L’approdo di un popolo

Le nazioni come tutte le formazioni storiche hanno una ragione politica, culturale, sociale e un radicamento profondo nel tempo, quindi non sono né accidentali né eterne. Con una felice definizione Benedetto Croce le giustificò, nella Storia d’Europa, non come dati naturali, ma stati di coscienza e formazioni storiche. Ma proprio per questo le loro ragioni, le loro permanenze, le trasformazioni nel tempo, vanno conosciute e riconosciute anche in funzione della consapevolezza del presente e del possibile cammino verso il futuro. Vale la pena ricordarlo ai molti attuali celebratori della morte o meglio della non vita della nazione italiana, per fortuna una minoranza della popolazione sebbene politicamente influente: ai leghisti soprattutto del Nord ma anche del Sud, contrari in nome di valori e interessi di forma pre-moderna a  celebrare i 150 anni della nostra comune storia.

Tra le nazioni l’Italia non fa eccezione: essa non esiste per accidente indesiderato o subìto, né è l’approdo definitivo della storia del suo popolo. Con i suoi 150 anni è nata in tempi relativamente recenti, ma con un secolare retroterra culturale alle spalle e soprattutto nello scenario di quel grande fermento politico, culturale, economico e sociale europeo verso l’indipendenza e le libertà civili, iniziato con l’illuminismo e sfociato nella prima metà dell’800 nella cosiddetta “primavera dei popoli”. In questo scenario il Risorgimento italiano è stato tra i movimenti più forti e di maggior rilievo europeo, grazie al liberalismo laico e progressista così finemente interpretato da Cavour, al federalismo cattolico universalista di Gioberti e al cattolicesimo liberale dei molti sostenitori della causa nazionale, al repubblicanesimo di Mazzini per una Giovane Italia nella Giovane Europa, al federalismo laico di Cattaneo, all’azione militare dell’esercito popolare garibaldino per la libertà dei popoli del mondo.

 Il 17 marzo 1861 nacque il Regno d’Italia, con nucleo fondante l’unico Stato retto da una monarchia costituzionale, il Regno di Sardegna, vittorioso nella guerra d’indipendenza contro l’Austria e inchiodato a responsabilità impreviste dai risultati sorprendenti di quella “guerra di liberazione” che fu la spedizione  dei Mille. La conquista del Regno borbonico era stata preparata nel Sud da élites politiche rivoluzionarie mazziniane e garibaldine (con Crispi in prima linea). Le regioni italiane liberate dal dominio straniero o dai vecchi regimi, aderirono ovunque al nucleo originario piemontese attraverso plebisciti largamente favorevoli, seppure espressione di una minoranza delle popolazioni, come minoritari erano e non potevano non essere nelle circostanze politiche del tempo i movimenti rivoluzionari per l’indipendenza e la libertà. Due Regni, alcuni ducati territoriali, le regioni dello Stato Pontificio, insieme a molte idee diverse, entrarono, ciascuno superando sé stesso, nella costruzione e costituzione del nuovo Stato italiano. In questo difficilissimo passaggio condiviso dai più, con drammatici contrasti tra vincitori e vinti ma anche tra gli stessi vincitori, molti furono gli immediati risentimenti, differenti le aspettative e fortissime le delusioni, al punto da fare maturare subito soprattutto tra le élites politiche democratiche l’idea di un Risorgimento tradito. Nell’impronta originaria dello Stato risorgimentale liberale i punti massimamente critici furono immediatamente percepiti attraverso l’eccidio dei contadini di Bronte, la repressione del brigantaggio (primi drammatici segnali di una specifica “questione meridionale”) e per l’insorgere della “questione cattolica”.

Senonché quest’ultima non fu conseguente alla scelta laica dello Stato liberale, ma all’atteggiamento intransigente della Chiesa di fronte alla perdita del suo potere temporale e del suo cospicuo territorio, fino al divieto imposto dal Papa ai cattolici di partecipare alla vita politica (non expedit). Quanto alle modalità della guerra contro i briganti (vera guerra civile) esse rivelarono la colpevole incomprensione del carattere sociale della rivolta (non vi parteciparono solo ex militari borbonici ma soprattutto contadini poveri);  gli atti di violenza dell’esercito italiano come gli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni, chiedono ancora un riconoscimento pubblico.

Ma in nessun caso i cattolici e i democratici delusi rifiutarono la nazione; semmai tradussero le loro idee in una azione riformatrice che rese non solo più ricca e rappresentativa la classe dirigente nazionale, ma anche più moderno il sistema politico. Nel cammino aspro e tutto in salita dell’Italia in costruzione, si allargò progressivamente il suffragio, si estese l’educazione scolastica, diminuì l’analfabetismo, si formò una rete di comunicazioni e trasporti capace di accompagnare le merci verso il mercato interno ma soprattutto internazionale, la pubblica amministrazione raggiunse alti livelli di competenza soprattutto nelle strutture incaricate di indirizzare lo sviluppo economico o di fare l’Italia attraverso le opere pubbliche. Negli anni dall’Unità alla prima guerra mondiale lo sviluppo economico, civile e culturale fu nel complesso straordinario, e poiché l’ex Regno borbonico non era affatto isolato, non solo non vide crollare le sue industrie a causa dell’Unificazione, ma partecipò con le sue specifiche risorse produttive ed umane da protagonista alla formazione della ricchezza e della classe dirigente nazionale. Al punto che un prete liberale come Sturzo condivise la cultura politica risorgimentale, ricondusse all’inizio del Novecento i cattolici alla vita politica attiva attraverso le istituzioni locali, divenendo sindaco di Caltagirone, e fondando il federalismo cattolico moderno, già orientato verso la meta di un vero partito laico.

Anche il meridionalismo fu un ampio contenitore culturale in cui confluirono diversi progetti politici tutti fortemente ispirati al valore supremo della unità nazionale: il conservatorismo moralizzatore di Villari, Fortunato, Franchetti e Sonnino, il partito laico dei cattolici di Sturzo di cui si è già detto, il socialriformismo e il produttivismo di Nitti incentrato sulla energia e sul governo del territorio, il Partito socialista di piccoli produttori di Gaetano Salvemini. Non fu una marcia trionfale e senza costi sociali l’indiscutibile affermazione della democrazia e dei diritti politici nell’ambito dello Stato liberale, nato censitario e cresciuto fino al suffragio universale maschile. Essa conobbe ulteriori momenti di sospensione delle libertà e di violenza come la repressione dei Fasci siciliani o le leggi liberticide nazionali di fine Ottocento. Ma il Risorgimento seguitò a rappresentare anche per gli sconfitti, il punto di irradiazione di una sempre possibile rigenerazione del paese. L’Italia, nonostante i conflitti e i sacrifici sociali (si aggiunse dagli anni Ottanta dell’Ottocento l’emigrazione transoceanica) mostrava palesi i segni di una grande trasformazione nell’industria, nell’agricoltura, negli scambi commerciali, iniziata in ritardo ma con i ritmi principali stati europei; mostrava i segni di una crescita della cultura della partecipazione democratica, del prestigio internazionale. Così quando arrivò la Grande guerra europea delle nazioni industriali, essa poté essere considerata da chi la decise, la prima grande conferma del valore del Risorgimento, la prima prova dell’Italia unita accanto ai paesi democratici contro gli imperi. Molti furono i volontari di ogni cultura politica, anche tra i socialisti ufficialmente neutrali.

La guerra segnò una svolta radicale nella storia politica ed economica mondiale, europea e italiana. Per quando con aspetti iniziali ambigui, l’Italia fascista fu un comprensibile trauma per gli intellettuali e i politici di formazione liberale. Il Risorgimento cominciò a diventare più debole a partire dalla rappresentazione degli storici, o perché capace di esporre la nazione ad un non riconoscimento di sé (il fascismo come “parentesi” di Croce), o perché forma ancora immatura di un nazionalismo destinato a svilupparsi meglio in politica di potenza (“l’Italia in cammino” di Gioacchino Volpe, volontario in guerra, che aderì al fascismo ma che  non avrebbe aderito alla Repubblica sociale italiana). E ancora un trauma per la coscienza civile e la sensibilità intellettuale (postuma e revisionista tra gli storici) sarebbe arrivato con la guerra nazifascista e, dopo la caduta del fascismo, con l’armistizio, con la divisione dell’Italia in due, con la guerra di Liberazione (“guerra civile” per Claudio Pavone, “morte della patria” per Ernesto Galli della Loggia). Eppure non si può non riconoscere quanta volontà di patria e di nazione ci sia stata in quell’immane sforzo sostenuto al Nord e al Sud con l’aiuto decisivo dagli alleati angloamericani, per riunificare ciò che era diviso. La Resistenza si autodefinì “nuovo Risorgimento” e la Costituzione repubblicana del 1948 ne venne considerata la più coerente espressione, ispirata alla inclusione nelle istituzioni rappresentative di tutte le forze politiche che si dichiararono pronte alla democrazia (dal movimento sociale, ai liberali ai democristiani ai comunisti) e che, anche se in qualche caso volevano “fare come la Russia”, in qualche altro come l’America, avevano un vitale bisogno di una cornice nazionale per partecipare alla lunga guerra fredda con la massima autonomia possibile per un paese già sconfitto.

Non si può negare che ci sia stata anche una buona dose di patria non solo negli uomini delle istituzioni come Einaudi o Menichella, ma anche nei partiti e nei sindacati che guidarono o subirono le regole della ricostruzione e della crescita economica degli anni Cinquanta, in De Gasperi, Vanoni, Di Vittorio, Grandi, Pastore, Togliatti, Nenni, La Malfa ed altri, nonostante talora tale dose si sia confusa in eccessi ideologici di vario segno. Fu quella dose a portare l’Italia al “miracolo economico”, all’Oscar delle monete la lira italiana nel 1960. Negli anni più bui è stata ancora quella dose di patria o nazione, intesa come spazio territoriale e istituzionale pubblico condiviso, a portare alla sconfitta del terrorismo, del golpismo o a vittorie insperate contro la criminalità organizzata, contro le clientele.

Lo storico Emilio Gentile ha di recente parlato di Risorgimento senza eredi, sollevando opportunamente un problema vivo nella cultura e nella storiografia italiana di oggi: l’assenza totale di riferimento ai nostri padri fondatori. Si tratta di un’assenza effettiva o di una rimozione dovuta alla tendenza a ricordare meglio la storia più coerente con la propria visione politica? Gentile stesso, legato al paradigma democratico-liberale, fa coincidere la crisi dell’idea di nazione con la nascita del fascismo, a sua volta frutto delle matrici autoritarie legate alla prima guerra mondiale. Giustamente – come non essere d’accordo! – Gentile ha spesso sottolineato come il mito una nazione possa sopravvivere solo in uno Stato che funzioni e con una classe dirigente all’altezza della sua missione. Non è questa purtroppo la situazione di oggi, come invece richiederebbe proprio il superamento della semplice dimensione nazionale nell’ambito delle nuove istituzioni europee e delle nuove relazioni globali.

Perché non riconoscere una funzione ancora vitale della nazione italiana durante il fascismo, nella tensione sempre accesa per il ritorno alla libertà o semplicemente nella pratica virtuosa esercitata dalla popolazione nel segno del dovere, della competenza e della correttezza? Perché non ricercare la nazione viva anche in tempi a noi vicini? Senza una reazione collettiva a ciò che era diventato insopportabile e che oggi tende a riprodursi, l’uso personale, discrezionale, clientelare delle istituzioni, fino all’indebitamento pubblico gravissimo del popolo italiano, sarebbe stata impossibile la caduta del vecchio sistema politico all’inizio degli anni Novanta e la stessa nascita della Lega Nord.

Le nazioni non sono eterne, la nostra non è una storia istituzionale lunghissima e le sue ombre sono state e sono spesso inquietanti. Ma ancora all’appuntamento con l’Europa possiamo riconoscere la classe dirigente e lo spirito dei padri fondatori in coloro che hanno condotto l’Italia all’euro raccogliendo un corale consenso del paese in cammino verso nuove forme istituzionali, un consenso proveniente da tutte le regioni italiane anche se sottoposte ai pesanti sacrifici imposti dal risanamento del bilancio pubblico. Oggi, a distanza di oltre un decennio, la nazione politica appare divisa tra un Nord bagnato dal Po e un Sud in psicoanalisi regressiva, entrambi ostili al riconoscimento della storia del loro paese e alla celebrazione di un anniversario che pur li riguarda. Eppur si muove, direbbe Galilei! Visto che le celebrazioni si stanno comunque svolgendo, spesso con pochi mezzi economici e molta passione culturale, e che la loro stessa visibilità solleva già moltissime curiosità verso la storia, anche quelle degli storici occasionali degli ultimissimi anni.

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