditi dei padri e dei figli) e il livello attuale dei redditi delle famiglie nell’ultimo decile della distribuzione e alla media. Fonte: OCSE, A Broken Social Elevator? How to Promote Social Mobility, 2018.

 

Ma come indichiamo nel libro, il tema delle disuguaglianze è divenuto centrale nel dibattito politico anche perché non tocca più solo chi sta più in basso, ma anche una fetta importante della classe media, il pilastro delle nostre democrazie (Ocse, Under Pressure: the Squeezed Middle Class, 2019). Come ci ricorda Milanovic (Global Inequality, 2016), vi è in realtà un paradosso che spesso confonde le acque. La classe media globale, che risiede in gran parte nei paesi emergenti, ha visto sorprendenti miglioramenti nel suo benessere; ma allo stesso tempo, nei paesi industrializzati la classe media ha visto il suo ruolo erodersi. I salari mediani stagnano da decenni; i costi per mantenere lo status crescono e i requisiti per continuare a far parte della classe media si elevano. Joseph Stiglitz ci ricorda che negli Stati Uniti il reddito disponibile mediano di un lavoratore a tempo pieno è allo stesso livello in termini reali del 1970, e i salari più bassi sono al livello di 60 anni fa. Anche nell’insieme dei Paesi Ocse, se si guarda in basso, a essere col­pito dalla stagnazione dei redditi non è stato soltanto il 10% più povero, cosa già di per sé preoccupante vista la situa­zione precaria di questo gruppo, ma spesso addirittura il 40-50%.

Dal 1995 ad oggi, i salari della classe media sono aumentati nei paesi Ocse di circa il 20%; il prezzo delle abitazioni è aumentato di più del 200%. Il risultato è che se ancora negli anni Ottanta, un lavoro stabile era sufficiente per assicurare ad una famiglia media lo status di classe media, oggi sono necessari due salari. Inoltre la classe media si assottiglia sempre più tra i giovani: dalla generazione dei baby boomer alla generazione Z, la proporzione dei ventenni che fanno parte della classe media si è inesorabilmente ridotta, anche se il livello di istruzione in ciascuna generazione è più elevato: questo sì un paradosso preoccupante.

I redditi mediani sono cresciuti molto meno dei redditi più elevati

 

Figura 2: Reddito reale disponibile, media di 17 Paesi Ocse (1985 = 100%)

Nota: Media non-ponderata di 17 paesi con lunghe serie storiche: Canada, Germania, Danimarca, Finlandia, Francia,Regno Unito, Grecia, Israele, Italia, Giappone, Lussemburgo, Messico, Paesi Bassi, Norvegia, Nuova Zelanda, Svezia, e Stati Uniti.

Fonte: Ocse, Under Pressure, The Squeezed Middle Class, Ocse, Publishing, 2019; Ocse, Income Distribution Database (http://oe.cd/idd).

 

Queste evidenze potrebbero indurci alla rassegnazione. Tony Atkinson e Joseph Stiglitz ci ricordano però con forza che se i cosiddetti megatrend – globalizzazione e progresso tecnico in particolare – tendono ad ampliare le disuguaglianze di mercato, queste ultime sono anche “l risultato di come abbia­mo strutturato l’economia di mercato, o più precisamente di come l’abbiamo ristrutturata negli ultimi trent’anni”. Nella maggior parte dei Paesi Ocse, la redistribuzione attraverso tasse e trasferimenti si è ridotta: ancora nella metà degli anni Novanta, la redistribuzione riduceva le disuguaglianze di reddito di circa un terzo nei paesi Ocse. Oggi il suo contributo si è ridotto ad un quarto, a causa della minore progressività delle imposte sul reddito ma anche di trasferimenti che sono maggiormente legati all’attivazione dei beneficiari verso il lavoro piuttosto che diretti al sostegno del reddito dei più poveri. Le famiglie a basso reddito sono quelle che hanno pagato di più per la minore redistribuzione. Allo stesso tempo, il 40% più ricco è quello che ha beneficiato di più della riduzione della progressività delle imposte sul reddito e ricchezza.

Ma è altrettanto importante affiancare il ruolo pur essenziale della redistribuzione con politiche volte a favorire l’accesso alle opportunità per le fasce della popolazione più svantaggiate. In particolare, è essenziale investire nel capitale umano – istruzione e salute – dai primi mesi di vita e lungo tutto il periodo formativo e lavorativo. I dati che riportiamo nel libro ci dicono chiaramente che, anche nei paesi in cui l’accesso all’istruzione e alla salute sono universali, il contesto socio-economico gioca un ruolo fondamentale nella reale fruizione di questi servizi. Un dato su tutti: in Italia due terzi dei ragazzi nati da genitori che non hanno completato le scuole superiori non vanno oltre il livello di istruzione dei loro genitori, contro una media del 42% in media Ocse. Inoltre, quasi il 40% dei figli di chi è occupato in lavori manuali diventano loro stessi lavoratori manuali.

Affrontare queste sfide richiede risorse pubbliche significative e in passato si è spesso obiettato che nel nostro come in molti altri Paesi Ocse i vincoli della finanza pubblica impedivano gli investimenti necessari, anche si poteva obiettare che si trattava non solo di spesa pubblica aggiuntiva ma anche di una sua migliore allocazione. Le risorse messe in campo da molti Paesi – tra cui l’Italia — per sostenere famiglie e imprese durante la pandemia e promuovere la ripresa sono senza precedenti e offrono nuove opportunità in questo senso; anche il piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa dalle macerie della Seconda guerra mondiale (circa 140 miliardi di dollari di oggi) impallidi­rebbe al confronto. In Italia, il Pnrr può permettere, se usato con efficacia, di portare il nostro paese nel futuro investendo nel digitale e nella crescita sostenibile, ma anche e soprattutto di affrontare quei nodi cruciali che sono alla base dell’aumento delle disuguaglianze nell’accesso alle opportunità per chi è più svantaggiato. Ma non basta favorire l’accesso occorre anche migliorare la qualità della formazio­ne scolastica, dall’asilo nido all’università. E occorre molto altro: la formazione per gli adulti che affrontano cambiamenti epocali sul mercato del lavoro; una sanità per tutti, vista come un investimento e non come un capitolo di spesa da tenere sotto controllo; un sistema di protezione sociale che offra a tutti una rete di sicurezza contro gli imprevisti della vita, anche a prescindere dal tipo di contratto di lavoro. È una scommessa dalle molte incognite ma dalla posta altis­sima: la capacità di costruire un mondo migliore di quello in cui ci trovavamo allo scoppio della pandemia.

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