La tragedia del Mottarone e la carenza di vaccini nei paesi poveri: fenomeni diversissimi, ma con qualcosa in comune

Marcello Basili e Maurizio Franzini di fronte alla immane tragedia del Mottarone si chiedono se eventi catastrofici pur diversissimi, come la caduta della cabinovia e la pandemia, non abbiano elementi comuni, utili anche per prevenirli. Senza disconoscere il ruolo delle motivazioni individuali – ad iniziare dall’avidità – i due autori si concentrano sulla difficoltà ad agire razionalmente di fronte a eventi potenzialmente catastrofici (anche per se stessi) ma con piccolissima probabilità di verificarsi e ne traggono implicazioni per le disuguaglianze e il disegno delle istituzioni.

«Sulla funivia sono saliti pure i miei figli, se avessi avuto dubbi sulla sicurezza, domenica non gli avrei mai fatto prendere la funivia» così ha dichiarato, stando ai giornali, Gigi Nerini, il gestore dell’impianto del Mottarone indagato per la tragedia del 23 maggio scorso.

Se accettiamo come vera questa affermazione, che è di tenore analogo a quelle di altre persone coinvolte nelle indagini, dobbiamo ritenere che alla base del comportamento, sicuramente negligente e colposo, ci fosse però la “ragionevole sicurezza” che mai e poi mai potesse verificarsi la rottura della fune traente dell’impianto. Si può rappresentare la situazione come un albero decisionale con due nodi, il primo in cui la Natura, il caso se vogliamo, fa la sua mossa, la fune traente si rompe o non si rompe, e la seconda in cui sono gli esseri umani a compiere la loro: manometto o meno i freni. Una volta accettata questa rappresentazione, possiamo ritenere che l’essere umano calcoli il valore di questa “lotteria composta” considerando le probabilità che associa ai diversi eventi: la fune si rompe o non si rompe; manometto o non manometto i freni di sicurezza, e prenda la sua decisione, cioè compia la sua azione, basandosi sul principio del massimo o sue approssimazioni.

In questo modo di ragionare, che è quello che utilizziamo quando prendiamo una decisione in condizioni di rischio, c’è però una drammatica criticità: l’esistenza di eventi estremi, come la rottura della fune traente, a cui è associata una piccola o piccolissima probabilità ma una conseguenza catastrofica, in questo caso la morte dei passeggeri. In questa prospettiva la tragedia del Mottarone non è diversa da quella del Cermis, da quella del Piontello, ecc.

Con tutte le necessarie cautele le parole di Nerini si possono accostare a quelle che molto spesso i responsabili dei governi di tutto il mondo hanno fatto risuonare nei mesi scorsi per sostenere che la pandemia da Covid 19 non poteva essere prevista e quindi ben poco poteva essere fatto per evitare o almeno limitare i suoi drammatici effetti.

All’origine di queste azioni, l’elemento comune è la dichiarazione da parte di chi avrebbe potuto fare qualcosa per evitare esiti così catastrofici di aver agito sulla base della convinzione che l’evento che ha causato quella catastrofe non rientrasse tra quelli possibili o, almeno, prevedibili.

Tutto ciò non può non sollevare domande angosciate visto che la conseguenza di questa mal posta convinzione è, in entrambi i casi, e nelle rispettive proporzioni, una perdita di vite umane. 14 quelle del Mottarone, infinitamente di più quelle della pandemia. Quante siano queste ultime non è ancora certo, ma molto probabilmente assai di più dei circa 3,5 milioni a livello globale derivanti dai dati ufficiali che riportano anche 169 milioni di contagi. In un recente articolo pubblicato su The Institute for Health Metrics and Evaluation (IHME) dell’Università di Washington si stima che le morti per Covid-19 siano state in realtà 6,9 milioni, cioè 2,5 volte quanto riportato nelle statistiche ufficiali. Come era da attendersi la maggiore discrepanza si ha per paesi come: India, Iran, Messico, Brasile, Egitto, Russia e molti stati dell’Europa orientale e dell’Asia centrale; ma anche i paesi più industrializzati come USA, Italia, Germania, UK, Francia. Spagna ecc., mostrano livelli di mortalità in eccesso rispetto a quelli dichiarati e stimati dal Case Fatality Rate, attualmente attorno al 2-3%.

Ma al di là di questi inquietanti dati la riflessione che vale la pena di fare riguarda le ragioni per le quali fenomeni catastrofici come questi non vengono previsti. Perché era impossibile prevederli? Perché conviene comunque non prendere le precauzioni che sarebbero in grado di prevenirlo o almeno di ridurre le loro conseguenze negative (Risk Management e Risk Mitigation)? O anche perché vi sono problemi che riguardano la capacità di corretta valutazione di questi rischi e del loro verificarsi (Risk Assessment)?

Rispetto alla tragedia del Mottarone si è sostenuto che la causa di tutto sia stata l’avidità. Sarebbe del tutto fuori luogo escludere che l’avidità esista e che possa spingere a comportamenti dannosissimi per gli altri. Ma in questo caso l’avidità ha anche portato a conseguenze non lievi per il decisore, conseguenze che non erano certo ignote quando sono stati scelti quei comportamenti. Naturalmente si può sostenere che più che l’avidità sia stata la disperazione a spingere ad accettare rischi enormi anche per se stessi. Ma vi sono valide ragioni per ritenere fondata la dichiarazione di Nerini e per riconnetterla a un fenomeno più generale e diffuso: la difficoltà a trattare razionalmente fenomeni che hanno una probabilità bassa di verificarsi ma che sono potenzialmente catastrofici.

Qualcosa di analogo si può dire rispetto alla sottovalutazione – a livello globale – del rischio da pandemia. Come abbiamo sostenuto sul Menabò quando la pandemia si era appena manifestata, dal mondo scientifico erano pervenuti allarmi sul rischio che si diffondesse un agente patogeno aerobico con potenziali effetti devastanti sulla salute e la vita delle persone, nonché sui sistemi economici.

Dunque non occorre necessariamente assumere che le intenzioni dei singoli siano le peggiori (anche se spesso vi sono ottimi motivi per farlo) per prevedere comportamenti come quelli che sono all’origine di questi drammatici fenomeni.

L’esistenza di eventi potenzialmente catastrofici caratterizzati da piccolissime probabilità rende lo schema decisionale basato sul calcolo del valore atteso della lotteria inadeguato, anzi sbagliato, e richiede di ricorrere a un altro schema di valutazione che tenga conto della discontinuità introdotta nel processo decisionale dalle probabilità piccole. Le piccole probabilità, che gli esseri umani hanno estrema difficoltà a comprendere correttamente, violano drammaticamente l’assioma di continuità, cioè l’assioma che dice che la decisione del soggetto non cambia se facciamo variare di poco le probabilità.

Immaginiamo di essere in una situazione in cui la probabilità del verificarsi di un evento catastrofico sia 1/100.000.000 (evento fortemente improbabile), il valore atteso della catastrofe nel nostro processo decisionale sarà basso e agiremo come se non esistesse, ma se la probabilità cresce diventando per esempio 1/1.000.000, come di fatto avviene per gli eventi catastrofici, allora il valore atteso della catastrofe può risultare enorme e rovesciare la nostra decisione, rendendo così le nostre scelte incoerenti. Ma cosa accade se la nostra percezione, abitudine e sopravvalutazione delle nostre abilità (overconfidence), ci portano a essere eccessivamente ottimisti rispetto al verificarsi dell’evento avverso? Semplicemente non teniamo conto correttamente di queste potenziali catastrofi, le ignoriamo e agiamo come se non potessero mai accadere!

Per evitare il riproporsi di fenomeni come questi non occorre attendere un’improbabile, ma pur sempre auspicabile, rigenerazione morale dei vari decisori. Quello che certamente occorre fare è correggere questi ‘errori cognitivi’ e la normativa può aiutare a farlo. Introdurre cioè regole decisionali e procedurali che tengano conto effettivamente della possibilità del verificarsi di eventi estremi attraverso l’uso di: distribuzioni di probabilità di Pareto o a code spesse, regole decisionali derivate da funzioni quantiliche o ricorrendo all’applicazione del principio di precauzione che in queste circostanze dovrebbe rappresentare la stella polare nel mare ignoto delle scelte. Si tratta in primo luogo di contrastare la convinzione per cui aumentare di n volte i centimetri del diametro della fune traente, e quindi la capacità di carico della fune, sia sufficiente a impedire il verificarsi della sua rottura. Se questa conclusione è falsa, è l’idea stessa alla base della progettazione di questi impianti che va cambiata, perché se è vero che in questo caso l’azione dei freni avrebbe potuto impedire il disastro, è altrettanto vero che nel caso della tragedia del Cermis, troppo in fretta dimenticata, questo non avvenne.

Una questione di grande importanza rispetto alla quale appaiono quanto mai pertinenti le considerazioni che precedono è quella della vaccinazione a livello globale. È oramai piuttosto noto, come abbiamo argomentato anche sul Menabò, che tra ridotta capacità produttiva, protezione della proprietà intellettuale, iniqua distribuzione dei vaccini a livello globale e limiti della capacità di vaccinazione nei paesi più poveri in questi ultimi paesi non si riuscirà a raggiungere un significativo tasso di popolazione vaccinata nei paesi a reddito medio e basso neanche entro il 2022. I rischi per tutti di questa situazione sono stati ricordati molte volte: più facile emergenza di varianti del virus con conseguenze negative anche per i paesi più ricchi e più vaccinati. Ignorare questo rischio è grave non troppo diversamente da quanto è grave ignorare che i freni potrebbero evitare catastrofi nelle cabinovie e i piani pandemici potrebbero salvare molte vite umane e ridurre i costi anche economici della pandemia.

In autunno avremo bisogno di diversi miliardi di dosi di vaccini sia per i “richiami” che per le prime vaccinazioni, Allo stato abbiamo una capacità produttiva massima di circa due miliardi di dosi. Proprio in forza del principio di precauzione, non sarebbe il caso di approntare nuovi siti produttivi, la cui messa in opera richiede molti mesi, per soddisfare una così enorme domanda e realizzare un trasferimento di tecnologia imponendo alle imprese farmaceutiche delle liability sui vaccini?

Tutti i casi che abbiamo considerato sono casi nei quali una maggiore attenzione alla possibilità di verificarsi di eventi catastrofici può aiutare a prevenire questi ultimi o almeno a contenere i loro costi. Ma occorre anche considerare che non vi sono soltanto rischi dai quali non si riesce ad essere protetti per i difetti ‘cognitivi’ (o di altra natura) dei decisori. Vi sono anche rischi ben individuati che si può evitare di correre mettendoli coscientemente in capo ad altri. Il riferimento a quello che accade con i brevetti privati e il finanziamento pubblico della ricerca (specie nel campo dei vaccini) è tutt’altro che casuale. Qui il decisore politico protegge il soggetto potenzialmente esposto al rischio (di insuccesso) e lo fa chiedendo ad altri di accollarsi di fatto quel rischio, attraverso l’impiego di risorse pubbliche.

Si può allora cercare di trarre una morale da tutto quello che precede: una delle forme più gravi di disuguaglianza, in larga misura invisibile, è quella che riguarda chi sopporta i rischi e perché li sopporta, per difetti cognitivi dei decisori, per il potere economico – e non solo – di chi è in grado di trasferire ad altri i rischi o per altro ancora. Le istituzioni dovrebbero essere disegnate in modo da tenere in maggior conto tutto ciò. In fondo, a ben guardare, il Welfare state è nato con questo scopo anche se con riferimento a un insieme limitato di rischi sociali. Queste esperienze possono essere prese come un urgente invito ad ampliare l’ambito dei rischi rispetto ai quali si rende necessario un’innovazione nel disegno istituzionale, quale potrebbe essere quella che riconoscesse piena cittadinanza al principio di precauzione e a un paternalismo illuminato che correggesse i bias cognitivi che producono esiti catastrofici. In questo modo si potrebbe neutralizzare una poco visibile causa di disuguaglianza, quella nella protezione dal rischio, che si traduce spesso nella più iniqua delle disuguaglianze, quella dell’esistenza in vita per deficienze istituzionali.

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