Lavoro, tempo e potere: come la crisi da Covid-19 può peggiorare il benessere delle donne

Eleonora Romano presenta alcune riflessioni sui canali attraverso cui la crisi innescata dal Covid-19 potrebbe peggiorare il benessere delle donne, considerando anche le condizioni di svantaggio preesistenti. L’analisi si concentra, in particolare, sul lavoro e la conciliazione dei tempi di vita e si conclude rivolgendo attenzione alla dimensione trasversale del potere, la cui diseguale distribuzione di genere può contribuire a peggiorare le conseguenze della crisi sul benessere dell’intera società e, in particolare, delle donne.

Le Nazioni Unite ci hanno recentemente messo in guardia dal rischio che il Covid-19 spazzi via i (limitati) progressi nella riduzione delle disuguaglianze di genere compiuti negli ultimi decenni, segnando un’inversione di tendenza proprio nell’anno di celebrazione del venticinquesimo anniversario della Piattaforma di Azione di Pechino, un momento fondamentale per l’affermazione dei diritti delle donne, che ha dato un forte slancio al dibattito pubblico sulla parità di genere. Come argomentato nel precedente numero del Menabò, le implicazioni di genere del Covid-19 sono molteplici e richiedono di essere considerate con attenzione. Per quanto riguarda  il “vantaggio” delle donne in termini di minore letalità del Covid-19 mi limito a segnalare il COVID-19 sex-disaggregated data tracker, curato da Global Health 50/50 e, per l’Italia, anche il recente rapporto Istat-ISS.

In questo contributo, mi concentro invece sulle modalità attraverso cui le caratteristiche specifiche della crisi innescata dal Covid-19 potrebbero peggiorare il benessere delle donne, soffermandomi, su due dimensioni: il lavoro (partecipazione e inclusione sociale) e le esigenze di conciliazione vita-lavoro. Considero, inoltre, la diseguale distribuzione di genere di un elemento funzionale al perseguimento del benessere complessivo: il potere.

In primo luogo, occorre considerare che la crisi economica indotta dalla pandemia Covid-19 non solo produce effetti economici differenziati tra uomini e donne ma anche diversi da quelli dell’ultima crisi, di matrice finanziaria. In una recessione standard, derivante, cioè, dalla “normale” instabilità dei sistemi economici, vengono colpiti relativamente di più i settori ad alta intensità maschile (industria manifatturiera, costruzioni) e meno quelli a maggiore presenza femminile (salute, istruzione, servizi). Nella crisi attuale, il quadro occupazionale appare caratterizzato da tendenze opposte.

Da un lato, ci sono settori ad alta intensità femminile che non registrano cali di attività. Secondo stime dell’ILO, tra di essi compare, innanzitutto, il settore sanitario e sociale, dove il 70,4% degli occupati è rappresentato da donne e, al secondo posto, il settore dell’istruzione, con una quota di donne  pari al 61,8%. All’interno del settore sanitario e sociale, l’Ocse indica che sono donne quasi la metà dei medici nei Paesi Ocse (per l’occupazione nella sanità pubblica in Italia si vedano recenti dati Istat) e che le donne rappresentano la stragrande maggioranza (in media circa il 90%) della forza lavoro nel settore dell’assistenza a lungo termine. Considerando la tipologia di datore di lavoro, forte è la presenza delle donne nel settore pubblico (in Italia circa il 57% degli occupati), un fattore che rappresenta, ora più che mai, una garanzia di sicurezza lavorativa e di reddito per le donne.

D’altra parte, un’alta percentuale di donne è impiegata in settori di attività economica ad alto rischio di chiusura o calo. In ordine di intensità di rischio l’ILO segnala (in parentesi la quota di donne): commercio al dettaglio e all’ingrosso (43,6%), servizi di alloggio e ristorazione (54,1%), arti, spettacoli, tempo libero e altri servizi (57,2%). Le donne sono sovra-rappresentate in settori ad alto rischio anche con riferimento all’economia informale. Per quanto riguarda, invece, il lavoro autonomo, sebbene le imprenditrici adottino tendenzialmente strategie di business meno rischiose rispetto agli uomini, il maggiore affidamento sull’autofinanziamento (presenza in settori con più bassa capitalizzazione) potrebbe attualmente esporle a maggiore rischio di chiusura (Ocse 2020, Women at the core of the fight against COVID-19 crisis).

Indubbiamente, la condizione pre-pandemica delle donne sul mercato del lavoro, rispetto a quella maschile, è caratterizzata da una serie di svantaggi: in media le donne occupate lavorano meno ore, guadagnano meno e accumulano minore anzianità. In termini di benessere economico ciò si traduce in redditi da lavoro in media più bassi, cui si associa un rischio di povertà più alto (Ocse, 2020, op.cit.). Per quanto riguarda l’Italia, la retribuzione oraria mediana degli uomini (11,61 euro) è superiore del 7,4% rispetto a quella delle donne. I divari retributivi di genere nei guadagni complessivi sono ampi e attribuibili per la maggior parte alla differenza nei tassi di occupazione. Nel 2019 il tasso di occupazione è pari a 50,1% e 68% rispettivamente per donne e uomini, mentre le donne in part-time rappresentano il 32,9% (contro l’8,8% degli uomini) e nel 60,6% dei casi si tratta di part-time involontario (Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro).

Una microsimulazione degli effetti redistributivi della fase 1 di lockdown in Italia, presentata sul Menabò, indica una riduzione del divario retributivo di genere, in larga parte ascrivibile alla forte presenza femminile nel settore pubblico e nei servizi essenziali di cura, seppure in un contesto di impoverimento generalizzato. Da un’analisi congiunta INPS-INAPP sul mercato del lavoro dipendente privato emerge, invece, che a fronte di un’analoga quota di donne nei settori essenziali e bloccati nella fase 1 (intorno al 42-43%), nella fase 2 la quota di donne nei settori bloccati arriva al 56% (40% nei settori essenziali) e si intensifica l’incidenza di una serie di fragilità (giovane età, basse qualifiche, tempo determinato, part-time, minor numero di settimane lavorate, più bassi salari). Anche a livello europeo sembrano emergere evidenze analoghe.

Sebbene diversi segnali lascino presagire esiti negativi per le donne, al momento è difficile prevedere con precisione l’impatto della crisi in termini di partecipazione al mercato del lavoro e qualità dell’occupazione, poiché molte sono le variabili che influiscono dal lato della domanda ma anche dell’offerta di lavoro.

In relazione a questo ultimo punto occorre considerare altre due peculiari implicazioni di questa crisi: l’improvviso e massiccio aumento delle esigenze di cura per l’infanzia, derivante dalla chiusura delle scuole e dall’impossibilità di ricorrere alla rete familiare/amicale in alternativa, e, per chi ha potuto, il ricorso allo smart-working.

Sebbene questi cambiamenti riguardino, in linea teorica, anche gli uomini, almeno nel breve periodo e date le tradizionali asimmetrie nella distribuzione del lavoro retribuito e non retribuito, è plausibile che il carico di cura addizionale ricada principalmente sulle donne. Le donne che possono ricorrere allo smart-working sono da ritenere più agevolate, soprattutto nel caso di madri single e/o quando l’impraticabilità di soluzioni di conciliazione induca ad abbandonare il lavoro. Tuttavia, lo smart working “forzato” di questo periodo solleva questioni importanti in materia di tutela della salute e del benessere (per tutti i lavoratori), in relazione al rischio di “iperconnessione” e alla continua contaminazione tra tempo di lavoro e tempo personale (time porosity). In più, un’ampia e non correttamente regolamentata diffusione dello smart working, in assenza di una radicale riorganizzazione del lavoro, potrebbe essere terreno fertile per nuove forme di discriminazione e divari di opportunità tra chi è fisicamente presente sul posto di lavoro e chi è  invece costretto a casa da esigenze di conciliazione.

Per il lungo periodo, alcuni economisti hanno però ipotizzato effetti positivi per il benessere delle donne e la parità di genere, attraverso due canali (Alon et al., 2020). Il primo è la riorganizzazione del lavoro a favore di modalità flessibili, nelle quali i datori di lavoro hanno dovuto investire e che hanno coinvolto un numero senza precedenti di lavoratori a causa della pandemia. Se tali modalità diventassero ordinarie, le donne ne trarrebbero relativamente più beneficio degli uomini, in termini di migliore conciliazione vita-lavoro ma anche perché la loro adozione diffusa indebolirebbe una delle cause dei divari retributivi. Il secondo canale è il cambiamento delle norme sociali alla base dei ruoli familiari. La maggiore consapevolezza dei carichi del lavoro non retribuito acquisita dagli uomini nel periodo di isolamento domestico del Covid-19 indurrebbe  un processo di responsabilizzazione. Ne seguirebbe un modello di genere più egualitario, in cui la conciliazione vita-lavoro è intesa come problematica familiare e non solo femminile (si veda la Direttiva europea 2019/1158). Verosimilmente, la redistribuzione intrafamiliare del lavoro non retribuito è una necessità nelle famiglie in cui le donne sono impiegate nei settori “essenziali” e gli uomini possono fare smart-working. Lo shock del Covid-19 potrebbe così generare un effetto persistente sulla distribuzione dei tempi di vita, in analogia al caso dell’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro dopo la Seconda Guerra mondiale (in conseguenza delle variazioni temporanee durante la guerra stessa) o a quello della maggiore consapevolezza maschile dei carichi di cura che si associa all’introduzione di congedi di paternità obbligatori (Alon et al., 2020, op.cit.).

Purtroppo queste spinte egualitarie potrebbero essere contrastate da radicati stereotipi di genere, tra i quali quello secondo cui il successo nel lavoro è più importante per l’uomo che per la donna sembra essere, ancora oggi, il più comune in Italia. Evidenze recenti in tema di conciliazione vita-lavoro e disparità di genere non sono incoraggianti. Ad esempio, la Relazione sugli indicatori di benessere equo e sostenibile 2020 segnala che negli ultimi anni si è allargata la forbice tra il tasso di occupazione delle donne di 25-49 anni con e senza figli in età prescolare. In linea con questa evidenza, l’Istat indica che, in presenza di figli in età prescolare, le donne che lavorano a tempo pieno e lamentano difficoltà di conciliazione sono il 46,7% e che le madri più dei padri tendono a rimodulare il proprio lavoro per la cura dei figli.

Analisi preliminari degli effetti dell’emergenza Covid-19 sembrano confermare l’ipotesi che il maggiore carico di lavoro non retribuito sia ricaduto soprattutto sulle donne. In una condizione di inusitata difficoltà economica e incertezza, che potrebbe protrarsi a lungo, e dati gli svantaggi retributivi delle donne sopra ricordati, non sembra improbabile che le maggiori difficoltà di conciliazione dovute al Covid-19 indurranno diverse donne ad allentare la propria presenza sul mercato del lavoro, nel breve e forse anche nel lungo periodo.

Da ultimo, a tutela del benessere corrente e futuro delle donne (e non solo), è fondamentale tenere presente la persistente disparità di potere tra donne e uomini, in almeno due contesti. Il primo riguarda l’accresciuto rischio di violenza domestica collegato alle misure di confinamento, tema già trattato sul Menabò. Le restrizioni legate al Covid-19 si associano, infatti, a un maggiore controllo fisico e psicologico da parte di partner inclini alla violenza, data anche la maggiore difficoltà di ricorrere alle reti di protezione sociale da parte delle vittime. Inoltre, la riduzione di interazioni sociali nonché l’insicurezza economica potrebbero indurre le vittime a tollerare con più facilità questa grave violazione dei diritti umani. Secondo i primi risultati di un’indagine coordinata da Cnr-Irpps, nella fase 1 dell’emergenza sanitaria del Covid-19 i centri antiviolenza (CAV) hanno registrato una flessione nel numero di nuovi contatti (in media da 5,4 a 2,8  a settimana per centro); il 38% dei CAV segnala anche una riduzione dei rapporti con donne già inserite in un percorso di uscita dalla violenza. L’Istat ha inoltre indicato un aumento delle telefonate al numero verde antiviolenza e stalking 1522 (attribuibile anche alle campagne di sensibilizzazione mirate di questo periodo) e un calo delle denunce per maltrattamenti in famiglia (-43,6%).

La seconda rilevante disparità di potere tra uomini e donne, che si ripropone in questo momento, è l’inadeguata rappresentanza delle donne nei processi decisionali, cui si è di recente tentato di porre parziale rimedio. Una più equa ripartizione del potere decisionale favorirebbe, infatti, la rappresentazione di tutti gli interessi e l’avvio di un percorso di ripresa inclusivo, che contrasti un inasprimento delle disuguaglianze di genere e un arretramento dei diritti. Infine, un riequilibrio degli “sguardi”, al di là degli elogi alla leadership femminile, potrebbe essere decisivo per orientare le politiche al benessere sociale, in una fase in cui la ridefinizione delle priorità collettive richiede di mettere al centro dei rapporti sociali ed economici una nuova visione dei tempi e delle modalità di lavoro e di cura, ambiti in cui i divari di genere sono innegabili.

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