Laurearsi in ritardo: conviene comunque?

Carmen Aina e Giorgia Casalone analizzano il rapporto fra ritardo nel conseguimento della laurea ed esiti sul mercato del lavoro in Italia e mostrano che prolungare gli studi universitari oltre la durata legale dei corsi di laurea comporta penalizzazioni persistenti nelle retribuzioni e nelle probabilità di occupazione, soprattutto per le donne e i laureati in discipline non tecnico-scientifiche. Da ciò le autrici deducono la necessità di intervenire sull’organizzazione dei corsi di laurea e sul finanziamento dell’istruzione terziaria.

I rendimenti dell’istruzione terziaria emergono in maniera netta dall’evidenza empirica nazionale ed internazionale. Secondo l’ultimo rapporto OCSE Education at a glance un laureato di primo livello (bachelor degree), oltre ad avere una maggiore probabilità di essere occupato, guadagna, in media, il 44% in più di un diplomato della scuola secondaria superiore. Tuttavia, la comunità scientifica e, più in generale, l’opinione pubblica si domandano sempre più se e come tali rendimenti varino in funzione delle caratteristiche dello studente e del percorso universitario intrapreso. Il riconoscimento dell’eterogeneità dei percorsi di laurea porta quindi sempre più a passare dalla generica questione “Conviene laurearsi?” ad una domanda di ricerca più specifica “Quali caratteristiche deve avere un percorso di laurea per assicurare un buon rendimento nel tempo?”.

Un aspetto rilevante in questo senso è il tempo effettivamente impiegato per laurearsi, ovvero l’età a cui ci si presenta sul mercato del lavoro. Secondo gli ultimi dati disponibili, l’età media alla laurea di primo livello (triennale) nei paesi OCSE è pari a 26 anni, ben lontana quindi dai 21/23 anni attesi (a seconda dell’età al diploma) in un percorso di studi “regolare”. In particolare le ultime statistiche riportano che solo il 39% degli studenti entrati in un percorso di studio triennale abbia conseguito il titolo entro la durata legale del percorso di studi.

Analogamente per l’Italia, l’’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) nell’ultimo Rapporto Biennale sullo Stato del Sistema Universitario e della Ricerca ha mostrato come la quota di immatricolati che si laurea “in regola” nei percorsi triennali sia ancora decisamente minoritaria, benché sia passata dal 19% per gli immatricolati nel 2006/2007 al 31% per quelli 2013/2014. Inoltre, dopo 5 o 6 anni dall’immatricolazione si osserva un tasso di conseguimento della laurea appena superiore al 50%. Il tasso di regolarità è superiore nelle università del Nord (37% di laureati entro i 3 anni) rispetto a quelle del Centro (31%) e, soprattutto, del Sud (20%) che sono colpite anche da una quota di abbandoni superiore rispetto alla media nazionale. Questo dato sembra corroborare l’ipotesi secondo cui migliori (peggiori) condizioni del mercato del lavoro contribuiscono a ridurre (aumentare) il tempo alla laurea. Performance differenziate si registrano anche per gruppo disciplinare del corso di laurea, per genere e per diploma di scuola superiore.

Compresa la rilevanza del fenomeno, è lecito domandarsi perché esso debba destare preoccupazione. A livello collettivo, nei sistemi caratterizzati da un ampio finanziamento pubblico dell’istruzione universitaria, potrebbe verificarsi un problema di utilizzo non ottimale delle risorse. A livello individuale, basandoci sul modello del capitale umano sviluppato da Becker, il ritardo alla laurea contribuirebbe ad aumentare i costi diretti e indiretti dell’acquisizione del titolo di studio, riducendone quindi il rendimento netto. Più difficile da prevedere è l’effetto del tempo alla laurea sui benefici economici in senso stretto. Il ritardo nell’accesso al mercato del lavoro potrebbe ridurre il periodo in cui si può beneficiare dei maggiori rendimenti della laurea ma non è immediato dimostrare se il ritardo alla laurea determini una penalizzazione in termini di minore salario atteso. Dal punto di vista teorico, questo potenzialmente accadrebbe per due motivi principali. Da un lato, chi si laurea con un forte ritardo, potrebbe possedere delle conoscenze ormai parzialmente obsolete. D’altro lato, i potenziali datori di lavoro, in condizioni di asimmetria informativa, potrebbero utilizzare il ritardo alla laurea come un segnale di scarsa abilità, motivazione, capacità organizzativa ecc.

Diventa quindi interessante verificare empiricamente gli effetti di questa particolare caratteristica del percorso universitario sugli esiti nel mercato del lavoro. Gli studi sul tema sono pochi e in generale hanno mostrato, in prevalenza per gli USA e la Svezia, che un’età alla laurea più elevata comporta un salario persistentemente più basso, esercitando un impatto negativo sull’evoluzione dell’intera carriera lavorativa. Per verificare se tali penalizzazioni sussistano anche in Italia, dove il ritardo alla laurea è sempre stato un fenomeno molto diffuso, abbiamo analizzato gli esiti occupazionali dei laureati in funzione del tempo alla laurea in due recenti lavori.

Un primo lavoro analizza, facendo uso dei dati AlmaLaurea, l’impatto del ritardo su due coorti di laureati del vecchio ordinamento (ovvero con iscrizione precedente al 2001), sia sulla probabilità di trovare un impiego, sia sulle retribuzioni a tre e a cinque anni dal conseguimento del titolo, escludendo coloro che avevano un rapporto di lavoro stabile e mantenuto anche dopo il conseguimento del titolo. Al fine di stimare l’effetto causale del fuoricorso sugli esiti indicati, nell’analisi empirica si è utilizzato come “strumento” del ritardo la variazione dei tassi di occupazione tra il primo e il terzo anno di iscrizione universitario in base alla macro-area geografica di frequenza e al genere degli studenti, dal momento che altri lavori hanno dimostrato che mutamenti nelle condizioni del mercato del lavoro influenzano i tempi alla laurea. La ricchezza dei dati a disposizione ha permesso non solo di definire in maniera precisa la durata degli studi, ma anche di controllare contemporaneamente tutte quelle dimensioni evidenziate in letteratura, quali facoltà, tipo di scuola secondaria, voto di diploma, esperienze lavorative temporanee, borse di studio, background familiare, ecc. Siamo stati così in grado di separare l’effetto del tempo alla laurea da altri fattori che, potenzialmente, potrebbero ridurne o amplificarne l’entità. In generale, le stime della probabilità di trovare un lavoro mostrano una riduzione di quasi 1 punto percentuale per ogni anno di ritardo, un effetto che però scompare limitando l’analisi ai soli laureati uomini, mentre permane e si rafforza per le laureate donne. Guardando al gruppo disciplinare, osserviamo che le penalizzazioni dovute al ritardo sussistono solo per i laureati in discipline socio-umanistiche, mentre non emergono per i laureati in discipline STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria, Matematica). In riferimento ai rendimenti salariali, il ritardo comporta penalizzazioni mensili medie per poche decine di euro, che, tuttavia, non solo persistono ma addirittura ampliano con il passare degli anni. Di nuovo, le donne e i laureati in discipline non-STEM sono tra i gruppi più penalizzati da un eventuale ritardo.

In un altro recente articolo, con Michele Raitano, utilizzando dati panel sulle carriere lavorative dei laureati italiani nel periodo 1996-2001, si è analizzata l’associazione tra età alla laurea ed esiti nel mercato del lavoro nei primi dieci anni di carriera dal conseguimento del titolo, escludendo coloro che hanno mantenuto lo stesso impiego anche da laureati. In questo caso, non avendo a disposizione informazioni dettagliate sul percorso di studi universitari (facoltà e anno d’iscrizione), abbiamo utilizzato l’età alla laurea come variabile indiretta del ritardo accumulato dall’individuo. L’utilizzo di informazioni molto dettagliate relative al settore di lavoro, estrapolate dal codice NACE, ha comunque consentito di controllare in modo indiretto per la facoltà prescelta. L’età alla laurea è risultata correlata positivamente alla probabilità di accedere a due tipologie di lavoro, ovvero dipendente pubblico e libero professionista (attività in cui l’accesso al lavoro passa attraverso concorsi o esami di stato successivi alla laurea). Ad un anno dalla laurea, l’età osservata non ha, in media, effetto sui salari settimanali (depurando, anche, da possibili effetti legati a un differente numero di settimane lavorate nell’anno). Va però evidenziato che nell’intervallo di età 29-35 anni i rendimenti annuali delle donne sono più bassi del 20% rispetto alle colleghe laureatesi entro i 25 anni. Considerando i primi dieci anni dal titolo universitario, i rendimenti delle laureate oltre i 29 anni risultano addirittura del 29% inferiori a quelli delle colleghe più giovani. Tale disparità tra i salari settimanali femminili e i rendimenti annuali e decennali evidenzia che le donne che si laureano in ritardo sperimentano più frequenti e più lunghi periodi di non occupazione. Per gli uomini che entrano nel mercato con una laurea in età più mature, invece, non si rilevano svantaggi, né sulla stabilità occupazionale né sui salari.

Dal momento che le differenze di genere emergono chiaramente in entrambi i contributi discussi, riteniamo che studi futuri dovrebbero cercare di verificare se la penalizzazione per le donne che si laureano in ritardo sia legata all’età più avanzata che le espone al “rischio” di una maternità agli occhi di un potenziale datore di lavoro o ad altri fattori non osservabili.

Le Questi studi forniscono dunque le informazioni utili sugli effetti che il ritardo alla laurea può avere sugli esiti lavorativi. Quali interventi sul funzionamento e l’organizzazione dei corsi universitari sono auspicabili per migliorare la regolarità negli studi? Anzitutto riteniamo che qualunque intervento necessiti prioritariamente un incremento delle risorse destinate al sistema di istruzione terziaria, notoriamente sottofinanziato rispetto a tutti i paesi con cui ci confrontiamo, soprattutto per finanziare gli studenti provenienti da background svantaggiati. Tale misura consentirebbe loro di non svolgere attività lavorative, seppur sporadiche, durante gli studi, rischiando di posticipare il conseguimento del titolo e ridimensionare, anche solo parzialmente, i benefici associati alla laurea. Inoltre un monitoraggio da parte di ciascun Ateneo degli studenti iscritti oltre la durata legale, unitamente alle loro caratteristiche, permetterebbe di identificare misure di intervento specifiche, volte a contrastare tale fenomeno.

Si potrebbero poi introdurre meccanismi di ammissione agli anni successivi al primo più stringenti (i.e. raggiungimento di un numero minimo di crediti formativi), riducendo la numerosità degli appelli per anno accademico e rimuovendo la possibilità di ripetere gli esami superati con esito positivo. Sembra contro intuitivo proporre una riduzione dei margini di flessibilità lasciati agli studenti per migliorare la loro regolarità negli studi. Tuttavia, occorre ricordare che proprio una eccessiva flessibilità potrebbe indurre gli studenti, specialmente i meno motivati o organizzati, a procrastinare il sostenimento degli esami. Inoltre, una forte limitazione alla possibilità di sostenere gli esami responsabilizzerebbe maggiormente anche i docenti al momento delle valutazioni.

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