“Lavoratori dei dati” di tutti i Paesi, unitevi! Big Data e i mercati senza prezzo

Andrea Pezzoli osserva che nell’era digitale i mercati senza prezzo sono sempre più diffusi e l’intreccio tra i profili di privacy, di concorrenza e di tutela del consumatore è molto complesso. In questo contesto a suo parere è essenziale fare chiarezza sul “valore” dei dati. Dopo aver richiamato le diverse posizioni al riguardo – da quelle più ortodosse a quelle più provocatorie, per le quali gli utenti delle piattaforme sono “lavoratori dei dati”- Pezzoli riflette sulle sfide che ne derivano per la politica della concorrenza.

Con lo sviluppo dell’economia digitale la diffusione di modelli di business costruiti intorno all’offerta “gratuita” di un servizio o di un prodotto è aumentata drasticamente. E’ sufficiente pensare ai motori di ricerca, ai social network e, più in generale, a larga parte dei servizi offerti dalle principali piattaforme digitali.

I servizi offerti gratuitamente ai consumatori, peraltro, non sono né una novità né una specificità della rivoluzione digitale. Il settore dei media si è tradizionalmente caratterizzato per scambi non monetari tra l’attenzione dello spettatore e i contenuti delle televisioni in chiaro ovvero tra l’attenzione del lettore e la free press. In entrambi i casi a metter mano al portafoglio è l’inserzionista pubblicitario, in cambio dell’attenzione dello spettatore/lettore.

I mercati senza prezzi e il valore dei dati. Con le piattaforme digitali lo scambio si fa più intrusivo: non più tra attenzione e servizio ma piuttosto tra dati personali e servizio. Il pagamento vero e proprio continua a vedere l’inserzionista pubblicitario come protagonista ma risulta sempre più evidente che l’assenza di un prezzo nello scambio tra utente e piattaforma non implica anche l’assenza di un “pagamento”. Più che un pagamento, una sorta di baratto. Un baratto tra dati, informazioni o attenzione, da un lato, e un servizio dall’altro. In queste situazioni – note come zero price market – l’intreccio tra profili relativi alla protezione dei dati, alla concorrenza, alla tutela del consumatore e alla proprietà intellettuale risulta particolarmente complesso e la complementarietà tra strumenti di intervento diversi può risultare particolarmente utile. Soprattutto finché non sarà fatta chiarezza sul “valore” dei dati. Il valore per il singolo individuo? Per la piattaforma che li raccoglie, li analizza, li elabora e li dà in pasto a un algoritmo o a sistemi machine learning? Il valore del singolo dato marginale oppure dell’insieme dei Big Data? Dello stock dei dati o solo dei dati più recenti, continuamente rinnovati?

A questo “baratto” si può guardare da più di una prospettiva, da quelle più ortodosse a quelle più provocatorie (OECD, Quality Considerations in Digital Zero-Price Markets, novembre, 2018).

Una prima lettura, molto conservativa, suggerisce che, considerato che non si osserva alcun trasferimento monetario, i consumatori non starebbero rinunciando ad alcunché laddove sono gli inserzionisti pubblicitari online a pagare per l’offerta del servizio nel segmento senza prezzo. Più direttamente, si sostiene che il mercato a più versanti (dove i dati raccolti nel versante senza prezzo vengono venduti agli inserzionisti sul versante della pubblicità on-line) andrebbe considerato nel suo insieme e non focalizzando l’attenzione su uno solo dei segmenti.

Di contro, una diversa visione rifiuta l’idea che, per la sola assenza di un prezzo e di una transazione monetaria, non si possa parlare di mercato, anche per il solo versante a prezzo zero. Le piattaforme devono comunque decidere le dimensioni (e la qualità) dell’offerta a prezzo nullo e i consumatori quanti e quali sforzi sono necessari per ottenere il servizio “gratuito”.

Il prezzo zero, in altri termini, non implica che i consumatori non paghino in un altro modo, con i dati individuali, con le tracce e le informazioni che producono utilizzando il servizio “gratuito” ovvero con la loro attenzione nel caso dei media (cfr. la decisione della Commissione su Google Shopping). E si arriva così alla popolare ma ambigua definizione coniata dall’Economist (6 maggio 2017): Data is the new currency, is the new fuel. Ambigua perché non chiarisce il valore della nuova valuta. Se per le piattaforme si tratta di un valore sicuramente molto elevato, non necessariamente altrettanto elevato è il valore dei dati per il singolo individuo. Per il singolo individuo, infatti, la questione appare più articolata e contradditoria. Da un lato, ai dati personali, alla propria privacy si attribuisce giustamente un valore alto (sebbene navigando sui social network qualche dubbio al riguardo potrebbe sorgere…). Dall’altro, i dati individuali sono una risorsa illimitata (dunque di basso valore?), una sorta di deep pocket e, soprattutto, quando agli utilizzatori dei servizi gratuiti si chiede se e quanto sarebbero disponibili a pagare per non cedere i loro dati personali, le risposte, tutt’altro che univoche, tendono a convergere nel manifestare una scarsa disponibilità a pagare. Convergono, peraltro, anche nel sottolineare un particolare disagio per l’eventuale sfruttamento dei dati per finalità diverse da quella squisitamente commerciale. In altri termini, viene percepita come accettabile la profilazione commerciale (in qualche modo si dovrà pur pagare il servizio “gratuito”), inaccettabile l’utilizzo per altri fini (soprattutto se le altre finalità non sono chiare e comprensibili al momento dell’accettazione delle condizioni di contratto).

Quest’ultimo aspetto fa emergere un punto importante: la protezione dei dati individuali, la trasparenza e l’informazione necessaria per una scelta consapevole del consumatore rappresentano fattori qualitativi fondamentali per il confronto concorrenziale tra piattaforme digitali. Il prezzo, in fondo, è solo uno degli ingredienti della competizione e, quando è assente, la qualità rimane l’unico parametro che impatta sul benessere dei consumatori. Nelle concentrazioni conglomerali che hanno interessato le piattaforme digitali (ad esempio, Microsoft/Linkedin e Facebook/WhatsApp), seppur con difficoltà, le autorità antitrust hanno cercato di cogliere la dimensione qualitativa della tutela della privacy, della portabilità dei dati, etc. Il potere monopolistico, concettualmente legato alla capacità di aumentare unilateralmente il prezzo, si estende alla capacità di ridurre unilateralmente la qualità del servizio (intesa come minore protezione dei dati individuali). In questa prospettiva (ma anche assimilando i dati alla nuova valuta), l’autorità antitrust tedesca, in un procedimento avviato di recente, contesta a Facebook le modalità di raccolta dei dati e la scarsa chiarezza dei termini contrattuali, spingendosi a ipotizzare un abuso per l’imposizione di condizioni eccessivamente gravose.

La “scatola degli attrezzi” propria della politica della concorrenza appare adeguata per fronteggiare anche le peculiarità dei mercati a prezzo zero. Tuttavia, se la concorrenza non di prezzo è un concetto familiare dell’analisi del processo competitivo, gli interventi volti a rimuovere le criticità legate alla qualità nei mercati senza prezzo, possono indubbiamente beneficiare anche degli strumenti propri della tutela del consumatore e della protezione dei dati. Tali strumenti, sebbene istituzionalmente preposti a obiettivi diversi da quelli antitrust, possono essere utilizzati in modo coordinato e rendere più efficace la stessa politica della concorrenza, così che la crescita, la promozione dell’innovazione possano coniugarsi con il benessere dei consumatori e con i diritti fondamentali dei cittadini. In quest’ottica, l’autorità antitrust italiana, quando si è trattato di fronteggiare una fattispecie per molti versi simile a quella oggetto del procedimento avviato dal Bundeskartellamt nei confronti Facebook ha privilegiato il ricorso alla scatola degli attrezzi propria della tutela del consumatore, piuttosto che al diritto antitrust (cfr. PS10161 WhatsappTrasferimento dati a Facebook e CV154-Condotte vessatorie, Agcm, 11 maggio 2017)

Tra Marx e Chicago. Infine, il baratto tra dati e servizi “gratuiti”può essere letto anche con lenti più radicali. Posner e Weyl, autori di un provocatorio volume (Posner E.A. e Weyl E.G. (2018), Radical Markets. Uprooting Capitalism and Society for a Just Society, Princeton University, 2018) sostengono che se si guarda agli utenti dei servizi gratuiti non come consumatori ma piuttosto come produttori, come “lavoratori dei dati”, il quadro che emerge, in una lettura quasi-marxiana, è un quadro di sfruttamento, dove il lavoro dei fornitori di dati, al pari di quello delle casalinghe, viene dato per scontato e non remunerato (o comunque sottopagato). Questo spiegherebbe perché, ad esempio, solo l’1% del valore prodotto annualmente da Facebook viene destinato al lavoro (di fatto ai programmatori) a fronte dell’oltre 40% destinato ai salari da Walmart (che tradizionalmente non spicca per un atteggiamento pro labour…).

Anche questo approccio tuttavia ripropone e non scioglie i nodi principali della questione: isolare il contributo del singolo utente/lavoratore alla valorizzazione dei Big Data, attribuire un valore al servizio che il lavoratore ottiene in cambio del suo lavoro e individuare il valore che il singolo utente/lavoratore attribuisce alla cessione dei dati individuali. Nodi che rendono scarsamente praticabili anche i suggerimenti di economisti e giuristi che, vicini alla Scuola di Chicago, sono più attenti alla corretta attribuzione dei diritti di proprietà (nel caso di specie relativi alla proprietà dei dati) che all’eventuale sfruttamento dei “lavoratori dei dati”.

L’approccio privilegiato in Radical Markets, per quanto estremo e provocatorio, ha tuttavia almeno un paio di pregi: quello di enfatizzare le potenzialità redistributive (nel caso di specie, a favore del lavoro) del funzionamento concorrenziale dei mercati – preziose in una fase di bassa crescita e forti diseguaglianze – e quello di azzardare proposte fuori dagli schemi, altrettanto preziose quando di fronte alle nuove sfide poste dall’economia digitale si cercano risposte solo volgendosi all’indietro.

Un paio di conclusioni. La politica della concorrenza si trova al crocevia tra Big Data, potere di mercato e le trasformazioni che la rivoluzione digitale sta producendo nei mercati e nella società, potendo svolgere perciò un ruolo importante per cogliere appieno i benefici dei cambiamenti tecnologici in atto. La scatola degli attrezzi a disposizione delle autorità antitrust appare ancora abbastanza solida, articolata e flessibile per fronteggiare le nuove sfide. Tuttavia, laddove la concorrenza non funziona come dovrebbe e il tradizionale enforcement antitrust risulta insufficiente, gli strumenti propri della tutela del consumatore e il coordinamento con le istituzioni preposte alla protezione dei dati possono essere decisamente preziosi.

Trascurare le sempre più insistenti istanze di fairness e di equità, esasperate dalla rivoluzione digitale, solo perché non immediatamente riconducibili a una applicazione ortodossa della disciplina antitrust rischia di alimentare derive populiste. Risposte coerenti con la tutela del benessere del consumatore, la crescita e l’innovazione e, soprattutto, con la certezza del diritto, rimangono possibili anche se gli obiettivi tradizionali della politica della concorrenza vengono opportunamente arricchiti.

* Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – Le opinioni espresse non coinvolgono necessariamente l’istituzione di appartenenza.

Schede e storico autori