Le decisioni politiche e l’influenza delle organizzazioni sociali. Qualche riflessione.

Maurizio Franzini raccogliendo la sollecitazione di Cristiano Gori, avanzata nel suo articolo sul Reddito di Emergenza pubblicato sullo scorso numero del Menabò, avanza alcune riflessioni generali sul ruolo positivo che le organizzazioni rappresentative della società civili possono avere nell’indirizzare e nel migliorare le decisioni politiche in tema di welfare e sui diversi fattori dai quali può dipendere la loro effettiva capacità di influenzare quelle decisioni.

Sullo scorso numero del Menabò Cristiano Gori ha ricostruito i passaggi principali del percorso che ha portato alla introduzione, da parte del governo, del Reddito di Emergenza (REM), originariamente proposto dal Forum Disuguaglianze Diversità insieme a Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) e allo stesso Gori, non nascondendo, però, il proprio disappunto (anzi, nei suoi termini, la propria frustrazione) per le difformità, in aspetti non secondari, della misura introdotta rispetto a quanto proposto dalla coalizione di associazioni.

Partendo da questo ‘disappunto’, Gori solleva due questioni di grande importanza che esprimo qui con le sue stesse parole: “come si fa a convincere la politica a far propria un’idea che si ritiene giusta? In che modo bisogna riformare le politiche di protezione del reddito in Italia dopo la comparsa del Covid-19?”

In queste brevi note cercherò di avanzare qualche riflessione sulla prima delle questioni poste da Gori chiedendomi quale sia il contributo che “soggetti competenti” della società civile possono dare alla introduzione di “buone” politiche (le virgolette servono a risparmiare precisazioni sull’accezione dei termini) e cosa può, alla fine, determinare la loro effettiva influenza sul disegno di quelle politiche.

Le brevi riflessioni che seguono non hanno lo scopo di chiarire perché sia accaduto quel che è accaduto rispetto al REM. Né di farlo anche rispetto ad altra recentissima decisione del governo che, sotto molti aspetti, si potrebbe prestare ad analoghe critiche; mi riferisco a quella sulla scuola di cui dà conto Corsini in questo numero del Menabò e che ha provocato nei soggetti coinvolti e nelle collegate associazioni, anch’esse partecipi del processo decisionale, una frustrazione apparentemente non troppo diversa da quella provata da Gori. Dunque, la domanda generale sulla quale mi propongo di riflettere può essere così formulata: perché (troppo spesso) le decisioni del governo, rispetto a problemi economici e sociali molto sensibili, non rispettano o rispettano solo parzialmente le posizioni di soggetti che sono espressione della società civile, che sono dotati di competenze e che, in qualche modo e opportunamente, vengono coinvolti dal governo stesso nel processo decisionale?

Il punto di partenza, messo bene in luce da Gori, è che non siamo di fronte al più tradizionale problema del ruolo degli esperti e dei consulenti nelle decisioni di Governo. Questo ruolo è stato di natura e di rilevanza variabili nel corso del tempo e sarebbe forse utile una ricostruzione storica della sua evoluzione. Con riferimento alla realtà americana, molto istruttiva sotto questo aspetto, si tratterebbe, ad esempio, di iniziare dal famoso Brains Trust istituito da Franklin Delano Roosevelt appena insediato alla Casa Bianca nel pieno della Grande Depressione (e di cui facevano inizialmente parte 3 autorevoli accademici della Columbia University: Moley, Tugwell e Berle) per arrivare fino alll’Office of Information and Regulatory Affairs istituito da Obama e diretto da Sunstein, autorevole giurista dell’Università di Harvard. Su quella esperienza Sunstein ha scritto un piccolo libro (The Cost-Benefit Revolution, The MIT Press, 2018), che contiene preziose osservazioni anche per il nostro tema e che richiamerò parzialmente tra breve.

Per cogliere la specificità di situazioni come quelle di cui dà conto Gori e per dar adeguato rilievo alle caratteristiche dei soggetti coinvolti e della loro attività, credo sia utile fare riferimento alla nozione Hirschmaniana di voice. Lo spazio di dialogo con il governo che le Associazioni in vario modo rappresentative dei segmenti più deboli della società conquistano serve, soprattutto, a far sentire la voice di quei segmenti deboli della società, che in un mondo di unequal voice, come è largamente quello contemporaneo,  sarebbe condannata dai ‘normali’ processi di decisione democratica a uno stato di grave afonia (cfr. K. L. Schlozman, H.E. Brady, S. Verba, Unequal and Unrespresented: Political Inequality and the People’s Voice in the New Gilded Age, Princeton University Press, 2018).

Si tratta di un modo non diretto ma mediato – mediato da chi dispone di competenze e conoscenze adeguate – di far sentire quella voice nelle sue ragioni e di indicare i modi per assecondarla. Una voice che possiamo assumere, pena la sua delegittimazione, esente da gravi errori informativi o da subordinazione a interessi in contrasto con l’obiettivo di rendere meno deboli i più deboli.

Intesa prevalentemente come voice informata e competente, l’azione di Associazioni di questo tipo può essere complementare e non necessariamente sostitutiva dell’operato di esperti interni al governo. Al riguardo può venire in soccorso una delle raccomandazioni formulate da Sunstein per migliorare le decisioni del governo, che nel suo caso vuole soprattutto dire fare il miglior uso possibile dell’analisi costi-benefici, correttamente intesa (quindi non limitandola alla sola dimensione finanziaria). Questa raccomandazione riguarda il cosiddetto “notice and comment” che Sunstein presenta così: sulle politiche che si intendono attuare occorre sollecitare opinioni e commenti di un vasto pubblico non tanto allo scopo di conoscere le preferenze prevalenti – dunque non si tratta di una sorta di referendum preventivo – ma soprattutto per raccogliere osservazioni e informazioni utili a migliorare il disegno delle politiche. Ad esempio, le reazioni dei rispondenti possono permettere di individuare effetti di cui non si era tenuto adeguatamente conto. Operando come esperto del governo, Sunstein avverte la necessità di conoscere le reazioni della popolazione per decidere meglio. La voice delle Associazioni può in qualche modo svolgere preventivamente questo compito di informazione e verifica, in particolare sulle questioni di welfare.

Dunque, vi sono valide ragioni per considerare la voice delle Associazioni e le competenze degli esperti interni al governo come complementari rispetto all’obiettivo di assumere buone decisioni. Tornando alla questione che qui più interessa, vi sono anche ragioni per ritenere, malgrado sembri un paradosso, che la mancanza di esperti nel Governo (almeno del tipo immaginato da Sunstein) possa, alla fine, limitare l’influenza delle Associazioni sul Governo. La semplice ragione è che le informazioni fornite da queste ultime non sono adeguatamente valorizzate.

Cerco ora di indicare, più in generale, alcune possibili ragioni perché quella voice, competente e rappresentativa di acuti problemi sociali, può essere, in tutto o in parte, non ascoltata. Le ragioni che vengono alla mente – e di certo non sono esaustive – sono diverse e possono essere ricondotte a due tipologie.

La prima è, appunto, la mancanza o la insufficiente elaborazione delle informazioni relative a quelli che sinteticamente chiamerò i costi e i benefici della misura raccomandata. Sunstein, sulla base della sua esperienza, sostiene che le questioni sulle quali più ci si divide riguardano molto spesso i fatti (cioè i costi e i benefici) e non i valori ultimi. Dove c’è più conoscenza e più fiducia nei dati c’è meno conflitto ideologico. Si noti anche che tra i costi si possono includere anche quelli, eminentemente di natura burocratico-amministrativa, che il governo (a torto o a ragione) percepisce in relazione alla introduzione della misura proposta.

La seconda tipologia di cause si riferisce, invece, al possibile conflitto tra le proposte avanzate dalle Associazioni e altri, anche commendevoli, obiettivi del Governo.

Gori, per spiegare la decisione del governo sul REM, mi pare che faccia riferimento soprattutto a circostanze del primo tipo, che egli riconduce anche a carenze delle Associazioni: “la difficoltà a produrre tutte le note e i documenti che sarebbero stati necessari nei vari passaggi” e l’incapacità “di elaborare tutte le indicazioni tecniche ed applicative necessarie”.

Tutto ciò può essere rilevante in generale e nel caso in esame può perfino essere stato decisivo per alcune scelte; ma non sono in grado di confermarlo o escluderlo. Ma questo non equivale a negare la rilevanza (in generale, e chissà se anche nel caso specifico) delle cause che rientrano nella seconda tipologia che, peraltro, possono sommarsi alle precedenti. L’argomento è semplice: il governo può, più o meno legittimamente, perseguire una pluralità di obiettivi e le specifiche modalità di attuazione della proposta raccomandata possono avere effetti negativi sul grado di conseguimento di altri obiettivi. Si possono, cioè, generare trade off. Naturalmente sarebbe molto importante, per valutare l’operato del governo, conoscere la natura di quegli obiettivi. Si può trattare di obiettivi opportunistici o che consistono nell’attaccamento ‘inerziale’ del governo a misure precedentemente assunte cui si attribuisce un ruolo quasi ‘identitario’ che non potrebbero mai figurare, per fare riferimento a uno strumento analitico ben noto agli economisti, in un’accettabile funzione del benessere sociale; ma si può trattare anche di obiettivi corrispondenti a valori ‘alti’ che, almeno oltre un certo limite, possono entrare in conflitto con quelli promossi dalla voice delle Associazioni.

Naturalmente, la tempestiva conoscenza della natura dei fattori che fungono da ostacolo principale all’adozione della misura da parte del Governo può essere di ausilio alle Associazioni per orientare la propria azione e massimizzare le possibilità di successo, ammesso che dispongano delle risorse necessarie per svolgere questa azione – un punto, questo, su cui Gori richiama l’attenzione. Dunque, l’influenza delle Associazioni sul Governo dipende, e non poco, dal grado in cui il Governo si mostra disponibile a farsi influenzare.

Quale conclusione per queste mie provvisorie riflessioni? La voice delle Associazioni può essere essenziale per migliorare (e sensibilmente) il processo decisionale, e ciò può darsi – almeno in alcuni casi – anche se l’esito del processo non dovesse coincidere con quello auspicato dalle Associazioni. Una decisione politica è migliore, nella mia accezione, se è meno contaminata da errori o carenze informative, se è meno condizionata da superabili ostacoli realizzativi e se non è indebolita da una insufficiente discussione – almeno parzialmente pubblica – degli eventuali trade off in gioco.

Perché ciò avvenga è, però, indispensabile che si realizzino molte altre condizioni; in particolare occorre un feedback continuo e puntuale da parte governo nei confronti delle sue controparti, cioè un’interlocuzione sulle proposte (resa eventualmente più agevole dalla presenza di esperti ‘interni’) che possa permettere, dapprima, di impegnarsi a cercare di superare quelli che il Governo considera ostacoli all’adozione delle raccomandazioni e poi, eventualmente, di capire, senza troppi dubbi, perché le decisioni assunte sono state quelle che sono state. Di tutto ciò si avvantaggerebbero enormemente  la democrazia e l’accountability.

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