L’abbandono del vincolo valutario e le sue conseguenze: un contributo al dibattito tra Biasco e Rodano

Massimiliano Tancioni interviene nel dibattito tra Biasco e Rodano sugli effetti dell’abbandono del vincolo valutario, proponendo un ragionamento quantitativo basato su un modello che tiene conto dei punti sollevati da Biasco nella sua critica a Rodano. Svolgendo l’analisi in ottica comparativa, Tancioni giunge alla conclusione che uno scenario di uscita governato è in grado di produrre, nel medio termine, risultati macroeconomici migliori di quelli che scaturirebbero dalle politiche fiscali richieste dagli Obiettivi di Medio Termine.

I commenti di Biasco al contributo di Rodano sull’opportunità dell’abbandono dell’euro, offrono l’occasione per alcune considerazioni analitiche e quantitative, che spero utili al dibattito.

Le critiche mosse a Rodano sono sostanzialmente tre, tutte di metodo. Il modello utilizzato, di ispirazione AD-AS, avrebbe solo “una tangenziale attinenza alle questioni centrali” dell’analisi in oggetto, poiché esso i) non considera il ruolo dei patrimoni, ossia dei saldi finanziari settoriali; ii) è per natura statico, non permettendo una valutazione della dinamica di transizione tra un equilibrio e l’altro; iii) non considera il ruolo della reazione del settore estero alla svalutazione del cambio dell’economia domestica, essendo questa descritta sotto ipotesi di piccola economia aperta.

Queste tre omissioni svolgerebbero un ruolo cruciale nella trasmissione dello shock valutario, cosicché il modello non sarebbe in grado di cogliere i rischi di una “catastrofe epocale”, connessi ad “un’opzione che non abbiamo”, quella dell’abbandono del vincolo valutario.

La prima osservazione, strettamente metodologica, è che non solo quello utilizzato da Rodano, ma ogni modello dell’economia, è per natura falso. Il comportamento economico è sufficientemente complesso da rendere parziale, quindi falsa, ogni sua modellizzazione (Hendry, 1986). La questione centrale è piuttosto la verificabilità delle predizioni cruciali del modello

Nello specifico dell’analisi di Rodano, la predizione è che l’abbandono del vincolo valutario può essere vantaggioso solo a fronte di una contrazione del costo del lavoro per unità di prodotto – ottenibile attraverso una riduzione del salario reale dei lavoratori o un aumento della produttività – cioè della stessa condizione da soddisfare per sopravvivere nell’area valutaria. Sulla questione sono già intervenuto sul Menabò .

Se l’obiettivo di Rodano è circoscritto a questa valutazione teorica, l’analisi sembra del tutto valida. Dal punto di vista empirico, invece, la questione è più complicata: in che misura la parametrizzazione utilizzata è in grado di replicare, sia pure in una forma ridotta, la struttura di fondo di una vera piccola economia appartenente ad una area valutaria? Quanto i risultati dipendono dalla formulazione specifica del modello e quanto dalle ipotesi semplificatrici sottolineate da Biasco?

Sebbene l’obiettivo principale del contributo di Rodano sia un altro, a mio avviso la sua analisi è, da questo punto di vista, più problematica. Lo è perché la scelta valutaria ha necessariamente a che vedere con una valutazione quantitativa e comparativa dei costi e dei benefici ad essa associati.

Biasco individua le debolezze più evidenti dei modelli statici tradizionali, ma la sua argomentazione non aiuta a valutarne l’effettiva rilevanza nel caso specifico. Allo stesso modo, nel richiamare la deflazione salariale quale condizione necessaria per l’espansione a seguito della svalutazione, Rodano colloca l’analisi sul terreno comparativo, ma la semplicità e la staticità del modello ne impedisce un approfondimento quantitativo.

Propongo una breve analisi basata su un modello macroeconometrico che, da un lato, specifica dinamicamente l’approccio AD-AS di Rodano e, dall’altro, tiene in considerazione i 3 caratteri mancanti sottolineati da Biasco.

La struttura utilizzata è pienamente collocabile nel contesto dei modelli dinamici stocastici di equilibrio generale di ispirazione nuovo-keynesiana, caratterizzato da mercati dei beni, del lavoro e del credito imperfetti e da prezzi viscosi. Gli agenti sono massimizzanti ed operano sotto aspettative razionali, ma una parte di essi è vincolata al reddito corrente nelle scelte di consumo. Il settore estero è simmetrico rispetto a quello domestico, pertanto l’ipotesi di piccola economia aperta viene rimossa.

La caratteristica cruciale è la rappresentazione del rischio di default pubblico e privato, capace di approssimare i balance sheet effects (Frankel, 2004 – IMF; Towbin e Weber, 2011 – IMF), ossia gli effetti delle variazioni nei saldi finanziari settoriali richiamate da Biasco, attraverso la loro scomposizione nella parte domestica e in quella estera.

In linea con una letteratura consolidata, si assume che il rischio di insolvenza sul debito sovrano dipenda da due grandezze fondamentali: debito pubblico e posizione netta sull’estero in rapporto al PIL (Yeyati e Panizza, 2011 – JDevEc; Mendoza e Yue, 2012 – QJE). Nel modello il default non è il risultato di una scelta strategica, ma diventa evento certo in corrispondenza di una spesa per interessi pari allo spazio fiscale del paese.

Il mercato del credito, anch’esso in concorrenza monopolistica, è esposto al rischio di default del settore privato che, per ipotesi ed in linea con l’evidenza empirica (Harjes, 2011 – IMF; Corsetti et al. 2013 – EJ), segue l’evoluzione di quello sul debito sovrano. Dalla dinamica del rischio di insolvenza (pubblico e privato) dipende il differenziale tra tassi sul debito/prestiti bancari e quello di policy. La rappresentazione dei differenziali dei tassi di interesse introduce pertanto un risk channel nella trasmissione delle politiche e degli shock. [1. Una versione preliminare della struttura del modello si trova in E. Beqiraj e M.Tancioni , Working Paper n. 167, Department of Public Economics, Sapienza, 2014 ; una versione più aggiornata si può ottenere dall’autore di questo articolo.]

Per rendere l’analisi il più possibile aderente alle osservazioni, il modello viene calibrato e stimato su dati dell’economia italiana (per il settore domestico) e del resto dell’Eurozona (per il settore estero).

Alcuni valori di calibrazione meritano una breve discussione, essendo di rilevanza cruciale per il dibattito. Per l’Italia, le passività estere ammontano a circa il 49% del PIL (Nordvig e Firoozye, 2012 – FT Alphaville), di cui il 16% è riferibile al settore pubblico (12% per la banca centrale, 4% per il governo centrale) e il 33% al settore privato (21% a capo delle banche, 12% del settore privato non bancario). Le attività sono dell’ordine del 4% per il complesso del settore estero e del 25% per quello privato. L’esposizione estera netta è quindi del 20% (12% per il settore pubblico, 8% per quello privato), cioè alquanto moderata. Considerando anche che circa il 93% del debito del settore pubblico è definito sotto legge nazionale, i rischi connessi al balance sheet effect appaiono relativamente contenuti; infatti, l’esposizione netta degli altri paesi periferici in termini di PIL è compresa tra 2,5 (Spagna) e 4,5 volte (Grecia) quella italiana.

L’elasticità del rischio di default al debito e alla posizione netta sull’estero viene stimata, avendo preliminarmente calibrato i parametri di forma e di scala della funzione che descrive il legame tra fondamentali e probabilità di default sulla base dell’evidenza storica. Il rapporto tra debito pubblico e PIL è fissato al valore coerente e la frequenza di rinegoziazione calibrata per ottenere una vita media pari a circa sette anni.

Ai fini di una valutazione comparativa, vengono confrontati due scenari alternativi: nel primo si assume il quadro programmatico di finanza pubblica definito dal DEF dell’aprile 2015 (MEF, 2015), nel secondo si ipotizza l’abbandono dell’euro, con una successiva svalutazione nominale pari al 20% all’impatto, che raggiunge un valore di picco del 35% dopo

+2 trimestri, per tornare poco sopra il 20% dopo 2 anni. Un target del 20% sembra coerente con la rivalutazione reale sperimentata dall’Italia rispetto al centro dell’Eurozona per effetto del differenziale inflazionistico.

Nello scenario di uscita, si assume che la politica monetaria segua una regola di reazione in cui il peso della variazione di prodotto reale abbia un ruolo rilevante nella fissazione del tasso di policy, pur rimanendo un ancoraggio forte alla stabilizzazione nominale nel lungo periodo. La politica fiscale è interamente neutrale. Non vengono considerati schemi di indicizzazione totale o parziale, né dei prezzi, né dei salari.

I risultati sono espressi in termini di deviazioni percentuali dal tendenziale, ossia dallo scenario a normativa e regime valutario invariati.

Tengo a sottolineare che il modello utilizzato, al pari di altri, è falso. Pertanto la sua simulazione può produrre solo una razionalizzazione delle dinamiche più verosimili, date le scelte modellistiche, le omissioni e la rappresentatività dei dati utilizzati per le stime.

Dalla simulazione dello scenario di uscita vengono conferme e smentite all’analisi di Rodano. Il salario reale subisce inizialmente una contrazione moderata ma persistente, con uno scostamento negativo massimo dell’ordine di un punto percentuale tra 7° e 8° trimestre, e vira in territorio positivo a partire dal 14° trimestre. All’orizzonte di simulazione lo scostamento dal tendenziale è pari a circa 1,7 punti percentuali. Tale andamento è il risultato della dinamica dei prezzi al consumo, in crescita nei primi trimestri (circa 4 punti percentuali) e della pressione esercitata sul salario dalla successiva espansione occupazionale. L’effetto espansivo sul prodotto si instaura dopo circa sei trimestri, producendo una deviazione positiva rispetto al tendenziale dopo 3 anni. L’espansione indotta è pari a circa 2 punti di PIL all’orizzonte di simulazione. La disoccupazione tende a ridursi sensibilmente dopo sei trimestri, e la contrazione massima, dell’ordine del 4%, si ha dopo 5 anni. La dinamica del rapporto tra debito e PIL è prima positiva e poi negativa, seguendo sostanzialmente quella del prodotto, (espansione massima 4%). Tale dinamica è il risultato di un’iniziale contrazione delle entrate pubbliche, per effetto dell’erosione delle basi imponibili durante la fase recessiva, della riduzione del valore reale del debito connessa all’inflazione, e dell’aumento del costo medio del servizio del debito (>3% al quarto trimestre). Tale aumento include, oltre alla dinamica positiva del tasso di policy, gli effetti (in aumento) connessi all’incremento del rapporto tra debito e PIL e quelli (in riduzione) connessi al miglioramento della posizione netta sull’estero indotta dal miglioramento del saldo commerciale (fino al 23%).

La simulazione del quadro programmatico mostra un andamento macroeconomico per certi versi più preoccupante rispetto allo scenario di uscita. Sebbene con andamenti più dolci, la contrazione del prodotto tende ad assumere caratteri di forte persistenza, mentre si sperimenta un aumento del tasso di disoccupazione ed una persistente contrazione del salario reale, di dimensione anche maggiore rispetto a quella dei trimestri immediatamente successivi alla svalutazione. Queste dinamiche si spiegano con un andamento del saldo primario persistentemente positivo in tutto l’orizzonte di simulazione (dall’1,6% del 2015 al 4% del 2019), mentre il leggero aumento dell’inflazione è connesso allo spostamento tendenziale del carico fiscale dalle imposte dirette a quelle indirette.
tancioni1

Nei limiti di rappresentatività del modello, che include gran parte degli ingredienti richiamati da Biasco nella sua critica, la simulazione sembra escludere dinamiche catastrofiche a seguito di una svalutazione.

Ribadisco che questi risultati sono il prodotto delle scelte modellistiche. Per costruzione, gli agenti compiono scelte razionali sulla base delle informazioni disponibili e coerentemente con la struttura del modello. Sono esclusi comportamenti irrazionali. Ma sappiamo che nei mercati finanziari si sono avuti chiari esempi di esuberanza, specialmente in presenza di incertezza forte. Per migliorare la capacità predittiva dei modelli, riducendo i margini di incertezza di previsori ed operatori di mercato, c’è da sperare che il confronto su teoria e fatti empirici prosegua con spirito costruttivo.

Schede e storico autori