La voice di New York, l’exit di Amazon e…. l’abolizione dei miliardari

Maurizio Franzini prende spunto da un recente intervento che sostiene la necessità di “abolire i miliardari” e si chiede cosa possa desumersi nella prospettiva di limitare il potere dei miliardari (anche senza abolirli) dalla recente vicenda che ha visto Amazon rinunciare, dopo le proteste, a costruire il suo secondo quartier generale a New York. Franzini ricostruisce gli eventi è sostiene che le categorie di Hirschman di exit e voice, opportunamente adeguate, possono aiutare a comprendere gli eventi e i possibili sviluppi futuri.

“I miliardari non dovrebbero esistere – almeno non nel numero attuale e con il potere che hanno di ‘inghiottire il globo’, mentre il resto dell’economia a malapena ce la fa”.

Questa frase si legge in un editoriale dal titolo Abolish billionaires comparso sul New York Times del 6 febbraio scorso e firmato da Farhad Manjoo che sul giornale scrive di tecnologia e perciò conosce bene i giganti della rete, abitanti prestigiosi di quel “mondo dei miliardari” (Manjoo lo chiama Billionairedom) che egli vorrebbe abolire.

L’editoriale di Manjoo, riprende affermazioni di Tim Scocca che nel suo blog (Hmmm Daily) ha scritto: “Alcune idee su come rendere il mondo migliore richiedono un’attenta e articolata riflessione sul bilanciamento degli interessi in conflitto…. Altre no: dei miliardari si può dire che sono un problema. E dovremmo sbarazzarci di loro. Di tutti loro”.

La ragione più semplice e immediata che Scocca e Manjoo avanzano per abolire i miliardari è questa: un miliardo di dollari basta e avanza per condurre una vita piena di sperperi e, d’altro canto, un miliardo di dollari è un più che giusto compenso anche per il più grande vantaggio arrecato all’umanità.

Senza entrare nel merito di questi argomenti, mi limito a segnalare che l’editoriale di Manjoo ha ricevuto un gran numero di commenti (oltre 1500 al mio ultimo accesso) e il giornale ha lanciato una raccolta di opinioni sul tema da parte di studenti anche giovanissimi. Vedremo i risultati, ma da quello che emerge finora il consenso se non per l’abolizione dei miliardari (che è anche un po’ difficile da immaginare in tempi brevi) almeno per la creazione di condizioni che rendano difficile la loro formazione è elevato.  E ciò è in linea con l’interesse che le proposte di tassazione dei super-ricchi avanzate negli Stati Uniti stanno ricevendo e di cui dà conto Paladini in questo stesso numero del Menabò.

Per cogliere gli umori rispetto ai miliardari, quanto questi umori inducano alla protesta e che effetti essa possa avere, è forse utile esaminare brevemente un recente, piuttosto indicativo, episodio. Si tratta della decisione di Amazon di abbandonare il progetto di costruire a New York quello che viene normalmente indicato come il suo secondo (dopo Seattle) Quartier Generale.

I fatti sono questi: Amazon ha invitato le città americane interessate a avanzare proposte per la localizzazione del suo secondo Quartier Generale. Si è così aperta una competizione piuttosto singolare – avente principalmente per oggetto offerte di servizi e vantaggi fiscali – che ha anche lambito il surreale. La piccola città di Stonecrest, in Georgia, si è offerta di cambiare il proprio nome in Amazon. Di fronte a questa dimostrazione di attaccamento per la propria storia qualcuno, un po’ burlone, ha ipotizzato che il prossimo indirizzo di Amazon potrebbe essere questo: Amazon Inc. – Amazon Avenue 01, 73784 Amazon, State of New Amazon, United States of Amazon.

Tanta disponibilità non è stata però sufficiente per vincere la competizione, che ha coinvolto oltre 200 città, da Austin a Atlanta, da Denver a Chicago. Il 13 novembre scorso Amazon ha annunciato di aver scelto New York (in particolare Long Island City nel Queens) e Arlington (in particolare Crystal City) in Virginia. Dunque due sedi, non una soltanto come annunciato, e le ragioni di questa decisine non sono chiare.

La decisione, per quanto riguarda New York, seguiva gli accordi raggiunti da Amazon con il Sindaco De Blasio e il Governatore Cuomo. Gli accordi prevedevano un consistente investimento da parte di Amazon (circa 2,5 miliardi di dollari), la creazione di 25.000 posti di lavoro (in gran parte qualificati) e l’afflusso di entrate fiscali valutate in 27 miliardi di dollari nei 25 anni successivi. A fronte di ciò (che è un misto di certezze e promesse) Amazon avrebbe beneficiato di uno “sconto fiscale” complessivo di 3 miliardi di dollari.

Appena resa nota, la decisione ha suscitato perplessità e proteste. Anzitutto molti hanno interpretato il beneficio fiscale di 3 miliardi come una sorta di sussidio che la città assicurava – con danno per i propri contribuenti – a una delle aziende più ricche del mondo, guidata dall’uomo più ricco del mondo.

Ma non sono mancati altri motivi di preoccupazione, in particolare: il modo un po’ riservato e poco partecipativo con cui si era giunti all’accordo; l’impatto urbanistico che avrebbe avuto un edifico di oltre 1 milione e 200 mila metri quadri; le conseguenze per i prezzi delle abitazioni (già in forte crescita e New York) e più in generale i rischi di gentrification dell’insediamento di Amazon (particolarmente rilevanti visto che nei quartieri limitrofi ora vivono moltissimi nuclei familiari con redditi da povertà).

Venuto a conoscenza di questi dettagli il Senatore democratico, Michael Gianaris, membro del comitato che aveva il potere di bloccare l’accordo, ha subito manifestato il proprio dissenso, pur essendo stato un sostenitore del progetto.

Altri politici hanno seguito il suo esempio, ciascuno enfatizzando l’aspetto ritenuto più inaccettabile dell’accordo. Ad esempio Elizabeth Warren ha parlato di ‘tangenti fiscali’ con riferimento agli sconti promessi a Amazon; il già sindaco repubblicano di New York Michael Bloomberg, tornato al partito democratico, ha criticato l’impatto sulla città dell’accordo; Alexandria Ocasio-Cortez ha ribadito il suo giudizio sulla scarsa moralità della ricchezza (e il suo consigliere politico, Dan Riffle ha adottato in quel periodo un nuovo nome Twitter: “Ogni miliardario è un fallimento della politica”).

In effetti, la voice di chi protestava si è irrobustita quando oltre a queste critiche all’accordo e ai suoi contenuti, sono affiorate critiche al “modello Amazon”, in particolare per quello che riguarda il trattamento del lavoro. In un City Council, alla fine di gennaio, è stato severamente criticato l’atteggiamento anti-sindacale di Amazon, che avrebbe anche esplicitamente rifiutato l’invito a rivedere tale atteggiamento in caso di avvio del progetto. Motivo di critica è stata anche la ‘vicinanza’ che Amazon avrebbe con i funzionari federali responsabili delle immigrazioni.

E’, peraltro, importante ricordare che un sondaggio condotto ai primi di dicembre su poco più di 1.000 newyorchesi aveva dato esito favorevole a Amazon (54 contro 41%), anche se sui 3 miliardi di benefici fiscali i favorevoli e i contrari praticamente si equivalevano (46 contro 44%). Dunque, almeno ai primi dicembre, i cittadini di New York intervistati erano in maggioranza convinti che i benefici collegati all’insediamento di Amazon (principalmente in termini di posti di lavoro, di entrate fiscali e forse di qualche intervento infrastrutturale) eccedessero i costi, che pure molti vedevano e temevano, stando a quello stesso sondaggio.

In questa temperie, il 14 febbraio 2019, Amazon ha annunciato di non voler procedere oltre, dunque ha abbandonato il progetto. E la motivazione fornita è la seguente: “un certo numero di politici statali e locali hanno chiarito che sono contrari alla nostra presenza e non collaboreranno con noi per costruire le relazioni necessarie per andare avanti “.

Le reazioni a questa exit di Amazon sono state diverse e di diverso tenore. Molti hanno lanciato strali contro i politici (‘socialisti’ secondo i repubblicani) che Amazon indica come responsabili del venir meno dell’accordo; il governatore Cuomo usando un linguaggio non troppo diverso ha parlato di un piccolo gruppo di politici che si è fatto guidare dai propri meschini interessi politici determinando “la più grande tragedia a cui ho assistito da quando sono al governo”.

Dal canto suo, il sindaco De Blasio – che si era molto impegnato per il raggiungimento dell’accordo – ha punta l’indice contro Amazon che si sarebbe rifiutata di dialogare e di impegnarsi a trovare una soluzione, mostrando così l’arroganza che spinge “l’1% a dettare le regole a tutti gli altri”.

Vi è anche chi ha ricordato che tanta indignazione per gli sconti fiscali non si comprende, essendo questa una pratica comune in casi del genere. Ma, si può aggiungere, normalmente trattative di questo tipo sono piuttosto riservate – e ci sarà pure un motivo. Vista la dimensione di Amazon la segretezza in questo caso è venuta meno e l’indignazione, che l’entità dei vantaggi contribuisce ad accrescere, ha potuto manifestarsi. D’altro canto, aprendo la competizione tra le città, in qualche modo Amazon ha inteso rendere chiaro che per attrarla occorre prevedere qualche ‘beneficio’. Anche questo non dovrebbe favorire il consenso di chi coltiva idee diverse della democrazia.

Proviamo allora a trarre qualche (provvisorio) insegnamento da questa vicenda e per farlo possono venirci in soccorso le note categorie di exit e voice proposte da Hirschman (Lealtà, defezione e protesta, Il Mulino, 2017) opportunamente adeguate al caso in esame.

La voice si è accesa contro Amazon per il concorso di molteplici fattori, molti dei quali impensabili se la popolarità dei miliardari, presso rilevanti segmenti della popolazione, godesse migliore salute. Mi riferisco a privilegi considerati ingiustificati sotto il profilo fiscale, a disattenzione e disinteresse per i ‘costi sociali’ che generano le loro iniziative, a una concezione del lavoro che non può far saltare di gioia i lavoratori, alla tendenza a interpretare un ruolo di leadership anche su faccende e questioni che, in democrazia, dovrebbero essere affrontate in altro modo. Questa voice, per molti versi composita, si è levata malgrado i costi che alcuni potranno sopportare sotto forma di perdita (almeno nell’immediato) di occasioni di lavoro, e ciò permette di ricordare che la voice difficilmente è senza costi, di varia natura ed entità.

Di fronte a questa voice Amazon ha scelto l’opzione exit invece che l’alternativa preferita da De Blasio che potremmo, in questo contesto, chiamare dialogue. Non è dato sapere il perché di questa scelta, ma è probabile che abbia avuto un ruolo la speranza di poter realizzare altrove – magari senza alcuni dei benefici di New York, ad iniziare da quelli dell’ampia disponibilità di lavoratori con competenze adeguate – il proprio piano ed è forse ancora più probabile che abbia pesato il timore che scegliere il dialogue avrebbe significato accendere i riflettori ancora di più sul proprio ‘modello’, con i suoi poco popolari vantaggi fiscali e con il suo debordante potere economico. Quei riflettori devono fare un po’ paura, forse soprattutto perché si teme che illuminando ciò che molti cittadini non possono accettare, essi finiscano per suggerire ai consumatori di comportarsi anche un po’ da cittadini e, quindi, di fare loro exit da Amazon.

Non è facile prevedere cosa succederà, ma questo evento illustra una combinazione di voice e exit che può portare, se non ad abolire, almeno a indebolire i miliardari. E, lasciandosi andare a una previsione, si può dire che se la voice di New York si estenderà anche ad altre città, l’exit per Amazon non sarà più possibile o conveniente. E allora il dialogue dovrà essere preso in seria considerazione.

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