Le crescenti e diseguali retribuzioni dei manager delle maggiori imprese italiane: i dati recenti

Gabriele Palomba analizza il Board Index 2020, report di Spencer Stuart sul governo societario delle aziende quotate nell'indice FTSE MIB della Borsa italiana. Dopo aver ricordato il tentativo delle autorità di regolamentazione e di autoregolamentazione di rendere più trasparenti le informazioni sulle remunerazioni dei dirigenti, ancorandole a criteri chiari e misurabili inclusivi anche di indicatori di tipo sociale e ambientale Palomba mostra che, nonostante ciò, i compensi dei manager hanno continuato a crescere -in modo diseguale - anche nel 2019.

A partire dal 1999, il Testo unico della finanza (TUF, d. lgs. 58/1998) e il “Regolamento emittenti” della Consob impongono alle società italiane quotate in borsa (sia nel mercato italiano che in altri mercati dell’Unione Europea) degli obblighi di trasparenza sulle remunerazioni corrisposte ai componenti degli organi societari (consiglieri, presidenti e amministratori delegati, sindaci). Questi obblighi sono diventati particolarmente stringenti a partire dal 2011, quando la Consob ha modificato il Regolamento inserendo l’obbligo di elaborare e rendere pubblica una “relazione sulla remunerazione”, in cui le società quotate devono rendere conto della politica di remunerazione dei propri dirigenti, delle procedure utilizzate per attuarla e dei compensi corrisposti nell’esercizio passato. In dettaglio, il Regolamento prevede che le relazioni contengano delle tabelle esplicative, redatte secondo modelli predefiniti, che riportino puntualmente gli stipendi erogati, le stock option assegnate, i piani di incentivazione basati sugli strumenti finanziari (diversi dalle stock option) e i piani di incentivazione monetari.

Queste procedure, insieme alle Relazioni sul governo societario previste dal TUF, consentono da qualche anno di farsi un’idea abbastanza precisa degli equilibri di potere e delle politiche interne nelle principali imprese italiane, nonché della loro evoluzione. Per questo, ogni anno vengono pubblicate diverse analisi in proposito, come l’edizione 2020 del report Board Index di Spencer Stuart (nota società di consulenza aziendale statunitense). In questo articolo prendiamo in esame questa pubblicazione, concentrandoci sulle remunerazioni di consiglieri e dirigenti, che attraggono sempre più interesse in un’epoca di crescenti disuguaglianze nei redditi da lavoro.

Nel report di quest’anno si sottolinea come il 2020 sia stato caratterizzato, oltreché naturalmente dalle sfide derivanti dalla pandemia (che però non sono rilevanti per le remunerazioni, poiché queste ultime si riferiscono al 2019), dall’entrata in vigore del nuovo codice di autodisciplina delle società quotate. La nuova versione del Codice prevede diverse novità, fra le quali è piuttosto rilevante l’introduzione del principio di proporzionalità, che consente di differenziare le prescrizioni per società grandi o piccole, a proprietà concentrata o diffusa. Per questo motivo, contrariamente agli anni precedenti in cui l’analisi riguardava tutte le società quotate a Piazza Affari, il Board Index 2020 si concentra esclusivamente sulle società appartenenti al segmento FTSE MIB (che come noto è l’indice più importante del mercato azionario italiano, riferito alle società con maggiore capitalizzazione). Un’altra novità è l’introduzione del “successo sostenibile” come obiettivo ultimo dell’impresa, consistente nel «creare valore a lungo termine per gli azionisti, tenendo conto degli interessi degli stakeholder rilevanti per la sua attività», che si concretizza nell’integrazione di obiettivi specifici di sostenibilità nei piani industriali e nei sistemi di governo e controllo interni (politiche di remunerazione incluse). Queste novità riflettono il crescente interesse per i cosiddetti fattori ESG (Environmental, Social and Corporate Governance), introdotti dopo la crisi finanziaria del 2007-2008, per contrastare lo short-termism, cioè la ricerca di profitti di breve periodo a scapito degli obiettivi di lungo termine e della sostenibilità sociale e ambientale.

Veniamo dunque all’analisi delle remunerazioni. Nel Board Index i valori medi per il 2019 registrano un aumento generalizzato rispetto all’anno precedente, dovuto però al fatto che il campione considerato è più ristretto e composto da società di dimensioni maggiori, i cui dirigenti, soprattutto gli amministratori delegati (AD) sono generalmente pagati di più rispetto a quelli delle società non incluse nel FTSE MIB. Questo non risulta però vero per i presidenti delle imprese del FTSE MIB, i quali hanno spesso incarichi non esecutivi e di sola garanzia.

Il report fornisce i dati delle remunerazioni carica per carica delle remunerazioni, a partire proprio da quelle dei presidenti (in cui sono considerati anche i presidenti esecutivi o aventi anche l’incarico di AD). Il loro compenso medio totale è pari a 810.000 euro, a fronte di una varianza molto ampia, dato che il valore minimo riportato è 70.000 euro, mentre il massimo supera i 5 milioni di euro. Lo stesso vale anche per la quota fissa dei compensi, che presentano un valore medio di 635.000 euro e un massimo di 4,485 milioni. A determinare questa grande dispersione è probabilmente la differenza fra presidenti esecutivi e non esecutivi, con i primi che hanno guadagnato in media una cifra tre volte maggiore dei secondi (circa 1,5 milioni contro circa 500.000 euro). Anche tra i vicepresidenti – i cui compensi medi totali e fissi si attestano, rispettivamente, a 360.000 e 250.000 euro – lo scenario è simile, con ampie differenze a seconda del tipo di incarico (il compenso medio totale supera il milione per i vicepresidenti con incarichi esecutivi).

I dati senza dubbio più interessanti riguardano gli amministratori delegati. In media, il loro compenso totale è di 2,7 milioni di euro, di cui circa il 50% (1,172 milioni) è fisso. Il valore medio è molto al di sopra del valore mediano (1,943 milioni) segnalando ancora una volta un’ampia dispersione e una concentrazione nella parte alta della distribuzione. Per gli AD, il report confronta il dato del 2019 con quello del 2018 relativo alle società nell’indice FTSE MIB (garantendo quindi piena confrontabilità), per sottolineare come i compensi siano aumentati in maniera rilevante: il compenso totale nel 2018 era in media pari a 2,142 milioni e quello fisso pari a 1,1 milioni. Come dicevamo, anche fra gli AD emerge una forte dispersione delle remunerazioni: la retribuzione più alta ammonta ad oltre 13 milioni di euro, quasi 5 volte quella media. Il settore assicurativo offre in media i compensi più alti (3,9 milioni), seguito da quello dei beni di consumo e da quello delle telecomunicazioni mentre. Piuttosto sorprendentemente, i compensi medi nel settore bancario risultano al di sotto della media complessiva (1,84 milioni).

Molto interessante è anche l’analisi del pay mix, cioè della ripartizione dei compensi fra parte fissa e parte variabile, legata perlopiù al raggiungimento di alcuni risultati. Infatti, il codice di autodisciplina delle società quotate formula diverse raccomandazioni in merito, invitando a rafforzare la componente variabile delle remunerazioni legandola al conseguimento di determinati obiettivi, da definire con criteri chiari e misurabili, preferibilmente di medio-lungo periodo e non necessariamente di natura prettamente economico-finanziaria. Il Codice raccomanda inoltre che siano previsti limiti massimi per le componenti variabili, nonché il differimento di una quota rilevante del compenso variabile per un adeguato periodo e la possibilità di chiedere la restituzione di parte o tutta la componente variabile nel caso in cui i parametri di riferimento si rivelino «manifestamente errati» (claw-back).

Tutto ciò ha permesso che negli anni si affermasse una tendenza, confermata anche nel 2019, all’aumento del peso della componente variabile sul totale dei compensi degli AD. Infatti, secondo il Board Index, i compensi variabili rappresentano il 49% del totale delle remunerazioni degli AD nel FTSE MIB, quelli fissi il 45%, mentre il 6% riguarda altri compensi non fissi (principalmente bonus “ad hoc”, benefit non monetari e altro). Si registra dunque un sostanziale equilibrio fra componente fissa e componente variabile delle remunerazioni.

La componente variabile è ovviamente determinata dai piani di incentivazione, che, come si è detto, devono essere descritti in dettaglio nelle relazioni sulla remunerazione. Nel report si legge che tutte le società considerate articolano i loro piani di incentivazione su risultati raggiunti nel corso di un anno, anche se 35 aziende su 38 vi affiancano un piano di medio-lungo periodo. Generalmente si tratta di piani triennali, perlopiù di tipo azionario, di cui circa la metà è legato al raggiungimento di un valore minimo per dati indicatori. L’indicatore utilizzato è solitamente di tipo finanziario, ma cominciano ad essere considerati anche i fattori ESG di cui si è detto.

L’analisi presentata dal Board Index 2020 offre senza dubbio molti spunti di riflessione. Anzitutto si può operare un confronto con la retribuzione media dei lavoratori italiani. È noto che il divario fra quest’ultima e quella di un dirigente di una grande impresa sia aumentato enormemente negli ultimi 40 anni. Per fare questo confronto, utilizziamo il dato 2019 sulla retribuzione contrattuale di cassa per dipendente nel settore privato rilevata dall’Istat, che consente di disaggregare la retribuzione media per tipologia di qualifica professionale. Il dato è aggregato a livello settoriale, cosa che rende impossibile differenziare fra società quotate e non quotate. Bisogna tenere conto quindi che le retribuzioni medie nelle società quotate nell’indice FTSE MIB (cioè quelle incluse nel campione del Board Index) sono probabilmente più alte di quelle considerate di seguito, trattandosi di imprese di grandi dimensioni.

Nel 2019 i dipendenti del settore privato hanno guadagnato poco più di 25.000 euro annui. Per i dipendenti inquadrati come operai, questa cifra scende a poco più di 23.000 euro, mentre sale a 28.000 euro circa per quadri e impiegati. Quindi, la retribuzione annua di un amministratore delegato di una società quotata nel FTSE MIB è quasi 116 volte quella di un operaio del settore privato, mentre per l’AD più pagato il rapporto sale a circa 1 a 560. Anche il divario nei tassi di crescita è nettissimo: pur tenendo conto che, come detto, il gruppo degli AD rilevato nel Board Index 2019 è selezionato rispetto a quello del 2018, la remunerazione media di un AD è cresciuta del 26% dal 2018 al 2019, la retribuzione del totale dei dipendenti dello 0,65% e quella di un operaio dello 0,8%.

Per avere un’idea piuttosto grezza di quanto la crescita delle remunerazioni dei manager corrisponda a un effettivo miglioramento della performance delle loro aziende, si può guardare alla crescita dell’indice FTSE MIB nel periodo 2018-2019. La corrispondenza è quasi perfetta, dato che l’indice è cresciuto del 27,5%. Tuttavia, di questa crescita non sembra aver beneficiato l’economia italiana nel suo complesso, dato che nello stesso periodo il prodotto interno lordo è cresciuto appena dello 0,3% (dato Istat).

Si potrebbe obiettare che non necessariamente l’andamento di un indice azionario, soggetto a speculazioni di ogni genere e all’imprevedibilità del comportamento degli investitori riflette la performance dei manager delle aziende quotate. Lo stesso vale anche per altri possibili indicatori economico-finanziari, motivo per cui è piuttosto difficile misurare precisamente il contributo di un singolo amministratore delegato al risultato di un organismo complesso come un’impresa. Infatti, già nel 2001 Marianne Bertrand e Sendhil Mullainathan asserivano che anche la fortuna ha un ruolo nel determinare il compenso dei dirigenti d’azienda. Questo studio fa parte di un lungo e corposo filone di letteratura economica che sottolinea come l’estrazione di rendite, i comportamenti monopolistici, le relazioni di potere e, più in generale, il setting istituzionale in cui si opera hanno un ruolo altrettanto (se non più) importante delle performance e delle competenze nel determinare le retribuzioni. Inoltre, il fatto che nello stesso anno si sia osservata una sostenuta crescita del maggiore indice azionario e una sostanziale stagnazione dell’economia italiana, fa riflettere su quale sia il contributo dei dirigenti di imprese sempre più “finanziarizzate” al resto della società.

Per concludere, è sicuramente apprezzabile lo sforzo delle autorità di regolamentazione e autoregolamentazione di cercare sempre maggiore trasparenza, di migliorare i criteri di definizione, includendo anche indicatori di tipo sociale e ambientale. Ma resta da spiegare cosa determini remunerazioni così elevate e così diseguali.

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