Le crisi e i redditi dei ricchi

Salvatore Morelli esamina, in una prospettiva storica, l’effetto che le crisi bancarie e finanziarie sistemiche hanno sulle quote di reddito dei più ricchi, i cosiddetti top income, nei paesi avanzati. Morelli mostra che in generale l’effetto è negativo per i super- ricchi mentre è positivo per la classe medio-alta. Nella crisi la disuguaglianza nei redditi tende a ridursi ma questo effetto è piuttosto contenuto e appare in alcuni casi temporaneo. Nel complesso, secondo Morelli, le forze di mercato più distruttive non sembrano, da sole, in grado di scalfire le concentrazioni estreme di reddito.

Sotto la forza d’urto della crisi finanziaria, tra il 2007 e il 2013,  il reddito disponibile reale delle famiglie italiane  è diminuito del 13% in termini pro capite,  mentre i loro consumi e la loro ricchezza netta si sono ridotti entrambi di circa il 10%. Anche altri paesi avanzati hanno sperimentato una simile flessione del benessere economico.

Queste forti perdite hanno aperto ferite di una profondità mai più vista dopo il secondo dopoguerra e non è, perciò, un caso che lo scoppio della crisi abbia riportato alla ribalta gli studi accademici sulla distribuzione del reddito e della ricchezza e abbia riacceso l’attenzione per molte delle questioni affrontate in quegli studi. Le domande alle quali si vorrebbe idealmente dare risposta sono numerose: i lavoratori e le lavoratrici con reddito più alto sono più o meno esposti ai tagli delle remunerazioni e dell’occupazione che conseguono a una crisi economica? Le perdite economiche dei ceti meno abbienti sono state mitigate dai meccanismi caratteristici dei diversi sistemi di welfare e dagli interventi dei governi? Durante la crisi si è interrotto o ha proseguito il trend di crescita positivo delle disuguaglianze?

Rispondere in modo completo a queste domande è un compito complesso, reso ancora più complesso dalla limitata disponibilità di dati.

In questo articolo, utilizzando i dati  a disposizione, mi propongo di analizzare la distribuzione delle perdite economiche (o dei guadagni) risultanti dalle crisi finanziarie, con particolare attenzione alla cosiddetta coda destra della distribuzione del reddito, cioè agli individui  più ricchi. Più specificamente, analizzerò come  la  quota di reddito lordo totale detenuta da diversi gruppi all’interno del 10%  più ricco della popolazione si sia modificata in seguito  allo scoppio di una crisi bancaria sistemica. Questa analisi riguarderà tutti i paesi sviluppati per i quali disponiamo delle necessarie informazioni a partire dall’inizio del ventesimo secolo.

Anzitutto, va ricordato che le  indagini campionarie, pur catturando informazioni estremamente importanti sulla popolazione, non riescono a rivelare perfettamente ciò che accade alla coda destra della distribuzione, dove si concentrano la ricchezza e i redditi degli individui più affluenti. Questa è una forte limitazione soprattutto perché  nel corso degli ultimi decenni, è andata crescendo la quota della ricchezza e del reddito nazionale  detenuta da una piccola percentuale di individui molto ricchi.

La banca dati del World Top Income Database, che attinge ai dati delle dichiarazioni fiscali dei redditi individuali o familiari [1. Spesso come nel caso degli Stati Uniti l’unità di analisi di riferimento non è la famiglia ma l’unità fiscale. Per unità fiscale si intende una coppia o individui singoli con o senza bambini alle dipendenze.], è l’unica fonte che permette di tracciare in modo convincente l’evoluzione della coda destra della distribuzione in circa 30 paesi e, in alcuni casi,  in modo continuativo anche a partire dall’inizio del ventesimo secolo. Mi concentrerò su alcuni esempi specifici relativi all’Italia e agli Stati Uniti.

Concentrare l’analisi sulla coda destra della popolazione significa escludere dall’analisi una fetta considerevole della popolazione ma significa anche  tenere conto di una sostanziale porzione del reddito nazionale visto che quest’ultimo è  sempre più concentrato nelle mani di pochi. Inoltre, la possibilità di condurre l’analisi su lunghi orizzonti temporali permette di studiare le maggiori crisi bancarie che si sono susseguite dal 1900 in poi, e di sfruttare al meglio, utilizzando i più opportuni  metodi di stima econometrica,  le proprietà delle serie storiche.

Per fare un esempio, negli Stati Uniti, nel 2012, più del 50% di reddito lordo totale (inclusi tutti i redditi da capitale e i guadagni netti realizzati in conto capitale) era  detenuto dal 10% delle unità fiscali più ricche della popolazione. Questa piccola percentuale corrisponde a circa 30 milioni di individui ed è responsabile di più del 70% del gettito complessivo delle imposte reddituali federali. In Italia, invece, la quota totale detenuta dal 10% più ricco della popolazione è significativamente inferiore a quella statunitense: nel 2009, l’ultimo anno per il quale si dispone dei dati , era pari al 34% (si ricordi però che le dichiarazioni fiscali italiane non catturano in modo preciso il reddito da capitale, che è generalmente esente da tassazione o soggetto ad un regime di tassazione separata).

Non tutti i ricchi sono uguali ed in particolare, i super-ricchi, per l’entità e per la composizione del reddito,  si differenziano chiaramente dai “meno ricchi”, la classe medio-alta. Sono queste le due classi di reddito sulle quali ci concentriamo. Per entrare nel decile più ricco dei contribuenti italiani bastano 33.000 Euro annui, mentre occorrono almeno 750.000 Euro per essere classificati nel Top 0.01% dei contribuenti più ricchi. Negli Stati Uniti, queste soglie sono molto più alte: 115.000 e 6,2 milioni di dollari di reddito annuo, rispettivamente.

L’incidenza del reddito da capitale, di quello  da lavoro o d’impresa sul reddito individuale complessivo varia a seconda del percentile di reddito considerato,  e questo influenza la rilevanza dei modelli di riferimento per spiegarne l’evoluzione. Negli Stati Uniti, l’incidenza del reddito da capitale cresce all’aumentare del reddito e va da un minimo di circa il 10% per il decile più ricco al netto del 5% più ricco (ovvero, Top10 – Top5%) ad un massimo di circa il 50% per il cosiddetto Top 0.01%. L’opposto vale per il reddito da lavoro, che varia  da  un  massimo di circa l’85%  (per il Top10 – Top5% ) a  un minimo di circa il 30% (per il Top 0.01%). Nel 1929, prima dello scoppio della Grande Depressione, il reddito da capitale, derivante principalmente da dividendi distribuiti, rappresentava circa l’80%  del reddito complessivo del Top 0.01% statunitense.

Gli studi accademici mostrano chiaramente  che in buona parte dei paesi avanzati i redditi degli individui che qui chiamiamo super-ricchi  sono fortemente volatili. Negli Stati Uniti il reddito lordo del Top 1% ha subito un calo del 30% dal 2007 al 2011 ed il risultato rimane sostanzialmente invariato aggiungendo l’effetto diretto delle imposte e dei trasferimenti fiscali per ricavarne una misura di reddito netto. Le perdite dei super-ricchi sono sostanziali in quanto i fattori dai quali dipendono le retribuzioni di molti di loro (i bonus, la realizzazione di stock-option, i guadagni in conto capitale, il pagamento di dividendi e i profitti aziendali)  hanno un andamento fortemente pro-ciclico e sono esposti  alle fluttuazioni dell’economia. Ne consegue che, nei paesi avanzati ai quali si riferisce l’analisi,  la loro quota di reddito lordo nazionale tende a ridursi consistentemente negli anni successivi alle crisi bancarie sistemiche. Gli schemi contrattuali che legano alla performance di mercato e a quella aziendale la remunerazione dei CEO e dei manager (che secondo uno studio recente  rappresentano  più del 50%  di coloro che rientrano nel percentile più ricco), certamente spiegano parte di questa ciclicità.

E’ tuttavia utile ricordare che non si tratta necessariamente di perdite effettive, dovute a  una variazione esogena di questi redditi (ad es. riduzioni di remunerazione o diminuzione di dividendi erogati). Si tratta molto probabilmente anche di decisioni individuali “endogene”, frutto di una risposta ottimale alle variazioni congiunturali dei mercati. In fase di riduzione dei prezzi azionari, infatti, conviene meno esercitare le stock-options di cui si è in possesso ed è preferibile accontentarsi di capital gain inferiori. Anche i bonus sono minori e c’è un forte incentivo a spostare la loro realizzazione in avanti nel tempo, quando le circostanze saranno più favorevoli. Allo stesso modo le perdite nei mercati azionari causate dalla crisi possono spingere  gli investitori più sofisticati a ridimensionare i propri portafogli e a ridurre l’esposizione in investimenti rischiosi, rifugiandosi in mercati più sicuri e liquidi come quelli delle obbligazioni sovrane. Diverse analisi empiriche e modelli teorici supportano questa narrazione.

Il reddito della classe medio-alta, ricca abbastanza da essere inclusa nel 10% più ricco della popolazione, è invece molto meno ciclico e meno esposto alle recessioni e agli shock finanziari. In realtà come quota del reddito nazionale esso tende ad aumentare perché le perdite di reddito, soprattutto da lavoro, accumulate negli anni successivi alla crisi non sono superiori a quelle del resto della popolazione. Questo risultato è valido per una serie di paesi avanzati  ed è coerente con l’aumento sostanziale della disoccupazione che si verifica dopo lo scoppio della crisi oltre che con un risultato confermato da  diverse analisi empiriche e incorporato nei  modelli di mercato del lavoro imperfetto, cioè che per  i lavoratori meno abbienti  i tassi di distruzione del lavoro sono molto più alti e i tassi di creazione di lavoro sono molto più bassi rispetto alla popolazione più ricca. In altre parole la classe medio-alta appare molto più protetta contro i tagli salariali e la disoccupazione. Sempre negli Stati Uniti, dal 2007 al 2011, il reddito lordo degli individui che popolano il decile più ricco con esclusione del percentile più ricco è calato solo di circa l’8%, con un impatto che si ridurrebbe della metà se contassimo anche gli interventi fiscali (circa meno 4%).

L’effetto generale delle crisi sulle quote di reddito nazionale dei cosiddetti top income è dunque generalmente negativo per i gruppi di super-ricchi e positivo per la classe medio-alta. Tuttavia, l’effetto totale nei cinque anni successivi allo scoppio di una crisi sistemica bancaria non risulta essere particolarmente rilevante e, in alcuni casi, l’effetto appare anche temporaneo. Ad esempio, nel 2012 negli Stati Uniti la quota del reddito totale dell’1% più ricco è ritornata ai livelli pre-recessione e, come già spiegato in un’analisi dell’economista Emmanuel Saez, non solo in risposta anticipata ai futuri incrementi di imposizione fiscale.

Non è ragionevole dunque aspettarsi che forze di mercato anche così distruttive come quelle che si dispiegano nel corso di una crisi sistemica, riescano a scalfire la crescita inesorabile della concentrazione dei redditi in assenza di sostanziali interventi governativi. Questi, ci ricorda Tony Atkinson nel suo nuovo libro Inequality, sono alla nostra portata e devono andare aldilà di mere politiche di regolamentazione e tassazione. D’altro canto, come ricorda  Thomas Piketty nel suo celebre libro Il Capitale nel 21esimo secolo “La storia della distribuzione della ricchezza è sempre stata profondamente politica e non può essere ridotta a meccanismi puramente economici”.

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