L’approvazione del Jobs Act: una finestra che è rimasta aperta

Gianfranco Pomatto analizza il percorso che ha portato all’approvazione del Jobs Act e sostiene che esso ha fatto leva sia su condizioni di lungo corso, sia su tattiche di più breve periodo. Tra le prime rientrano le raccomandazioni delle istituzioni internazionali sulla flessibilità come rimedio alla disoccupazione. In questo contesto la campagna di comunicazione di Renzi ha promosso un clima di opinione favorevole ai provvedimenti governativi, finendo per esercitare una pressione anche sui dissidenti interni al Pd, già in difficoltà per il gioco di sponda con Forza Italia sulla riforma costituzionale

Il percorso che negli ultimi mesi ha portato all’approvazione del Jobs Act richiama piuttosto fedelmente quanto previsto dal modello elaborato negli anni Ottanta dal politologo americano John Kingdon che è ormai diventato un classico negli studi delle politiche pubbliche.
Secondo questo modello l’avvio di una riforma, quale che sia il settore di intervento, necessita generalmente di queste condizioni fondamentali: la disponibilità di specifiche soluzioni elaborate dalle expertise tecniche; un’opinione pubblica adeguatamente sensibilizzata sugli aspetti problematici che queste specifiche soluzioni – a torto o ragione, poco importa – sarebbero in grado di affrontare; equilibri politici favorevoli (J. Kingdon, 1984, Agendas, Alternatives and Public Policy, Little Brown).
Se una delle condizioni manca è molto probabile che la riforma in questione non giungerà in porto. Viceversa, quando queste condizioni si presentano contemporaneamente, la questione può fare il proprio ingresso nell’agenda di intervento istituzionale: si apre cioè una finestra di opportunità. La finestra rimane aperta per un periodo più o meno esteso, ma non infinito. Possono contribuire a chiuderla eventi focalizzanti – fortuiti o indotti che siano – in grado di sollecitare l’opinione pubblica in una direzione opposta a quella desiderata e cambiamenti anche parziali negli equilibri politici, legati ad esempio al successo di uno sciopero o all’esito di elezioni apparentemente minori. E quando una finestra si chiude può risultare molto arduo riaprirla, perché ciò dipende solo in parte dalla volontà degli attori in campo.
Se si adotta questa prospettiva, gli attori impegnati nella formulazione delle politiche pubbliche svolgono due funzioni principali: in primo luogo agiscono per creare le condizioni utili affinché una finestra di opportunità favorevole alle proprie proposte si apra e, simmetricamente, si chiudano le finestre per le proposte che si intende contrastare; in secondo luogo agiscono per giungere ad una rapida approvazione della riforma di cui sono sostenitori, qualora la finestra propizia si sia effettivamente aperta. Il primo è un lavoro continuo e di lungo corso; il secondo si concentra in periodi circoscritti e, detto in altre parole, risponde all’esigenza di battere il ferro finché è caldo.
La vicenda del Jobs Act si colloca all’interno di una specifica finestra di opportunità, che si è aperta nel corso del 2014, facendo seguito a diverse altre finestre che si sono susseguite nel corso degli anni. Ma procediamo con ordine.
La disponibilità di specifiche soluzioni è costantemente presente da molti anni. Sono infatti ormai almeno due decenni che ricette di flessibilizzazione del mercato del lavoro – sul versante dell’ingresso, dell’uscita o su entrambi i versanti – godono di una sostanziale egemonia, alimentata dalle letture dell’economia mainstream e sostenute da molteplici istituzioni internazionali. Si tratta di prescrizioni che generalmente associano l’incremento della flessibilità alla riduzione della disoccupazione.
Il problema della disoccupazione, ed in particolare quella giovanile, è anch’esso da almeno un ventennio un tema particolarmente sentito dall’opinione pubblica, in un contesto, come il nostro, che vive da molti anni con tassi di crescita del Prodotto Interno Lordo vicini allo zero. A partire dal 2008 la crisi economica internazionale e la recessione che ne è seguita hanno ulteriormente acutizzato l’attenzione pubblica su questo tema.
Prima del Jobs Act specifiche finestre hanno condotto ad approvare altri interventi di riforma: la riforma Treu del 1997 che ha dato il via alla flessibilità in entrata; la riforma Maroni del 2001, che ha esteso ulteriormente la flessibilità in ingresso e ha rinunciato, in seguito ad un consistente conflitto con il sindacato, alla revisione della normativa sui licenziamenti; la riforma Fornero del 2012 che è intervenuta anche su questo fronte, con un depotenziamento dell’art. 18.
La finestra di opportunità per l’approvazione del Jobs Act si apre con l’elezione di Renzi alla segreteria del Partito Democratico con le primarie del dicembre 2013, seguita nel febbraio 2014 dalla sua ascesa alla Presidenza del Consiglio. Le elezioni europee del successivo maggio segnano a loro volta un passaggio importante, che contribuisce a mantenere la finestra saldamente aperta.
Una lettura attenta dei dati elettorali rivela che in realtà il Pd non raggiunge il suo massimo storico in questa occasione e che l’esito è stato in gran parte determinato dall’astensione (si veda l’Archivio storico delle elezioni del Ministero dell’Interno e la sezione “Analisi e comunicati stampa” del sito dell’Istituto Cattaneo).
Ciò che conta, tuttavia, ai fini del nostro ragionamento è la percezione di quanto avvenuto. E la percezione che è prevalsa, ampiamente veicolata dai media, è quella di un successo storico del Presidente del Consiglio, che si sarebbe dimostrato in grado di attrarre come mai prima un elettorato vasto e trasversale.
La discussione parlamentare della legge delega per il Jobs Act prosegue nei mesi seguenti, arrivando alla sua approvazione alla fine dell’anno, mentre è di questi giorni l’emanazione dei decreti legislativi da parte del governo. La tattica renziana lungo tutto questo periodo è finalizzata a far passare velocemente il provvedimento, cercando, da un lato, di favorire un clima di opinione favorevole, dall’altro lato, di indebolire il dissenso interno al suo partito.
Per quanto riguarda il clima di opinione la tattica si esprime attraverso una campagna comunicativa pienamente coerente con i criteri di notiziabilità della media logic che impongono la personalizzazione, la spettacolarizzazione e la semplificazione dei temi (D. L. Altheide e R. P. Snow, 1979, Media logic, Beverly Hills, Sage Publications). Vediamola più da vicino.
Il rapporto diretto con l’opinione pubblica è sin dagli esordi uno dei cardini della comunicazione di Renzi. Esso è finalizzato a sollecitare, mantenere e rafforzare un legame emotivo da parte dei cittadini comuni verso la sua persona, frutto di identificazione prima ancora che di fiducia. Renzi si propone e agisce per apparire  un outsider di successo, una figura cioè che può incontrare nell’attuale contesto una vasta simpatia.
Per continuare ad apparire un outsider, un soggetto altro rispetto alla “casta”, nonostante sia il Presidente del Consiglio in carica, esibisce continuamente disprezzo verso la negoziazione con gli altri attori politici e sociali, posto che la negoziazione implica sempre una qualche forma di riconoscimento e comunanza. In alcuni casi arriva a simulare sarcasticamente di non conoscere nemmeno il nome dei propri interlocutori: il “Fassina chi?” espresso durante una conferenza stampa che conduce alle dimissioni del viceministro dell’economia è in tal senso particolarmente emblematico. Allo stesso tempo deve apparire come un vincente. Il successo alle europee è a questo fine costantemente riattualizzato, da parte dei membri della sua corrente che partecipano stabilmente ai talk show televisivi.
Finché questa operazione riesce ad avere una qualche presa, l’operato del Presidente del Consiglio, quale che esso sia, può godere di una sorta di aura positiva, non semplice da infrangere nel breve periodo.
Vi è poi un vero e proprio marketing di prodotto, che nel corso degli ultimi mesi si è articolato in diverse modalità.
Una prima modalità non si applica esclusivamente al Jobs Act, ma ha una portata più generale per il complesso dell’azione di governo. Prende corpo attraverso una comunicazione strutturata sulla polarizzazione semantica, tra un campo positivo che richiama al progresso ed un campo negativo che si lega all’arretramento. Le riforme promosse dal governo sono invariantemente connotate di innovazione; chi critica o si oppone, di passatismo: sono i gufi, i nostalgici di un’Italia che fortunatamente non c’è più, popolata di telefoni a gettone e macchine fotografiche con il rullino.
Una seconda modalità, portata avanti anche in questo caso in particolare nei talk show, consiste in un’operazione di framing (E. Goffman, Frame Analysis. L’organizzazione delle esperienze, Armando Editore, 2001). L’obiettivo perseguito è in questo caso inquadrare il Jobs Act nel frame della stabilizzazione e del contrasto della precarietà, anziché in quello della flessibilizzazione dei rapporti di lavoro. A questo fine l’accento è posto selettivamente sui contenuti del provvedimento che non riguardano la disciplina dei licenziamenti.
Una terza modalità è una forma di marketing attraverso testimonianze. E’ agita da soggetti che fanno parte della coalizione di sostegno della riforma – da Marchionne, alle associazioni di categoria datoriali – che esibiscono prossime assunzioni o comunque si dichiarano disponibili ad assumere nuova forza lavoro in virtù dei benefici che da essa deriverebbero.
Nella misura in cui il complesso articolato di questa campagna di comunicazione riesce a penetrare presso l’opinione pubblica, o quanto meno ad essere percepita come potenzialmente efficace, essa assolve anche ad un’altra funzione: esercitare una consistente pressione nei confronti della base parlamentare del Partito Democratico, comprese le componenti che non sono riconducibili alla corrente renziana e che non amano il premier.
Peraltro, la pressione verso i parlamentari di maggioranza ha preso corpo anche per un’altra via: il gioco di sponda condotto con Forza Italia in particolare sulle riforme costituzionali. Gioco che è entrato apparentemente in crisi con l’elezione del Presidente della Repubblica, ma che comunque nei mesi di discussione parlamentare del Jobs Act era pienamente attivo e paventava, quanto meno potenzialmente, la disponibilità di maggioranze alternative, in grado di rendere ininfluente il dissenso interno.
In definitiva dunque l’approvazione del Jobs Act si lega ad una finestra di policy che si è aperta ed è rimasta tale per un tempo sufficientemente lungo, facendo leva sia su condizioni ormai di lungo corso, sia su tattiche più immediate, riguardanti tanto la comunicazione rivolta all’opinione pubblica, quanto le dinamiche nelle aule parlamentari.

Schede e storico autori