La valutazione nella scuola e il suo buon uso

Daniele Checchi affronta la spinosa questione della valutazione che, come egli sottolinea, deve riguardare le scuole e non gli insegnanti. Facendo riferimento anche all’esperienza dell’INVALSI, Checchi sostiene che la valutazione, se soddisfa alcune condizioni, è indispensabile non soltanto perché mette a disposizione delle famiglie informazioni utili per compiere scelte più consapevoli ma anche perché introduce nel sistema un meccanismo che è in grado di favorire il miglioramento e previene il rischio che scuole scadenti continuino ad essere tali.

Uno dei temi più controversi della riforma della scuola in corso di discussione in Parlamento è quello della valutazione. L’approvazione e la progressiva attuazione del sistema nazionale di valutazione (regolamentato dal DPR 28 marzo 2013, n. 80) è passato sostanzialmente sotto silenzio; nonostante oltre il 95% delle scuole italiane sia attualmente impegnato nell’elaborazione del primo Rapporto di AutoValutazione nessuno è sceso in piazza per protestare contro questo adempimento, mentre il boicottaggio dei test Invalsi quest’anno ha fatto sì che intere regioni saranno escluse dalle elaborazioni per mancanza di rappresentatività dei dati raccolti.

Sembra quindi che il tema della valutazione scateni sentimenti contraddittori nel mondo della scuola, un’istituzione che, peraltro, fa della valutazione degli studenti una delle sue attività principali. Per questa ragione vale la pena di approfondire la questione anche in riferimento al progetto di legge n.2994 (“la buona scuola”).

Partiamo dalla disponibilità dell’informazione: ogni processo valutativo richiede informazione trasparente relativamente all’oggetto da valutare. Un articolo, attualmente numerato come articolo 14 “Open data” del progetto di legge, prevede che il MIUR garantisca “…stabilmente l’accesso e la riutilizzabilità dei dati pubblici del sistema di istruzione e formazione nazionale, pubblicando in formato aperto i dati relativi ai bilanci delle scuole, i dati pubblici afferenti il Sistema Nazionale di Valutazione, l’Anagrafe dell’edilizia scolastica, i dati in forma aggregata dell’Anagrafe degli studenti, i provvedimenti di incarico di docenza, i piani dell’offerta formativa, compresi quelli delle scuole paritarie del sistema nazionale di istruzione…”. L’attuazione di questa norma, se approvata e attuata, rappresenta un salto di qualità in termini di accountability della scuola nei confronti degli utenti (studenti e famiglie in primis) e del territorio. Basti allo scopo l’esempio dei dati INVALSI.

Oggi una famiglia non ha il diritto di conoscere i livelli di competenza acquisiti dagli studenti (per come sono misurati dai test Invalsi, che forniscono la frazione di domande corrette sul totale) nella scuola alla quale sta pensando di iscrivere il proprio figlio. Alcuni dirigenti coraggiosi hanno volontariamente pubblicato i loro risultati nel sito “Scuola in chiaro”, che le famiglie oggi utilizzano per le pre-iscrizioni online; questi dirigenti non superano, però, il 30% delle scuole italiane. Non è neppure soltanto cattiva volontà. Fino allo scorso anno Invalsi si lamentava che circa metà dei dirigenti scolastici non aprisse la mail in cui venivano trasmessi i dati relativi alle loro scuole.

Il mondo della scuola ha finora, nei fatti, snobbato i risultati dei test sulle competenze trasversali, ritenendoli un cattiva indicatore di qualità. Alcuni ritengono che le competenze curriculari siano il vero risultato scolastico che andrebbe considerato, altri che la missione principale della scuola sia quella educativa (che non può quindi per definizione essere misurata da indicatori oggettivi, perché è per sua natura soggettiva e specifica alla relazione tra educatore ed educato), altri infine ritengono che le dimensioni psicologico-affettive degli studenti (in primis l’autostima) siano la dimensione da prendere come riferimento.

Sta però di fatto che le scuole non sono tutte uguali, e le famiglie vanno prestando sempre più attenzione a questo fatto. Le scuole non sono uguali per composizione sociale degli alunni, per caratteristiche del corpo docente (stabilità lavorativa, livello di preparazione, cooperazione tra colleghi), per assetti organizzativi (orari, comunicazioni, accessibilità di dirigente e docenti, servizi accessori). Eppure queste informazioni circolano solo attraverso il passa-parola, come ben sa chi abbia affrontato il problema di scegliere in quale scuola iscrivere i propri figli. Iniziative di organizzazioni private (quali Eduscopio della Fondazione Agnelli) riscuotono tanto successo non per caso ma perché coprono un terreno che l’operatore pubblico preferisce trascurare.

Fornire informazioni corrette aiuta la scelta degli utenti. Eppure questo finora non è accaduto, forse perché se ne temono le conseguenze. È chiaro che quando risultasse, nero su bianco, che una scuola è in difficoltà, almeno una parte dei genitori (probabilmente quelli più istruiti) tenderà ad evitare di iscrivervi i propri figli. E il risultato sarà l’ulteriore impoverimento dell’utenza. Ma nascondere il problema sotto il tappeto non è una risposta adeguata. Sappiamo per esperienza che esistono sul territorio nazionale scuole di questo tipo: elevata quota di alunni stranieri o figli di stranieri; elevata quota di insegnanti precari; assenza di un dirigente titolare e affidamento in reggenza; e con elevata probabilità troveremo anche bassi risultati ai test Invalsi e/o elevati tassi di abbandono. Come si ritiene di poter affrontare questi problemi ?

Fino ad oggi nessun intervento specifico è stato messo in cantiere. La valutazione delle scuole (si noti bene: “delle scuole” e non “degli insegnanti”) avrebbe proprio lo scopo di rendere evidente l’esistenza del problema. È stato grazie alle indagini PISA (la prima nel 2000), successivamente confermate dalle rilevazioni dei test Invalsi, che si è messo in luce il divario territoriale tra scuole nel nord e scuole nel sud del paese, nonostante il centralismo (almeno formale) del nostro sistema scolastico. Ed è anche grazie a questa evidenza che sono state canalizzate risorse aggiuntive, attraverso i fondi europei, alle reti di scuole nelle quattro regioni obiettivo.

Certo l’informazione valutativa serve a avviare il miglioramento quando si verifichino simultaneamente due condizioni:
a) l’informazione è rilevante ai fini del processo in atto
b) si attivano, spontaneamente o programmaticamente, azioni di cambiamento.

Il primo punto si riferisce al fatto che occorre evitare la diffusione di informazioni sensibili ma irrilevanti sul piano pedagogico. Sapere quanti alunni disabili sono iscritti in una scuola è informazione che non deve essere diffusa. Sapere, invece, qual è il tasso di assenteismo degli insegnanti (o se si preferisce la quota di loro che ha chiesto il trasferimento in altra scuola) è invece un’informazione che dovrebbe essere diffusa, perché rileva per la qualità dell’attività didattica. Analogamente il grado di soddisfazione di genitori e/o studenti in riferimento alla scuola frequentata è un’altra informazione che andrebbe diffusa, perché permette ai nuovi potenziali fruitori di ponderare meglio la propria scelta. Una norma che era contenuta nel progetto originario della buona scuola (art.15) e che è caduto nel passaggio alla Camera prevedeva la possibilità di destinare la quota del 5 per mille alle scuole. Al di là della sua iniquità fiscale (dovuta al fatto che avrebbe favorito le scuole collocate nei territori più ricchi), questa norma avrebbe fornito una misura oggettiva ed evidente del grado di soddisfazione da parte degli utenti.

Il secondo punto richiama l’attenzione sulla necessità che le differenze evidenziate dal processo valutativo producano risposte: da parte delle Direzioni scolastiche regionali, dei dirigenti e degli insegnanti delle scuole per le quali emergano difficoltà. E quando queste risposte non siano tempestive, non ci sarà da sorprendersi se queste scuole perderanno iscritti e, nel medio periodo, possano anche essere chiuse. Diciamolo senza scandalizzarci: le scuole scadenti o vengono rivitalizzate o è meglio chiuderle. Non penseremmo forse la stessa cosa di ospedali scadenti, dove ci si ammala invece che guarire ? A questa obiezione normalmente si risponde con l’argomento che la scuola è un servizio pubblico a base territoriale. E che spesso la bassa performance di una scuola è il riflesso del basso livello culturale di un territorio arrivando a affermare che, anzi, la scuola agisce come baluardo contro l’ulteriore degrado. Tutti questi sono argomenti nobilissimi, che ci dicono quanto sia difficile valutare una scuola relativamente al contesto sociale in cui opera. Ma esistono gli strumenti statistici per scorporare gli effetti ambientali nella misurazione della performance di una scuola.

Per questo l’articolo 14 del decreto sulla buona scuola potrebbe rappresentare l’elemento più rivoluzionario del progetto stesso. Ma dipenderà fortemente dalla modalità con cui verrà attuato. Se i fruitori finali verranno inondati con un eccesso di numeri tra cui sarà difficile districarsi, non sarà stato raggiunto lo scopo. Alternativamente, ed è quello che mi auguro, si potranno mettere in moto dinamiche migliorative efficaci.

Schede e storico autori