L’accesso alla cittadinanza in Italia

Marta Capesciotti ricostruisce la disciplina normativa della cittadinanza in Italia e ne illustra i problemi applicativi in particolare rispetto alle seconde generazioni dell'immigrazione.

L’obiettivo di questa scheda è di fornire un quadro della dimensione giuridica della cittadinanza in Italia, attraverso una definizione sommaria del concetto e, successivamente, un’analisi della disciplina normativa e dei problemi applicativi soprattutto per quel che concerne le seconde generazioni dell’immigrazione.

Con il termine cittadinanza si intende lo status giuridico che le autorità di uno Stato attribuiscono ad un certo numero di individui che, per nascita o per vicende giuridiche presentatesi nel corso della loro esistenza, stabiliscono con esso un rapporto privilegiato, a cui si collega il godimento di una serie di diritti e, in parte minore, di doveri. L’attribuzione dello status di cittadino segue delle regole ben precise che ciascuno Stato stabilisce formalmente tramite norme costituzionali o legislative. L’operazione non risulta, tuttavia, in alcun modo neutrale: definire la cerchia di individui che rientrano nel nucleo della cittadinanza equivale, infatti, a fissare confini che, se da un lato, includono alcuni individui in un legame giuridico caratterizzato dal godimento di diritti, dall’altro, irrimediabilmente escludono altri soggetti che pur appartengono, in molti casi, all’aggregato sociale.

Nel corso della storia, gli Stati hanno individuato criteri differenti di attribuzione dello status civitatis, di cui due sono i principali. Il primo criterio è quello dello ius sanguinis, ovvero la trasmissione della cittadinanza per discendenza diretta da un genitore cittadino di uno Stato. Il secondo criterio è quello dello ius soli, ovvero l’acquisizione della cittadinanza in seguito alla nascita del soggetto nel territorio statale. Pochi risultano essere gli ordinamenti che hanno scelto questo come criterio principale (come, ad esempio, gli Stati Uniti); esso risulta, piuttosto, un principio secondario, inserito in ordinamenti che fanno dello ius sanguinis il criterio principale, al fine di correggere i casi di apolidia, ovvero di individui privi di qualunque cittadinanza.

Esistono, poi, altre modalità di accesso alla cittadinanza, che non sono legate al momento della nascita dell’individuo, ma ad eventi successivi che eventualmente segnano la sua esistenza.In primo luogo, l’acquisizione della cittadinanza per matrimonio con un cittadino o una cittadina; in secondo luogo, l’acquisizione della cittadinanza per naturalizzazione, che è possibile nel caso di un cittadino straniero che, nel corso della sua vita, decide di risiedere in un Paese differente da quello di origine e di richiederne la cittadinanza, una volta assolto il requisito minimo di residenza che ciascun ordinamento giuridico prevede; infine, l’acquisizione della cittadinanza per beneficio di legge: in questi casi il riconoscimento della stessa avviene con più facilità, generalmente a seguito di una richiesta esplicita del soggetto interessato o, più raramente, in maniera automatica.

Lo status civitatis è disciplinato nel nostro ordinamento dalla l. n. 91/1992. Si tratta di una legge scarna, composta da appena ventisette articoli, che racchiude tutte le fattispecie sopra elencate. Il criterio principale di acquisizione della cittadinanza risulta essere lo ius sanguinis (art. 1). Per l’acquisizione della cittadinanza per matrimonio vengono richiesti al coniuge stranieri due anni di residenza legale in Italia (art. 5). La disciplina della naturalizzazione, nel nostro ordinamento, è soggetta ad una netta differenziazione in base alla condizione del soggetto richiedente, per quanto concerne i requisiti minimi di residenza richiesti: se il richiedente è, infatti, un discendente in linea diretta di un cittadino o una cittadina italiana, il requisito di residenza legale nel territorio italiano è di tre anni; sale a quattro anni per i cittadini comunitari; sale ancora a cinque anni per gli apolidi e per gli stranieri maggiorenni adottati da cittadini italiani; arriva, infine, a dieci anni per gli stranieri extra-comunitari (art. 9). Infine, l’accesso alla cittadinanza per beneficio di legge viene riconosciuto in due casi: in primo luogo, per lo straniero o l’apolide del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, se si realizzano alcune condizioni previste per legge; e, in secondo luogo, per il minore straniero nato in Italia che ne faccia richiesta al compimento della maggiore età e possa dimostrare una residenza regolare e ininterrotta (art. 4).

La legge n. 91/1992 ha rivelato sin dall’inizio numerosi aspetti problematici nella sua fase applicativa. In primo luogo, i casi di applicazione dello ius soli risultano essere del tutto marginali e finalizzati a correggere gli sporadici casi di apolidia. In secondo luogo, ha destato numerose perplessità la disciplina dell’acquisizione della cittadinanza per matrimonio: nel tentativo di contrastare il fenomeno dei c.d. matrimoni di comodo, si è assistito nel corso del tempo, fino ad arrivare al “pacchetto sicurezza” (l. n. 94/2009), ad un inasprimento dei requisiti di residenza imposti al coniuge straniero, passando dai sei mesi previsti originariamente dalla normativa agli attuali due anni. In terzo luogo, ha suscitato numerose critiche e tentativi di riforma la disciplina della naturalizzazione: la differenziazione dei requisiti di residenza necessari per la richiesta della cittadinanza denota una gerarchia tra gli stranieri richiedenti basata sul supposto grado di integrazione derivante dalla maggiore o minore affinità dello straniero stesso alla cultura e alla società italiane. Infine, un aspetto spinoso riguarda le seconde generazioni dell’immigrazione alle quali viene attualmente richiesto, come requisito per l’accesso alla cittadinanza italiana, un periodo di residenza legale ed ininterrotta di diciotto anni. Nessun valore viene dunque riconosciuto al percorso di integrazione e scolarizzazione svolto dal minore, che spesso non presenta alcun legame con il Paese di origine dei genitori. È necessario, inoltre, considerare che è sufficiente un qualsiasi ostacolo di ordine burocratico per rendere impossibile la dimostrazione della residenza continuata in territorio italiano. La gravità di tale lacuna è comprensibile se si considera che, una volta raggiunta la maggiore età, ove non sia possibile richiedere la cittadinanza italiana, il soggetto perde le tutele specifiche di cui godeva in quanto minore, finendo per essere considerato come un qualsiasi straniero immigrato in Italia in età adulta e potendo, dunque, accedere alla cittadinanza solo tramite naturalizzazione.

Il problema relativo alle seconde generazioni dell’immigrazione, per quanto concerne l’accesso alla cittadinanza italiana, è stato oggetto, nel corso del tempo, di numerosi interventi correttivi. Da un lato, alcune circolari del Ministero dell’interno, a partire dagli anni ’90, hanno ammorbidito i requisiti amministrativi richiesti dalla normativa; dall’altro, i giudici ordinari i quali, con alcune decisioni dell’ultimo biennio, hanno espresso un comune orientamento verso l’accoglimento di ricorsi contro provvedimenti di diniego della cittadinanza, sulla base di una lettura più elastica dei requisiti richiesti dalla legge del 1992, secondo la quale, non solo è possibile fornire documentazione alternativa (ad esempio certificati scolastici o sanitari) attestante la continuità della residenza, ma è, anche, illegittimo penalizzare il richiedente sulla base di errori od omissioni di natura burocratica non imputabili allo stesso ma a chi esercita la patria potestà.

L’ultima innovazione normativa in materia di seconde generazioni dell’immigrazione è l’art. 33 d.l. n. 69/2013, ovvero il c.d. decreto del fare, conv. con mod. nella l. n. 98/2013. Tale disposizione tenta di risolvere alcuni problemi di ordine burocratico: prevede, infatti, che non siano imputabili al già minore inadempimenti riconducibili ai genitori o alla pubblica amministrazione, legittimando l’utilizzo di documentazione alternativa al fine di dimostrare la residenza nel territorio italiano. Prevede, inoltre, che gli ufficiali di stato civile abbiano l’onere di informare il minore straniero nato in Italia della possibilità di richiedere la cittadinanza nei sei mesi precedenti il compimento della maggiore età. Questo tentativo di riforma di un aspetto della normativa, seppur lodevole, risulta comunque parziale e non elimina la necessità di una riforma complessiva della normativa italiana in materia di cittadinanza. La legge n. 91/1992, infatti, sembra essere inadeguata a rispondere ad una realtà migratoria come quella italiana ormai pienamente radicata nel tessuto sociale.

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